«Tu es Petrus»

Marcel_Lefebvre

Mons. Marcel Lefebvre

Cristianità n. 158-160 (1988)

Le forzature del Concilio Vaticano II, il disagio dei tradizionalisti, la nascita e la strumentalizzazione del caso Lefebvre

di Giovanni Cantoni

La nascita del «caso Lefebvre»

Il 30 giugno 1988, a Ecône, nel cantone svizzero del Vallese, ha preso forma definitiva il «caso Lefebvre», al termine di una vicenda che ha segnato in modo rilevante la vita della Chiesa cattolica e della Cristianità, come mondo cattolico, almeno a partire dagli anni Settanta. Mons. Marcel Lefebvre – vescovo dal 18 settembre 1947, prima titolare di Antedone, poi arcivescovo titolare di Arcadiapoli di Europa, quindi primo arcivescovo di Dakar, in Senegal, poi ancora vescovo di Tulle, in Francia, infine arcivescovo titolare di Sinnada di Frigia, nonché superiore generale della Congregazione dello Spirito Santo – ha, in questa data, compiuto un atto scismatico: ha infatti proceduto – senza mandato pontificio, anzi, espressamente contro la volontà del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II – alla consacrazione episcopale di quattro presbiteri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, da lui fondata alla fine degli anni Sessanta, e cioè dell’inglese Richard Williamson, del francese Bernard Tissier de Mallerais, dell’argentino Alfonso de Galarreta e dello svizzero vallesano Bernard Fellay.

A causa di questo gesto gravemente illecito il presule francese è ipso facto incorso, con i quattro consacrati, nella scomunica dichiarata dalla Santa Sede il giorno successivo, il 1° luglio, con decreto firmato dal cardinale Bernardin Gantin, prefetto della Congregazione per i Vescovi. Nella stessa censura è incorso mons. Antonio de Castro Mayer, vescovo emerito di Campos, in Brasile, in quanto conconsacrante e pubblicamente aderente all’atto scismatico.

All’origine del «caso»: preconcilio, Concilio e postconcilio

La nascita del «caso Lefebvre» – come, nei mesi precedenti, le sue doglie e, negli anni precedenti, la sua gestazione – è stata seguita dai mass media con un dovizioso notiziario e il fatto è stato commentato secondo le più diverse prospettive, ma – a mio avviso – quasi sempre in modo sostanzialmente inadeguato sì da renderne l’immagine di volta in volta imprecisa o perché troppo lontana o perché falsata dalla esasperazione di qualche particolare, per lo più miscelando in pezzi di colore osservazioni dottrinali e notazioni sociologiche.

Per comprendere il «caso» in questione è indispensabile richiamare previamente alcune categorie generalissime: la Chiesa, il germe e l’inizio del Regno di Dio nella storia, è sempre stata attaccata dall’esterno con persecuzioni amministrative e/o cruente e dall’interno attraverso apostasie, eresie e scismi, cioè con procedimenti di «autodemolizione»; e questa doppia aggressione, che ha come motore primo il seminatore di zizzania (1), trova esca nell’umana debolezza post peccatum e, se è descrivibile con sufficiente precisione in tesi, nell’ipotesi costituita da ogni situazione storica si presenta come un groviglio non facilmente districabile non solo a scopo terapeutico ma anche, prima, a fine diagnostico.

Infatti, la Città di Dio e la Città del demonio si confondono nella Città degli uomini, e la natura decaduta, e quindi peccabile, si manifesta in peccati e in vizi che si intersecano con atti buoni e con comportamenti virtuosi, e tutte le azioni umane – di qualunque natura – vanno a loro volta a segnare strutture storiche.

Per comprendere il «caso» in questione è quindi necessario risalire oltre il Concilio Ecumenico Vaticano II e situare la Chiesa all’interno della crisi della Cristianità come proiezione sociale del suo influsso, nonché delle conseguenze dì questa crisi sulla vita del mondo intero, cioè all’interno del processo di sovvertimento sociale che – scandito in più fasi – è stato preparato dalla rivoluzione culturale rinascimentale e, dopo una prima rottura, religiosa, la Riforma protestante; una seconda, politica, la Rivoluzione detta francese, e una terza, economica, l’irruzione del movimento socialcomunista, dal 1968 lavora alla socializzazione della rivoluzione culturale iniziale, operando per il degrado aperto e generalizzato del costume (2).

Fatto questo quanto all’habitat, si deve passare agli aspetti interni e chiedersi – con mons. Luigi Maria Carli, uno dei protagonisti del Concilio – «come mai possa essersi scatenato nella Chiesa un simile turbine di idee sovvertitrici dopo un Concilio che avrebbe dovuto, viceversa, segnare l’inizio fermo e deciso di un rinnovamento salutare. Si deve rispondere che il progressismo non è nato né dal Concilio né dopo il Concilio. Esso non è che la esplosione più violenta, più vasta, più organizzata di un fenomeno dottrinale iniziato, più o meno in sordina, tra gli anni 1930- 1940 […]: […] ” la nuova teologia”, […] che in effetti altro non era che una nuova edizione riveduta e peggiorata del modernismo» (3).

Ricostruita questa genealogia – progressismo, «nuova teologia», modernismo, da fondare forse più radicalmente proseguendo, sempre a ritroso, fino al giansenismo e al protestantesimo – «nulla vieta di vedere nel Vaticano II l’occasione propizia in presenza della quale ciò che di aberrante, da qualche tempo, ribolliva sotto la superficie di una calma apparente nella vita della Chiesa, è esploso virulento alla luce del sole. Il Concilio ha fatto da catalizzatore di reazioni di vario tipo già esistenti, allo stato sparso, in seno alla cattolicità. Il ” simius Dei” , Satana, sommamente interessato, ci soffia sopra. Lui che ha lavorato prima e durante il Concilio per impedire o almeno adulterare l’opera di Dio, non s’è messo in pensione a Concilio ultimato. Ne va del suo principato (cfr. Giov. 13,21) che quel movimento salutare, iniziatosi suo malgrado, prenda almeno una falsa direzione» (4).

Al Concilio si è poi accompagnata «l’attività del cosiddetto ” paraconcilio” , cioè di quell’ambiente di persone e di idee che, dopo aver cercato di influire sul Concilio mentre esso si svolgeva, è rimasto in piedi anche a Concilio finito, ingrandendosi e direi quasi istituzionalizzandosi. Questo paraconcilio, con le sue vittorie e le sue sconfitte, con le sue soddisfazioni e le sue insoddisfazioni, con i suoi propositi e i suoi spropositi è quello che anima la crisi attuale e contrappone la sua opera alla serena fruttificazione delle idee seminate dal Concilio. Il paraconcilio, pretendendo di essere l’autentica vestale dello spirito del Concilio, deve necessariamente abusare dei testi conciliari. Ma di quali mai santissime cose l’uomo non è capace di abusare?» (5).

A questo punto, «bisogna onestamente riconoscere che l’esplosione della crisi, non causata dal Concilio, può essere stata indirettamente facilitata non solo da situazioni esteriori alla Chiesa, ma anche da taluni aspetti caratteristici dello stesso Vaticano II.

«A differenza dei precedenti Concili aventi obiettivi molto delimitati e soprattutto specifici errori da contrastare, l’ultimo Concilio si diede espressamente un carattere pastorale. Di qui la vastità e la genericità delle tematiche da  affrontare, con la inevitabile conseguenza di non poter sviscerare a fondo ogni argomento, né soppesare con la bilancia della rigorosa alchimia teologica tutt’e singole le espressioni adoperate. Non venendo in questione l’infallibilità dei pronunciamenti, è ovvio che si sia badato più alla formulazione pratica che non a quella dottrinale delle singole frasi, e si sia così ottenuta la quasi unanimità dei suffragi su testi dei quali si attendeva più alla sicurezza generica del pensiero che non alla precisione del singolo dettaglio. Era poi nella tradizione plurisecolare, a cominciare da Nicea, che un testo conciliare attinente alla Fede o alla Morale avesse valore definitorio, e quindi ultimativo, delle questioni affrontate. Invece il Vaticano II espressamente escluse la volontà di nuove definizioni dogmatiche, pur presentando il proprio insegnamento come dottrina cattolica; e così, piuttosto che chiudere vecchie controversie ne aprì di nuove.

«Va inoltre rilevato, con tutto il rispetto, che la preparazione del Concilio fu forse un po’ troppo affrettata. Lo storico imparziale dovrà ammettere che vennero portate in Aula materie non ancora sufficientemente maturate dal lavorio delle varie scuole teologiche. Dovrà pure ammettere che i testi del Vaticano II, le citazioni bibliche in essi contenute, la concatenazione delle parti, l’uso dei vocaboli non sono sempre lo specchio dell’assoluta pertinenza, della precisione, della coerenza, della limpidezza inequivocabile. La pubblicazione degli atti […] smentirà tante inesatte interpretazioni; ha già cominciato a farlo, per suo conto, la Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica dei documenti conciliari. Ma resta il fatto che talvolta il testo, non già l’intenzione dei Padri, offre l’appiglio ad aberranti interpretazioni. La mole delle materie, il poco tempo a disposizione, e forse anche … lo zampino di qualche addetto ai lavori, non consentì di esaminare a fondo tutti gli emendamenti, con le relative argomentazioni, che una minoranza di Padri, spesso derisi dalla stampa e da faziosi pubblicisti di cose conciliari come pignoli o addirittura come sabotatori del Concilio, chiedevano per la chiarezza del dettato» (6).

Questi elementi erano certamente presenti a Papa Paolo VI quando, pochi giorni prima della chiusura dell’assise, dava indicazioni relative all’«atteggiamento dei nostri animi nel periodo post- conciliare»: «La celebrazione del Concilio – notava – ha suscitato, a Nostro avviso, tre differenti momenti spirituali. Il primo fu quello dell’entusiasmo; era giusto che così fosse: stupore, letizia, speranza, un sogno quasi messianico accolsero l’annuncio dell’attesa e pure inattesa convocazione; un soffio di primavera passò al principio su tutti gli animi. Seguì un secondo momento: quello dell’effettivo svolgimento del Concilio, e fu caratterizzato dalla problematicità; un tale aspetto doveva accompagnare quello del lavoro conciliare, che fu, come voi sapete, immenso […].

Ma in alcuni settori dell’opinione pubblica tutto diventò discusso e discutibile, tutto apparve difficile e complesso, tutto si tentò di sottoporre alla critica e all’impazienza delle novità; apparvero inquietudini, correnti, timori, audacie, arbitri; il dubbio investì qua e là perfino i canoni della verità e dell’autorità, finché la voce del Concilio cominciò a farsi sentire: piana, meditata, solenne. Ed in questo ultimo scorcio del Concilio le sue gravi e incoraggianti parole diranno quale dev’essere la forma della vita della Chiesa. Viene perciò il terzo momento a cui ciascuno deve disporre il proprio spirito. La discussione finisce: comincia la comprensione. All’aratura sovvertitrice del campo succede la coltivazione ordinata e positiva.

La Chiesa si ricompone nelle nuove norme che il Concilio le ha date: la fedeltà le caratterizza: una novità le qualifica, quella della accresciuta coscienza della comunione ecclesiale, della sua meravigliosa compagine, della maggiore carità che deve unire, attivare, santificare la comunione gerarchica della Chiesa. È questo il periodo del vero “aggiornamento”, preconizzato dal Nostro predecessore di venerata memoria Giovanni XXIII, il Quale a questa programmatica parola non voleva certamente attribuire il significato che qualcuno tenta di darle, quasi essa consenta di “relativizzare” secondo lo spirito del mondo ogni cosa nella Chiesa, dogmi, leggi, strutture, tradizioni, mentre fu così vivo e fermo in lui il senso della stabilità dottrinale e strutturale della Chiesa da farne cardine del suo pensiero e della sua opera. Aggiornamento vorrà dire d’ora innanzi per noi penetrazione sapiente dello spirito del celebrato Concilio e applicazione fedele delle sue norme, felicemente e santamente emanate» (7).

Se la lettura della situazione è – dal punto di vista della periodizzazione strutturale – perfetta, si doveva rivelare inadeguata quanto ai tempi. Infatti l’autorità della Chiesa – a partire dallo stesso Papa Paolo VI – indossava fin da subito il disagio postconciliare, omogeneo al «secondo momento», enunciava a suo proposito giudizi talora drammatici e prendeva posizioni sempre più incisive, in un crescendo dalla lamentela alla denuncia, quindi dall’esortazione all’intervento, in analogia con il mutare dell’atteggiamento della Santa Sede nei confronti delle problematiche suscitate dalla modernità, mutamento che si è venuto verificando nella transizione dal pontificato di Papa Pio IX e, soprattutto, da quello di Papa Leone XIII a quello di Papa san Pio X: così si è passati dai pontificati di Papa Pio XII e di Papa Giovanni XXIII ma – soprattutto – di Papa Paolo VI a quello del regnante Pontefice Giovanni Paolo II, trascurando l’effimero pontificato di Papa Giovanni Paolo I, pressoché impossibile da decifrare per esiguità di materia.

Così, particolarmente negli ultimi dieci anni della vita della Chiesa, l’autorità è venuta operando una lettura del Concilio Ecumenico Vaticano II in intenzionale continuità con la costante Tradizione della Chiesa stessa, attraverso prese di posizione ufficiali, documenti e autorevoli dichiarazioni d’intenti nonché con comportamenti intesi ad autenticare i pronunciamenti dell’assise e la loro dottrina, sia nella loro conformità al deposito e alla sua interpretazione tradizionale che nella loro novità, sempre – comunque – con tale deposito coerente e a esso non mai radicalmente opposta, quand’anche rilevante. Così, ancora, la condanna di deviazioni interpretative e di abusi operativi ha lavorato allo scopo di dare tempestivamente al «terzo momento» auspicato da Papa Paolo VI.

L’opera cospicua di chiarificazione e di rettificazione non ha però, purtroppo, impedito che le profonde difficoltà anteriori al Concilio e gli scontri interni a esso e proseguiti dopo la chiusura dell’assise ecumenica, uniti alla propaganda esterna alla Chiesa e alle riforme postconciliari, nonché a giudizi sulla prudenzialità della convocazione e della gestione del sinodo e alla lettera di qualche passo di documento, si siano incistati sul Concilio vero nomine – documenti e interpretazione autentica da parte del Magistero pontificio – , con esso venendo a costituire un blocco pregiudiziale, psicologico prima che concettuale. Grazie a questa operazione sciagurata, fatti intra e/o paraconciliari, documenti conciliari non adeguatamente liberati dalle intenzioni di parte, riforme postconciliari talora strappate alla stessa Santa Sede e abusi non raramente tollerati, quando non promossi, anche a livello di conferenze episcopali (8), non solo non sono stati valutati nella loro singolarità e desolidarizzati dal Concilio vero nomine, ma hanno trovato, semplicemente e semplicisticamente, la loro unificazione in un monstrum deno­minato appunto «Concilio».

E contro questo monstrum – da alcuni acriticamente idolatrato – si è venuta organizzando un opposizione variamente articolata e sfumata ma, soprattut­to, di diversa intensità emotiva, spesso caratterizzata da zelo amaro (9), e che ha trovato la sua espressione maggiore, all’in­terno della gerarchia ecclesiastica, nella persona di mons. Mar­cel Lefebvre e quindi nella sua opera, la Fraternità Sacerdotale San Pio X.

Il protagonismo del presule francese – recepito ed esaltato dai mass media al servizio del paraconcilio – ha finito per far passare in secondo piano prima tutte le altre opposizioni gerarchiche ad abusi interpretativi e applicativi – sia quelle velate che quelle esplicite – , quindi le reazioni non clericali, omogeneizzando e monopolizzando in un ipotetico «fronte anticonciliare» ogni espressione di difficoltà e di disagio, così – di fatto – mettendone in ombra ogni manifestazione culturale e riducendo il fenomeno sia dal punto di vista della sua consistenza sociologica che da quello della sua qualità intellettuale, cioè inducendo a valutarlo pressoché sull’unica base della conta del clero e delle argomentazioni ondeggianti e generalmente imprecise di qualche omelia pronunciata quelque part nel mondo e di qualche dichiarazione raccolta dalla stampa in qualche sacrestia antica o improvvisata.

In questo modo il mondo tradizionalista – nato da quello simpliciter cattolico più per diffidenza nei confronti di novità raramente spiegate e molto spesso mal presentate che per nostalgia di forme del passato e, ancor meno, per consapevolezza delle verità veicolare da tali forme, quando non «creato» dal paraconcilio – è stato lentamente ma inesorabilmente monopolizzato dal «lefebvrismo», che in realtà è stato solo una parte di esso, resa eminente dalla dignità gerarchica del suo esponente maggiore, ma non certo dalla completezza di quadro o dall’approfondimento culturale.

Consumato negli anni e nei decenni questo processo di accaparramento del tradizionalismo da parte del lefebvrismo – processo dai più inavvertito e soltanto da pochi sostanzialmente rifiutato e denunciato, anche se forse con eccessive cautele per timore di indebolire il citato «fronte anticonciliare» – , il dramma è esploso quando mons. Marcel Lefebvre – dopo quasi due decenni di pendolarità irregolare e imprevedibile fra il rifiuto del «Concilio» e la sua accettazione «alla luce della Tradizione» e nella lettura del Magistero vivente postconciliare – ha optato per il rifiuto radicale, rompendo in una non solo con il soggetto principale del Magistero ordinario e straordinario, ma con lo stesso garante dell’unità della Chiesa.

Un’«Ortodossia latina»? 

L’atto scismatico posto dal presule francese ha espunto in modo inequivoco e radicale il lefebvrismo dal mondo tradizionalista e ha dato l’avvio a una Chiesa che, dei ventuno concilî da Nicea al Vaticano II ne accetta soltanto venti sì che – poiché l’Ortodossia orientale si arresta ai primi sette – si può forse, da un punto di vista formale, parlare della nascita di una «Ortodossia latina».

E appunto in quanto «latina», rosa in radice dall’inevitabilmente ambiguo rapporto con il Sommo Pontefice, evidentemente indispensabile alla luce dell’ultimo concilio accettato – il Concilio Ecumenico Vaticano I – ma rifiutato nel suo Magistero vivente degli ultimi trent’anni. Questo modo di porsi rispetto al successore di Pietro sulla Cattedra romana espone alla tentazione di teorizzare il sedevacantismo sia nella sua versione volgare che in quella dotta, che vuole la Santa Sede occupata solo materialmente – , ma, soprattutto, di praticarlo, coprendo le corrispondenti difficoltà dottrinali con il rimando – di scarsa consistenza teologica – a rivelazioni private.

La Santa Sede e il mondo tradizionalista 

Il doloroso accadimento ha colpito – a diverso titolo – sia l’autorità ecclesiastica, soprattutto quella vaticana, sia i tradizionalisti simpliciter.

a. L’autorità ecclesiastica ha potuto verificare – se non scoprire – l’esistenza di una realtà intraecclesiale più irriducibile di quanto immaginasse oppure fosse indotta a credere da sedicenti esperti o presunti tali nonché, eventualmente, sulla base di rilevamenti «ecclesiali» per più ragioni inaffidabili, come per esempio – quello svolto in occasione della concessione dell’indulto liturgico.

b. Molti cattolici tout court si sono forse resi improvvisamente conto di essere stati surrettiziamente trasformati in lefebvriani, sia dai mass media, sia dalla mancanza di accoglienza e di dialogo da parte del personale ecclesiastico, benché spesso portatori di esperienze e di esigenze non esaurite dalle rivendicazioni lefebvriane né quantitativamente né qualitativamente, e benché non avessero mai pensato di definirsi neppure tradizionalisti.

A quest’ultimo proposito, non è inutile far notare come mass media e personale ecclesiastico abbiano rivelato, in questi decenni postconciliari e in occasione degli ultimi avvenimenti, una sensibilità ampiamente, se non esclusivamente, «clericale», ignorando – spesso con una ignoranza invincibile più che maliziosa – lo spessore laicale del fenomeno tradizionalista, grossolanamente identificato con l’audience di riti in lingua latina; in altri termini, hanno dato prova di una sensibilità che il luogo comune definisce preconciliare, come se la Chiesa fosse esaurita dal clero.

I problemi che angustiano i tradizionalisti 

Poiché, almeno dopo l’esplosione del «caso Lefebvre», segni evidenti indicano attenzione da parte dell’autorità ecclesiastica vaticana al fenomeno tradizionalista, alla sua mentalità e al suo mondo, sì che il termine stesso non è mai coinvolto nei documenti di recente emanati, che invece usano con accezione negativa sia «progressismo» e derivati che «conservatorismo» e derivati, pare di qualche utilità segnalare di nuovo – evidentemente in modo riassuntivo e nelle forme oggi adeguate – i problemi di principio e di fatto che angustiano a diverso titolo questa porzione del Popolo di Dio.

Prima di entrare nella materia, merita di essere segnalato il fatto che l’attenzione ecclesiastica pare intenda manifestarsi senza mediazioni inadeguate, quando non tendenziose, dalle quali – per esempio – i tradizionalisti vengono indicati come particolarmente numerosi, e quindi pericolosi, quando si pensa che la denuncia della loro numerosità possa avere come esito una loro condanna, mentre diventano quasi improvvisamente insignificanti, se non inesistenti, quando dovrebbero essere destinatari di provvidenze ad hoc, che perciò vengono sconsigliate in quanto sostanzialmente inutili!

a. Comincio dai problemi di principio, e credo opportuno distinguerli in dottrinali e culturali. Poiché la predicazione totalizzante, che ha portato il suo contributo alla costruzione del fenomeno unitario «Concilio», ha diffuso un sospetto di eterodossia sulla dottrina di documenti conciliari nonché sulle riforme postconciliari, liturgica e canonica, è necessario liberare il campo dal sospetto di non omogeneità di qualche passo documentale con quanto insegnato e praticato da sempre nella Chiesa e dalla Chiesa – cioè con la Tradizione – illustrando tale omogeneità non solamente come reiterazione ma anche come sviluppo del depositum fidei, eodem sensu eademque sententia, precisando il grado di assenso richiesto per i diversi testi emanati dal Pontefice e dai Padri a conclusione delle sessioni conciliari.

Questa necessaria opera chiarificatrice si indica particolarmente per il problema della cosiddetta «libertà religiosa», per quello delle relazioni ecumeniche e per quello costituito dai rapporti con le religioni non cristiane, dal momento che – per esempio – pratiche concordatarie postconciliari oppure fatti rilevanti come quello costituito dall’incontro di preghiera tenuto ad Assisi – nella manipolazione dei mass media anche «cattolici» nonché nella presunta interpretatio authentica di tante autorità intermedie nella Chiesa e nel mondo cattolico, reali e/o presunte – hanno seminato un riflesso di fatto strumentalizzabile da parte del lefebvrismo.

Considerazioni analoghe valgono per la riforma liturgica – uno dei puncta dolentia più vistosi – e per quella canonica, per le quali è bene ricordare la spiegazione secondo cui «il Sommo Pontefice, o in persona o tramite gli organismi da lui costituiti, ha la potestà, in forza del suo primato giurisdizionale, di oltrepassare i limiti di un documento Conciliare, in materia non attinente alla Fede o alla Morale, tutte le volte che egli lo ritenga opportuno. Ma, ex adverso, bisogna riconoscere al Sommo Pontefice uguale potestà, nelle medesime materie di cui sopra, di restringere o annullare un documento conciliare» (10), contro quanti «si permettono di teorizzare una pretesa irreversibilità delle riforme del Vaticano II, e puntano il cannocchiale della loro intransigenza di vestali del Concilio sull’operato del Santo Padre […] per scorgervi e denunziare – secondo loro – cedimenti, involuzioni, insabbiamenti, ritorni di fiamma dell’integrismo ecc.!» (11).

Dopo aver adeguatamente allontanato ogni sospetto dottrinale, acquista senso inequivoco il riconoscimento della tradizione culturale- spirituale costituita dal Vetus Ordo Missae, con i suoi corollari rituali e devozionali, e dalla catechesi sulla base dei testi preconciliari, anche se opportunamente integrati: diversamente non può che correre l’insinuazione secondo cui le concessioni ai tradizionalisti hanno lo scopo di autorizzare la tolleranza nel confronti del progressismo, insinuazione a cui si può e si deve rispondere anzitutto – se non esclusivamente – sul piano della verità, e non su quello della opportunità ecclesiale.

b. Dopo i problemi di dottrina e di cultura, viene un enorme problema di fatto, che segna il mondo tradizionalista molto più di quanto si creda o si voglia credere, dal momento che va ad alimentare uno stato d’animo, quindi lavora soprattutto – anche se non esclusivamente – a livello pregiudiziale e psicologico. Si tratta dell’omesso – o almeno inadeguato riferimento al comunismo nei testi conciliari e postconciliari, a partire dall’uso dello stesso termine, e dalla pratica della cosiddetta Ostpolitik.

Inoltre, tale omissione – o almeno tale inadeguato riferimento – nonché la sostanziale scomparsa del termine nei documenti del Magistero ordinario dopo il Concilio, che si è voluto attento a tutte le ingiustizie che angosciano gli uomini nel mondo contemporaneo, si accompagna alla storia, non mai adeguatamente spiegata, della sorte di una petizione sul tema, presentata in occasione della quarta sessione del Concilio e non presa in esame (12); si affianca, inoltre, alla notizia di un accordo stipulato nel 1962 dal cardinale Eugenio Tisserant e da un esponente della Chiesa Ortodossa russa, avente come oggetto il silenzio del Concilio sul comunismo in cambio della presenza di osservatori di tale confessione scismatica all’assise romana, accordo di cui al tempo parlò la stampa – benché in minore – e che è stato confermato qualche anno fa dal segretario del cardinale francese (13).

Dunque, poiché il termine è rimasto in disuso anche dopo il Concilio, benché il comunismo internazionale sia stato tutt’altro che inattivo in questi ultimi decenni; poiché per anni la Santa Sede ha praticato una Ostpolitik pubblicamente ignara di lituani e di ucraini; poiché non è necessario essere particolarmente dotti per rendersi conto che il comunismo non si può ridurre all’ateismo, neppure militante, dal momento che collide frontalmente anche con princìpi rilevanti del corpus costituito dalla dottrina sociale naturale e cristiana; poiché il comunismo continua a essere motivazione principale di una delle maggiori espressioni di imperialismo che la storia ricordi; poiché nella galassia Gutenberg, cioè nel regno dell’informazione diffusa e integrata, diplomazia e propaganda si possono facilmente confondere, sì che – per esempio – l’immagine del cardinale Agostino Casaroli a Mosca – inevitabilmente sorridente – ha un impatto sulla pubblica opinione decisamente superiore e più duraturo dei paragrafi dell’enciclica Dominum et vivificantem, in cui il regnante Pontefice Giovanni Paolo II definisce il marxismo come «dimensione esteriore» della «resistenza allo Spirito Santo» (14); per tutte queste ragioni – e per altre non difficilmente rubricabili e non meno rilevanti – esiste una falda di mondo cattolico, forse insensibile ai problema liturgico ma sensibile a una predicazione del sospetto sui compromessi della Santa Sede con l’Unione Sovietica, per la quale ogni spiegazione dottrinale e ogni chiarimento di fatto costituiscono un’autentica benedizione.

Si tratta di una falda sociologica tutt’altro che in posizione pregiudiziale nei confronti del vertice della Chiesa, ma che – quando non di lefebvrismo – è pendolarmente tentata di liberalismo, cioè di netta separazione fra religione e politica, nessuna mediazione morale. E, nonostante mutamenti importanti avvenuti nel corso dell’ultimo decennio – dalla ripresa della dottrina sociale della Chiesa all’attenzione a lituani e a ucraini, per tacere d’altro – questa spiegazione dottrinale e questo chiarimento di fatto non cessano di essere opportuni, ma diventano addirittura indispensabili dopo che – appunto in coincidenza con l’esplosione del «caso Lefebvre» – il cardinale Rosalio José Castillo Lara S.D.B., presidente della Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico, ha rilasciato dichiarazioni almeno sconcertanti secondo cui la scomunica contenuta nel decreto contro il comunismo del 1949 non esisterebbe più (15), così venendosi a configurare il caso che si è verificato a proposito della massoneria al momento della pubblicazione del nuovo Codice di Diritto Canonico nel 1983: anche allora, infatti, si parlò di abolizione della scomunica per i massoni, ma la Congregazione per la Dottrina della Fede è intervenuta con una tempestiva presa di posizione e, a un anno di distanza, con un corrispondente chiarimento.

La posizione di Alleanza Cattolica 

Dalle considerazioni che ho svolto emerge certamente – con ogni chiarezza – quale posizione tenga Alleanza Cattolica a fronte di quanto accaduto a Ecône il 30 giugno 1988 (16).

Associazione di laici impegnata nella diffusione positiva e polemica della dottrina sociale naturale e cristiana, ha guardato a mons. Marcel Lefebvre e a mons. Antonio de Castro Mayer come a testimoni autorevoli – quasi loci theologici – del disagio di non pochi fedeli cattolici nel periodo seguente la celebrazione del Concilio, ma anche durante lo svolgimento dell’assise romana. Avendo iniziato il suo tempo di incubazione nel 1960 – a far data dalla pubblicazione, in quell’anno, di una raccolta di scritti antirisorgimentali di padre Luigi Taparelli d’Azeglio S.J. (17) – Alleanza Cattolica ha apprezzato la testimonianza di mons. Marcel Lefebvre – fino al 1981 – e di mons.

Antonio de Castro Mayer – fino al 1984 -, da essi prendendo le distanze, salva la carità, nella misura in cui tale testimonianza si rivelava – o diventava – alternativa alla Santa Sede, trasformandosi da «lealissima opposizione di Sua Maestà» in «opposizione a Sua Maestà». L’atto compiuto a Ecône consuma un comportamento i cui termini e le cui spiegazioni dottrinali sono adeguatamente illustrati nei documenti della Santa Sede, in particolare nella lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II al cardinale Joseph Ratzinger, dell’8 aprile 1988, e nella lettera apostolica dello stesso Pontefice Ecclesia Dei, pubblicata in forma di motu proprio il 2 luglio: a essi Alleanza Cattolica aderisce con l’«obbedienza della fede» (18).

Di fronte allo svolgersi senza tregua del processo rivoluzionario, che dopo il Concilio ha visto l’esplosione della sua quarta fase, quella emblematicamente riferibile al 1968, cioè la Rivoluzione in interiore homine, attorno alla quale si vanno prospettando, come fuochi fatui, tentativi demiurgici di ricreazione del mondo ritenuto – gnosticamente – «sbagliato» da Dio; di fronte alla prospettiva di una universale unificazione tecnocratica in alternativa alla Chiesa, che è garante non solo del soprannaturale ma anche dell’ordine naturale, acquista sempre maggiore portata e – attraverso la storia e le sue congiunture – comprensibilità la dichiarazione evangelica, e la corrispondente promessa, secondo cui «Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (19).

E siccome «religioso ossequio della volontà e dell’intelletto lo si deve prestare in modo particolare al magistero autentico del Romano Pontefice anche quando egli non parla ex cathedra, così che il suo supremo magistero sia con riverenza accettato, e con sincerità si aderisca alle sentenze da lui date, secondo la mente e la volontà di lui manifestata, la quale si palesa specialmente sia dalla natura dei documenti, sia dalla frequenza con cui ripropone la medesima dottrina, sia dal tenore dell’espressione verbale» (20), «chi non accetta il magistero ordinario del Papa deve avere la coerenza di non accettare, e di consentire che altri non accettino, anche il Vaticano II. I due magisteri, infatti, si collocano su un piano di perfetta parità, quanto a valore dogmatico e normativo. O si accettano entrambi, o entrambi si rifiutano. Aut simul stabunt, aut simul cadent!» (21).

La Vergine Santissima faccia sì che – grazie alla tragedia che si è consumata a Ecône – questa lezione venga sempre maggiormente ascoltata nella Chiesa di Dio, schierata a battaglia di fronte a un «mondo» in preda a imprevedibili convulsioni prima del trionfo del suo Cuore Immacolato, e si rafforzi la consapevolezza – dopo la verifica che il conservatorismo non è il contrario del progressismo, ma una cronolatria coniugata al passato anziché al futuro – che «il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è progressista ma “missionario”» (22).

Note

1) Cfr. Mt. 13, 24-30.

2) Questa periodizzazione si trova sinteticamente esposta in Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977;ha il suo fondamento magiste­riale in Leone XIII,Lettera apostolica Pervenuti all’anno vigesimoquinto, del 19-3-1902, in Atti di Leone XIII, Tipografia dell’Immacolata, Mondovì 1902- 1903, pp. 647- 658; ed è stata sostanzialmente ripresa in Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione «Libertatis conscientia», del 22-3-1986, n. 6.
3) Mons. Luigi Maria Carli, vescovo di Segni, Nova et vetera. Tradizione e progresso nella Chiesa dopo il Vaticano II, Istituto Editoriale del Mediterraneo, Roma 1969, p. 111.
4) Ibid., p. 49.
5) Ibid., p. 51. Il «paraconcilio», di cui parla mons. Luigi Maria Carli, comprende sia il motore dei guasti contemporanei al Concilio e postconciliari che il tempo postconciliare vero e proprio, in quanto caratterizzato da tali guasti; fa cioè stato del fatto che «già durante le sedute e poi via via sempre di più nel periodo successivo», al «Concilio vero» «si contrappose un sedicente “spirito del Concilio” che in realtà ne è un vero “anti-spirito”. Secondo questo pernicioso anti-spirito – Konzils-Ungeist per dirlo in tedesco – tutto ciò che è “nuovo” (o presunto tale: quante antiche eresie sono comparse in questi anni, presentate come novità!) sarebbe sempre e comunque migliore di ciò che c’è stato o c’è. È l’anti-spirito secondo il quale la storia della Chiesa sarebbe da far cominciare dal Vaticano II, visto come una specie di punto zero» (Card. Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, intervista a cura di Vittorio Messori, Edizioni Paoline, Torino 1985, p. 33). Nello stesso senso, cfr. Monsignor Philippe Delhaye, La scienza del bene & del male. La morale del Vaticano II e il «metaconcilio», trad. it., Ares, Milano 1979.
6) Mons. L. M. Carli, op. cit., pp. 49-50.
7) Paolo VI, Allocuzione per la penultima Sessione Generale del Concilio, del 18-11-1965, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, pp. 637-638.
8) Cfr. Idem, Allocuzione ai partecipanti all’XI sessione plenaria del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, del 14-10-1968, ibid., vol. VI, p. 537.
9) Cfr. Gc. 3, 14.
10) Mons. L. M. Carli, op. cit., pp. 94-95.
11) Ibid., p. 95.
12) Cfr. Idem, Il Comunismo e il Concilio Vaticano II, in Giovanni Scantamburlo, Perché il Concilio non ha condannato il comunismo. Storia di un discusso atteggiamento, Editrice L’Appennino, Roma 1967, pp. 177-240.
13) Cfr. Jean Madiran, L’accord Rome- Moscou, in Itinéraires, n. 280, febbraio 1984, pp. 1- 14; e Idem, La confirmation de Mgr Roche, ibid., n. 285, luglio- agosto 1984, pp. 151-160.
14) Giovanni Paolo II, Enciclica Dominum et vivificantem, del 18-5-1986, n. 56.
15) Cfr. Rosalio José Castillo Lara S.D.B., ecco chi è scomunicato, intervista a cura di Domenico Del Rio, in la Repubblica, 10/11-7-1988.
16) Cfr. anche l’intervista Severi i tradizionalisti italiani: «Ad Ecône hanno sbagliato tutto», da me rilasciata a Maurizio Blondet, in Avvenire, 28-6-1988.
17) Cfr. Padre Luigi Taparelli d’Azeglio S.J., La libertà tirannia. Saggi sul liberalesimo risorgimentale, Edizioni di Restaurazione Spirituale, Piacenza 1960.
18) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, n. 5.
19) Mt. 16, 18-19.
20) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, n. 25.
21) Mons. L. M. Carli, Nova et vetera. Tradizione e progresso nella Chiesa dopo il Vaticano II, cit., p. 212.
22) Card. J. Ratzinger, Rapporto stella fede, intervista a cura di Vittorio Messori, cit., p. 9.