Perché non si può non dirsi cristiani anche senza esserlo.

Tettamanzi

Card. Dionigi Tettamanzi

Il Foglio, mercoledì 18 ottobre 2006

Lettera di un ateo devoto a S.E.R. Dionigi cardinale Tettamanzi.

Perché non si può non dirsi cristiani anche senza esserlo.

Misera l’alternativa tra un cristianesimo muto e uno impostore

Eminenza reverendissima, Dionigi cardinale Tettamanzi, arcivescovo di Milano, da molto tempo una parte della chiesa impegna le proprie energie a polemizzare, ammonire, mettere in guardia i fedeli da un pericolo: ci sono dei laici, si dice, e perfino degli atei, che invece di convertirsi e condurre una vita cristiana nelle parrocchie, svolgendo la funzione propria del laicato cattolico secondo gli insegnamenti del Concilio Vaticano II e nel quadro della dottrina sociale della chiesa, tirano in ballo Dio e abusano del nome di Cristo Gesù per scopi poco chiari, presumibilmente politici nel senso più deteriore e partigiano del termine, contraddicendo ogni ottimismo, ogni speranza, ogni senso della differenza cristiana che è fatta di spirito di accoglienza, di fraterno dialogo tra le religioni, di amore e di pace fra tutti gli uomini di buona volontà. Nella sua prolusione a Verona, Ella ha  riassunto questo monito nell’affermazione, paurosamente tautologica e dunque vuota di senso nonostante la santa attribuzione antiochena, che è “meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarsi cristiani senza esserlo”.

Se l’alternativa fosse tra un cristianesimo muto e un cristianesimo impostore, lei avrebbe ragione nello scegliere l’umiltà privata della vita cristiana che perde la parola e rifiuta la cultura, ma il Suo encomiabile ottimismo antropologico, la Sua convinzione che la dimensione della crisi contemporanea vada superata con atti e iniziative di buona volontà nel solco di una dottrina conciliare impermeabile alla storia in cammino, e a volte anche in corsa con la perdita di senso, si darebbe la classica zappa sui piedi. Ci sarebbe poco da stare allegri.

Dirsi cristiani senza esserlo, eminenza, è la parafrasi di un saggio celebre di un filosofo napoletano del secolo scorso, il laico e liberale Benedetto Croce, che le consiglio di rileggersi. Vedrà che lì non c’è impostura, ma una base interessante per il dialogo tra fede e ragione che, senza escludere e anzi per inverare il progetto di carità che è il succo del cristianesimo, è oggetto della cura premurosa e appassionata di Roma da oltre un quarto di secolo. Un dialogo al quale si sono appellate la “Veritatis splendor”, la “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II e l’intera opera teologica e pastorale di Joseph Ratzinger e di Benedetto XVI, che come Ella sa bene sono la stessa persona.

Anche il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinal Ruini, ha manifestato un sereno e distaccato interesse, più volte, per le convergenze possibili, in materia di ragione laica inclusiva del ruolo pubblico della fede, in materia di criteri etici non negoziabili, con quelle tendenze “culturali” che nel mondo occidentale e particolarmente in America e in Italia (ma la Francia sta prendendo anch’essa lo slancio) si vanno affermando con modalità e a stadi di sviluppo diversi.

Se il Suo discorso contro l’impostura pseudocristiana riguardasse politici maldestri, come il presidente del Senato nella scorsa legislatura, che hanno invocato l’amicizia degli ecclesiastici, e perfino del Papa, a scudo protettivo per beghe di cortile politico in quel di Lucca, si abbia tutta la nostra comprensione, ma è un de minimis che ci farebbe soltanto perdere tempo.

Se invece nelle Sue parole si riverberasse una scelta favorevole al cattolicesimo cosiddetto democratico, quello che con un linguaggio durissimo censurava ieri un ex presidente della Repubblica noto per i suoi fervori e furori e malumori di credente e di fedele e di cattolico liberale ribelle, allora si tratterebbe di una scelta politico ecclesiastica legittima in favore del partito dei cattolici adulti, ed è inutile mascherarla da protezione della genuinità della fede contro le intromissioni della politica. In ogni caso, per quanto conti, noi nel nostro piccolo non c’entriamo un bel nulla con queste fobie, imposture e mascheramenti.

Noi cosiddetti “atei devoti”, cioè credenti e non credenti che non possono non dirsi cristiani e si sono autorifilati un nomignolo falso e provocatorio, conduciamo un limpido discorso pubblico, fatto di ascolto e di parola  modesta ma viva, mai di rassegnazione e di autocensura, il cui scopo non è quello di essere legittimati dai preti o legittimare il ruolo pubblico della religione come elemento di un’agenda di bassa cucina politica.

Non facciamo corridoio, non chiediamo udienza, siamo aperti al dialogo o al rigetto polemico nella chiesa e delle chiese neosecolariste e postsecolariste con equivalente serenità e autonomia di spirito. Ci sembrò interessante la “Dominus Iesus”, e la pubblicammo perché se ne discutesse. Ci sembrò importante il Mea culpa giubilare, e ne parlammo liberamente.

Amammo Giovanni Paolo II, e dicemmo il nostro amore che si nutriva di mille ragioni, comprese quelle legate alla libertà politica nel mondo e alla riaffermazione non dogmatica, ma corporale e perfino atletica, dell’identità ebraico-cristiana in occidente. Ci stimolano le esperienze del laicato movimentista, quelle di alta pedagogia e modernissime di un don Giussani, ma anche quelle orientalistiche di un Sant’Egidio o i carismi febbricitanti che parlano di un’apostasia dell’Europa da combattere (neocatecumenali).

Ci appassiona l’elaborazione culturale e dottrinale di quello che consideriamo uno dei maggiori pensatori cristiani a cavallo del secolo, Joseph Ratzinger, che abbiamo salutato con un applauso amabile dopo la sua elezione al soglio petrino, di cui eravamo intimamente certi.

Ma ci piace anche discutere con i suoi critici, ammiriamo la cocciutaggine conciliare della scuola di Bologna, l’erudizione in fatto di storia cristiana dei suoi maestri e allievi, spaziamo liberamente e criticamente dove ci porta la testa, se non il cuore. Inoltre, e questo Ella dovrebbe saperlo bene, vista la Sua formazione di bioeticista cattolico, abbiamo a cuore la battaglia non contro la legge sull’aborto, ma contro la banalizzazione culturale dell’aborto, la sua trasformazione in diritto liberale, e contro una concezione creatrice, nel senso tecno-scientista del termine, anziché creaturale dell’esistenza umana contemporanea.

Abbiamo poi, e mal ce ne incolse per via degli interessati travisamenti politici conseguenti, difeso il diritto di un cattolico a fare il commissario europeo con le sue idee, una volta stabilito il confine tra morale e legge nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche.

E abbiamo avviato con un po’ d’anticipo polemiche sapide sullo zapaterismo, sul mondo incantato e perduto di un poeta come Almodóvar, quel cervantino senza Cervantes che ha dato il suggello estetico necessario al progetto di scristianizzazione totale della famiglia e del matrimonio, fino alla derubricazione zapaterista dei nomi di moglie, marito, padre e madre, sostituiti da coniuge A e B e progenitore A o progenitore B.

Infine, non ci piace la torsione dello spirito pubblico europeo in direzione della Mecca, non perché siamo insensibili al fascino spirituale dell’islam o banalmente impauriti dallo straniero, ma perché pensiamo che integrazione e composizione degli scontri in atto tra faglie di civiltà debbano realizzarsi, per così dire, senza vincitori né vinti. E se proprio un vincitore avesse da esserci, vincitrice ha da essere quella civiltà che incorpora, secondo la lezione di Regensburg, ebraismo, grecità e cristianesimo in un concetto di persona e di diritto compatibile con una società aperta.

Con osservanza, e nella speranza che il Suo alto monito, sincero nelle intenzioni e nelle paure, sia accolto criticamente, come occasione di riflessione, dai laici e sacerdoti riuniti in Verona.