Capitalismo woke: l’inizio della fine?

Ricognizioni 9 Febbraio 2024

di Antonio de Felip

Una grandissima, ben nota azienda di telecomunicazioni, un tempo eccellenza italiana, oggi caduta nelle grinfie dei soliti predatori francesi e di fondi speculativi americani che si stanno facendo la guerra sulle sue e nostre spoglie, ha mandato in onda una pubblicità che in realtà è una clip di pura propaganda ultrafemminista, una “denuncia” incupita da un angosciante vittimismo come atto d’accusa al cosiddetto “gender gap”. Immancabile la scarpa rossa – con tacco stellare – nel finale del video.

È l’ultimo esempio, anche nel nostro paese, della sfrontata faziosità politica del mondo delle grandi multinazionali che non esita a sostenere impunemente le cause ideologiche liberal-progressiste più estreme e divisive, fenomeno impensabile solo qualche anno fa. Altro esempio: un omosessuale che, in una pubblicità di una marca automobilistica francese, irride e provoca un poliziotto. Probabilmente qualcuno l’ha ritenuta ironica o simpatica. Un altro brand automobilistico francese (è un caso?) nella sua pubblicità stigmatizza con la scritta “stereotipo” l’immagine di una normale famiglia composta da padre, madre e figli. Ancora: insistente, pervasiva, massiva, incongrua presenza di testimonial di colore nella pubblicità dei prodotti più disparati. Sono tutte, queste, manifestazioni del cosiddetto super-capitalismo woke – nato in USA, ma ben acclimatatosi e accasatosi a Davos presso il famigerato World Economic Forum, – e ormai diventato strumento e sostenitore dei programmi più estremi di decostruzione e distruzione dei valori tradizionali che hanno informato la nostra civiltà.

aziende LgbtDa dove nasce questa scelta del mondo del supercapitalismo e delle multinazionali di abbracciare cause “di sinistra” apparentemente contraddittorie rispetto ai cosiddetti “valori dalla libera impresa”, con esiti spesso dannosi per il gradimento dei clienti e quindi per i conti aziendali?

C’è certamente l’incapacità del mondo delle élite, chiuse nei loro attici, di capire il mondo reale, in termini di ideali e di bisogni, della classe media, del residuo di working class di un’industria distrutta dal mondialismo, degli agricoltori ostili a ogni imposizione ecologista. C’è il wishful thinking che l’ideologia dei radical-chic siano condivisi da tutti in nome di una presuntuosa, presunta autoevidenza della sua positività e inevitabilità. Ma c’è anche l’arrogante pretesa di “cambiare la società” da parte di aziende che si sentono depositarie di una visione del modo eticamente superiore a quella della “gente normale”.

Tutte, o quasi, le grandi aziende USA hanno sottoscritto temi tratti dalle agende liberal, il femminismo, il trans-omosessualismo, l’antirazzismo: tra le molte altre Coca Cola, Red Bull, Jack Daniels, Amazon, Google, Apple, Microsoft Walmart, JPMorgan, Nike, Netflix, persino Tiffany, la nota gioielleria. Kevin Johnson, capo della catena di caffetterie Starbuck si è scagliato contro il “suprematismo bianco”. La McDonald, in un messaggio ufficiale, si è dichiarata “in lutto” per la morte del pluripregiudicato di colore George Floyd avvenuta mentre resisteva all’arresto.

Tuttavia, sono al contempo aumentati i segni di rivolta di un’opinione pubblica contro questo tradimento dei valori tradizionali da parte delle multinazionali e del supercapitalismo, in molti casi attivati da gruppi di pressione e associazioni conservatrici e cristiane, ma spesso anche spontanee, sulla scorta di messaggi sui social diventati virali.

Un caso di scuola è quello del colosso dell’entertainment, la Disney, particolarmente scandaloso per i messaggi di decostruzione e decivilizzazione nei confronti del suo mercato di elezione, quello dell’infanzia. Ecco i Gay Pride organizzati nei vari Disneyland e la produzione ed esibizione negli store di gadget omaggianti l’ideologia LGBT. Ma è soprattutto nelle produzioni cinematografiche che si è manifestato il wokismo della Disney: ultra-femminismo, trans-omosessualismo, genderismo, antirazzismo. I tradizionali eroi, maschi e bianchi, sostituiti con personaggi ambigui, meticci e figure femminili. Blackwashing a volontà: la Sirenetta interpretata da un’attrice di colore e attori neri incongruamente e anacronisticamente inseriti nel remake d’ambientazione ottocentesca de La Bella e la Bestia, una Biancaneve non più bianca e i sette nani dai tratti grotteschi e sessualmente ambigui. Questa corruzione della tradizione è stata forzosamente introdotta non soltanto nelle produzioni Disney, ma anche in quelle dei marchi collegati, come la Marvel o la Lucasfilm.

Ma la reazione del pubblico non si è fatta attendere, non solo attraverso strutturate campagne di boicottaggio lanciate da associazioni cristiane e conservatrici che sono certamente andate a segno, ma soprattutto attraverso una massiva, spontanea rivolta silenziosa della clientela di sempre, che ha semplicemente smesso di acquistare i prodotti Disney: al cinema, nei film in streaming, negli store. Gli incassi dell’ultimo film, Wish, naturalmente di politically correctness, non riescono neppure a coprire i costi. Anche le case di produzione collegate, che avevano lanciato film intrisi di messaggi woke, sono state coinvolte nel crollo del fatturato.

La Marvel è stata punita con il fallimento del film The Marvels, femminista e multiculturalista, costato trecento milioni di dollari e che ne ha incassati duecento. O come la Lucasfilm: tra la rabbia dei fan della saga di Star Wars, i “vecchi” personaggi come Ian Solo e Luke Skywalker sono stati brutalmente eliminati per far posto a “eroine” femministe. Risultato: i proventi si sono dimezzati nel giro di tre pellicole. Il risultato di questo tradimento dei sogni del pubblico tradizionale della Disney ha portato a un calo degli utili e del valore delle azioni. Ma è anche un tradimento dei valori del suo fondatore Walt, notoriamente un ultraconservatore. Significativa una dichiarazione di Elon Musk: “Se potesse guardare oggi la sua società penso che Walt Disney si rivolterebbe nella tomba”.

Risultato: un miliardo di dollari in fumo nel 2023, un feroce piano di ristrutturazione aziendale che contempla un taglio dei costi per 5,5 miliardi di dollari e l’eliminazione di 7.000 posti di lavoro, il 4% del totale. Costretto dai risultati aziendali più che deludenti, dalle proteste del mercato, dell’opinione pubblica e soprattutto da quelle degli azionisti, Bob Iger, CEO della Disney, è stato indotto a una imbarazzata retromarcia e a un implicito mea culpa: “Dobbiamo concentrarci sull’intrattenimento, non sui messaggi”, ha dichiarato.

E in un messaggio ai dipendenti ha ammesso, sia pure in modo contorto e involuto: “Siamo di fronte a rischi relativi al disallineamento con i gusti e le preferenze del pubblico e dei consumatori per l’intrattenimento, i viaggi e i prodotti di consumo. La percezione dei consumatori della nostra posizione su questioni di interesse pubblico, compresi i nostri sforzi per raggiungere alcuni dei nostri obiettivi ambientali e sociali, spesso differisce ampiamente e presenta rischi per la nostra reputazione e i nostri marchi”. Vedremo se tutto ciò si tramuterà in un vero cambiamento di rotta con l’abbandono dello stravolgimento in senso woke dei tradizionali prodotti storici della Disney.

Un caso particolare è quello del colosso finanziario mondiale BlackRock, capofila di una forma particolare di capitalismo woke, la finanza ESG (Environmental, Social, Governance) che discrimina le aziende imponendo ad esse scelte ecologiste e asservite alle ideologie liberal, in particolare quelle LGBT. Il Financial Times del 14 luglio 2020 denunciava che BlackRock aveva “sanzionato” con una valutazione negativa ben 244 aziende “colpevoli” di non essere sufficientemente attive nella lotta alla presunta “crisi climatica”.

Anche in questo caso, tuttavia, vi sono state severe reazioni della pubblica opinione e di Stati governati dei Repubblicani, che non solo hanno tolto BlackRock dai loro investimenti, ma hanno anche emanato leggi contro la discriminazione “finanziaria” di aziende che trattano fonti energetiche e armi. Leggi hanno costretto questo ed altri colossi finanziari a rinunciare alla screditata sigla ESG. Il Wall Street Journal ha constatato: “Molte società non pronunciano più queste tre lettere: E-S-G”.

Il caso Gillette è altrettanto eclatante. Invasata da un autolesionistico fuoco sacro contro il machismo e il patriarcato, l’azienda leader nel mercato dei rasoi ha lanciato una campagna pubblicitaria scagliandosi contro l’invenzione delle ultra-femministe, la cosiddetta “mascolinità tossica”. In sostanza, un attacco alla sua tradizionale clientela maschile che, ovviamente, ha reagito smettendo di acquistare i rasoi Gillette. Perdite stimate: 8 miliardi di dollari.

Un blog di destra, RedState così si rivolgeva al suo amministratore delegato Gary Coombe: “Qui parliamo di miliardi di dollari perduti. Avete turbato un intero sesso dicendogli, essenzialmente, che ogni affermazione sul suo conto da parte delle femministe radicali era vera”. Tuttavia, contrariamente ad altri casi di aziende woke “punite” dal mercato, i vertici aziendali non hanno ammesso di aver commesso un errore fatale per gli utili aziendali, anzi, Gary Coombe si è vantato di aver turbato “una piccola minoranza” e di aver lavorato per il futuro. Non sappiamo quanto gli azionisti che gli pagano lo stipendio siano d’accordo con lui.

Altrettanto paradigmatico – è stato riportato dalla stampa, persino quella mainstream, anche in Italia – è stato il caso della birra Bud Light, che era la più venduta negli USA, una sorta di marchio “di casa” per milioni di famiglie. Quando l’azienda decise di mandare in onda un video promozionale in cui a pubblicizzare il prodotto era un noto influencer transessuale, Dylan Mulvaney, la rivolta dei clienti, in gran parte membri della middle class dell’America profonda, è stata così pesante in termini di severa diminuzione delle vendite da causare un crollo degli utili e del valore delle azioni della casa madre. Così si è significativamente espresso un commentatore: “Tutti hanno paura di essere presi in giro se si fanno vedere con una lattina di Bud Light in mano”. Oggi la Bud Light non è più la birra più venduta negli USA.

Analoghi boicottaggi hanno avuto successo, come quello contro la catena di negozi Target, che aveva messo in catalogo ben 2.000 prodotti in occasione di un Gay Pride o contro l’azienda di abbigliamento Kohl che, sempre nella stessa occasione, aveva addirittura ideato una linea di abbigliamento “arcobaleno” per i bambini. Entrambe le aziende hanno dovuto fare marcia indietro e ritirare i prodotti incriminati. Anche Adidas è stata costretta a ritirare una linea di “costumi da bagno trans inclusivi”.

Insomma, si sta avverando la previsione sul fenomeno di molti economisti: “Get woke, go broke”cioè: “Diventa woke e poi fallisci”. Ma la reazioni del pubblico conservatore contro le aziende affette dal morbo del wokismo non si limita solo ai boicottaggi. Si stanno moltiplicando start up create da investitori conservatori per offrire prodotti e servizi a consumatori che si sentono a disagio con aziende note per il loro “impegno sociale”, che impongono corsi di rieducazione antirazzista ai dipendenti, che finanziano i terroristi di Black Lives Matter, i Gay Pride e le multinazionali dell’aborto come Planned Parenthood.

Come un’azienda di vendita di caffè che sta sviluppando una rete di negozi non solo negli USA ma anche in Canada e che è in costante crescita, la Black Rifle Coffee Company; o anche una piattaforma internet per la commercializzazione diretta di prodotti, PubblicoSq, creata da un consorzio dei 65.000 piccole imprese che si è data una “carta dei valori” anti-woke basata sulla difesa della vita e della interpretazione tradizionale della Costituzione. È sorta persino una nuova piattaforma d’investimenti anti-ESG.

Anche da parte del mondo intellettuale “di destra” stanno crescendo i toni delle reazioni. Samuel Gregg, del potente ed autorevole think tank conservatore Acton Institute ha dichiarato senza mezzi termini: “Il capitalismo woke corrompe le imprese” e ancora: “Le imprese non esistono per impegnarsi in attività di sensibilizzazione di stampo marxista, per alterare le strutture familiari, per creare la pace nel mondo e nemmeno per riparare ai torti storici di una nazione”.

L’intellettuale conservatore Rod Dreher, autore di due best seller mondiali come L’opzione Benedetto e La resistenza dei cristiani ha utilizzato, per descrivere questo fenomeno, le espressioni “imperialismo culturale” e “totalitarismo morbido” e ha dichiarato senza mezzi termini: “Il capitalismo woke è per noi un nemico”. Altrettando severo il giudizio di uno dei guru del giornalismo conservatore, l’ex commentatore della Fox News Tucker Carlson, le cui trasmissioni su un canale indipendente sono oggi seguite da milioni di americani: “Adesso i ricchi sono molto progressisti e il motivo lo si può comprendere. Adorano l’immigrazione di massa: fornisce loro dei servi. Sostengono lo snobismo imposto dal governo federale mascherato da ambientalismo. Per loro l’aborto è fondamentalmente un sacramento, soprattutto se praticato nei quartieri poveri.”

Tuttavia, nonostante le reazioni delle coraggiose associazioni conservatrici, il potere finanziario, massmediatico e istituzionale delle “agenzie della decivilizzazione” come le lobby omosessualiste, le multinazionali degli abortifici, i gruppi di pressione antirazzisti hanno ancora una potenza di fuoco e di condizionamento senza pari. In una recente inchiesta di Panorama, firmata da Fausto Biloslavo, Eppure monta la rivolta contro il multicolore, troviamo una conferma di questo strapotere: “Gli attivisti Lgbt influenzano le grandi aziende con ricatti belli e buoni”; “Esistono classifiche con tanto di punteggi delle compagnie amiche del mondo Lgbt, che attraggono fondi da colossi degli investimenti come BlackRock”.

Vi è poi da considerare che queste aziende sono quasi sempre governate da giovanotti usciti dalle élite liberal-progressiste ed educati nelle università più prestigiose ove vige la più totalitaria ideologia della politically correctness e della cancel culture. Questa “nuova classe” è spesso preda di deliri decostruzionisti, a una hybris sprezzante, alla convinzione fanatica che tutti debbano pensarla come loro, di essere migliori dei loro clienti e di dover “guidare il cambiamento della società”. In nome del loro estremismo ideologico, analogo a quello dei Gates, dei Bezos, degli Zuckerberg, sono persino disposti a scontentare gli azionisti e parte dell’opinione pubblica “normale” pur di non perdere il supporto della stampa mainstream, delle grandi Fondazioni liberal, del Deep State e della “cupola” dei potenti di Davos.

Nel fenomeno del capitalismo woke non manca anche una strategia neo-marxista: si vorrebbe “espropriare” il capitale privato delle aziende per assegnarlo alla “società civile”, cioè sostituire il “capitalismo degli shareholder”, quello degli azionisti, con il “capitalismo degli stakeholder”, quello dei “portatori di interessi”: sindacati, lobby interne ed esterne gay, comunità locali (meglio se governate dalla sinistra), gruppi ecologisti ed associazioni dei consumatori che in molte aziende acquistano poche azioni per poter disturbare le assemblee degli azionisti e così via.

Assai recentemente è stato pubblicato in Italia da Fazi Editore un testo, Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, opera di un docente universitario australiano, Carl Rhodes, ove si può leggere una curiosa analisi “da sinistra” (molto da sinistra) di questo fenomeno: l’essenza di questo nuovo tipo di capitalismo risiederebbe nello  “spostamento dell’equilibrio di potere dalla sfera politica della democrazia alla sfera economica del capitalismo”, anche mediante il “sostegno a cause politiche prive di rischi”. In sostanza, “il capitalismo woke è una strategia per mantenere lo status quo economico e politico e per sedare ogni critica.”

Per l’ultrasinistra, il wokismo aziendale non sarebbe altro che un ipocrita espediente, quindi. Ma è evidente che quest’interpretazione è al contempo riduttiva e superficiale. In realtà, ci sono molti indizi che il fenomeno sia riconducibile alla scelta strategica del super-capitalismo mondialista e livellatore di costruire “una nuova moralità”, se non un “cambiamento antropologico”: la costruzione di una società priva di valori tradizionali, di legami, di cultura, di storia, dominata dal soddisfacimento dei “desideri” più estremi, di manipolabili consumatori senz’anima ai quali viene promesso, dagli stregoni della montagna magica di Davos & C. “non possiederete nulla e sarete felici”.

Torniamo in Italia. È sotto gli occhi di tutti la debolezza politica, mediatica, intellettuale del mondo “di destra”, definizione generica e imprecisa (ammesso che una destra esista ancora), e comunque di quelle variegate componenti della società che possiamo definire “non conformi” rispetto alla feroce egemonia culturale della sinistra, di cui il capitalismo woke è un’attiva componente. I ricatti delle lobby decostruzioniste e pervertenti non sono venuti meno: il caso Barilla di qualche anno fa sta lì a dimostrarlo.

Una delle più grandi aziende multinazionali del food fu costretta dalle minacce del mondo omosessualista a profondersi in contrite scuse per delle condivisibilissime dichiarazioni a favore della famiglia “normale” di Guido Barilla e a inchinarsi all’ideologia e alle pratiche LGBT: pubblicità “inclusiva”, corsi interni contro la cosiddetta “omofobia”, finanziamenti alle lobby omosessualiste. Se qualcuno si fosse dimenticato di questa arrogante, muscolare manifestazione di potenza della lobby internazionale omosessualista, può trovare una sua particolareggiata ricostruzione, con molti dettagli, in un recente e interessante testo di Valerio Savioli,L’uomo residuo. Cancel culture, “politicamente corretto”, morte dell’Europa, edito da Il Cerchio.

Considerata la totale assenza di una seria opposizione politica e civile al wokismo aziendale nostrano, non vanno sottovalutate tuttavia le possibili reazioni individuali, come consumatori, magari facendolo sapere in giro. Un esempio: quello che segue è un elenco parziale delle aziende finanziatrici del Gay Pride 2023 a Milano: Coca Cola, Deloitte, Generali, TIM, Garnier, Vitasnella, Heineken, Peroni, Red Bull, Walt Disney Italia, American Express, Unicredit, Axa e molte altre. L’elenco completo lo potete trovare sul sito https://www.milanopride.it/it/sponsor/

Ne ho preso debita nota e mi comporterò, nelle mie scelte d’acquisto, di conseguenza. E se fossimo in migliaia a fare lo stesso?

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