Il più grande errore della storia moderna

WWIRadici cristiane n.92 marzo 2014

Il primo conflitto mondiale ha le sue radici nella Rivoluzione francese, fu una continuazione dell’appello alle armi lanciato l’11 luglio 1792, quando l’Assemblea Nazionale dichiarò “la Patria in pericolo”. E’ con la Rivoluzione Francese che nasce la parola d’ordine di “annientare il nemico”, interno ed esterno, come avvenne con le “colonne infernali” che tra il 1793 e il 1794 sterminarono gli insorti della Vandea. L’esito della guerra del ’14-’18 fu, di fatto, la “repubblicanizzazione” dell’Europa

Roberto de Mattei

Nella storia dei conflitti che hanno sempre accompagnato le vicende umane, la Prima Guerra Mondiale occupa un posto centrale, non solo per l’estensione planetaria e il numero spaventoso delle vittime, ben nove milioni, ma soprattutto per la novità e l’intensità dell’odio tra i popoli che essa accomulò nelle trincee contrapposte.

Lo storico francese Jean de Viguerie (Les deux patries. Essai historique surl’idèe de la patrie en France, parigi 1998) mostra come alla dottrina tradizionale della «guerra giusta», per sua natura difensiva, si sostituisce nel ’14-’18, una nuova concezione della guerra, offensiva, totale, incessante, che ha le sue radici nella Rivoluzione Francese

Il primo conflitto mondiale fu, in questo senso, una continuazione dell’appello alle armi lanciato l’11 luglio 1792, quando l’Assemblea Nazionale dichiarò “la Patria in pericolo”. E’ con la Rivoluzione Francese che nasce la parola d’ordine di “annientare il nemico”, interno ed esterno, come avvenne con le “colonne infernali” che tra il 1793 e il 1794 sterminarono gli insorti della Vandea. Al concetto tradizionale di “Patria”, radicato in un luogo concreto e in una precisa memoria storica, se ne sovrappone, nel XVIII secolo, uno nuovo associato all’idea dei diritti dell’uomo. La “patria filosofica” degli illuministi è divinizzata fino a diventare un Moloch che autorizza qualsiasi sacrificio.

La continuità ideologica tra la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione Francese fu teorizzata dagli interventisti, che presentarono il conflitto come una rivoluzione tesa ad instaurare in Europa la “democrazia universale”. La “grande guerra”fu – secondo un altro grande storico, l’ungherese Francois Fejtò – un conflitto ideologico di massa, che ebbe lo scopo di «repubblicanizzare e de-cattolicizzare l’Europa» e compiere, a livello nazionale e internazionale, l’opera interrotta della Rivoluzione Francese (Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico, tr. it. Mondadori, Milano 1994, pagg. 316-333).

L’Austria-Ungheria, da cui ancora emanavano i bagliori del Sacro Romano Impero medioevale, rappresentava il principale ostacolo al progresso dell’umanità. Attraverso la distruzione dell’Impero austriaco, l’obiettivo di un circolo ristretto di uomini politici affiliati alla Massoneria fu, sottolinea Fejtò, quello «di estirpare dall’Europa le ultime vestigia del clericalismo e del monarchismo». Abbeverandosi a queste fonti ideologiche, l’interventismo rivoluzionario vedeva nella guerra il compimento della modernità ossia l’ultima fase di un processo culturale che avrebbe definitivamente liberato l’Europa dagli ultimi residui dell’oscurantismo.

L’esito della guerra del ’14-‘18 fu, di fatto, la “repubblica-nizzazione”dell’Europa. Lo storico inglese Niall Ferguson, autore di un’altra opera capitale sul conflitto, ricorda che alla vigilia della guerra discendenti e altri parenti della Regina Vittoria erano seduti sui Troni non solo di Gran Bretagna e Manda, ma anche di Austria-Ungheria, Russia, Germania, Belgio, Romania, Grecia e Bulgaria. In Europa solo Svizzera, Francia e Portogallo erano già Repubbliche. «Nonostante le rivalità imperiali della diplomazia prebellica, i rapporti personali tra gli stessi Monarchi erano rimasti cordiali, persino amichevoli: la corrispondenza tra “George”, “Willy” e “Nicky”, testimonia il protrarsi dell’esistenza di un’elite reale cosmopolita e poliglotta con un certo senso dell’interesse comune» (La Verità taciuta. La prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna, tr. it. Milano 2002, pag.559).

La carta postbellica dell’Europa vide l’emergere di Repubbliche in Russia, Germania, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e nei tre Stati baltici, oltre che in Bielorussia, Ucraina occidentale, Geòrgia, Armenia e Azerbaijan (assorbite di forza nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel periodo dal 1919 al 1921).

I trattati di Parigi del 1919-1920 costituirono, osserva a sua volta Francois Furet, «più che una pace europea, una rivoluzione europea» (Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XXsecolo, tr. it. Mondadori, Milano 1995, p. 70), che sconvolse l’equilibrio sul quale si reggeva l’Europa dal Congresso di Vienna. Al Cancelliere austriaco Metternich successe, come architetto del nuovo equilibrio internazionale, il Presidente americano Woodrow Wilson, che si presentò come il profeta di una nuova era in cui, in nome del principio dell'”autodeterminazione dei popoli”, le Nazioni libere avrebbero finalmente trovato la via del progresso, della giustizia, della pace. Il diritto assoluto delle nazionalità a costituirsi come Stati indipendenti, proclamato per la prima volta dalla Rivoluzione Francese, veniva così elevato a principio giuridico e a regola suprema della politica internazionale.

L’Impero austriaco venne smantellato e rimpiazzato da un mosaico di piccoli Stati certamente non più omogenei, né meno multinazionali dell’Impero che essi avevano dissolto. Fu creata artificialmente la Ceco-Slovacchia, che manteneva una grande parte delle sue risorse in territorio tedesco, polacco e ungherese. Essa era composta non solo dai cechi e dagli slovacchi, ma da alcuni milioni di tedeschi che non rinunciavano ai propri diritti, da un considerevole numero di polacchi in Slesia e da un certo numero di magiari profondamente irredentisti.

Nei Balcani, il ruolo che aveva esercitato l’Austria fu affidato alla Jugoslavia, anch’essa creata ex-novo. Sarebbe stato equo, certamente, ricompensare i serbi, ma attribuire ad essi la Bosnia, l’Erzegovina, il Montenegro, una grande parte dell’Albania e gli sbocchi sul mare, di cui in precedenza erano privi, significò raddoppiare il loro territorio, senza garantire l’equilibrio in quell’area.

L’Italia, d’altra parte, che era entrata in guerra soprattutto contro l’Austria-Ungheria, dopo la pace si trovò alle frontiere orientali un nuovo Stato, che costituiva per essa una minaccia non minore dell’Impero asburgico. Meglio sarebbe stato allora trovare un compromesso con l’Austria per ottenere Trieste e Fiume. La delusione dell’Italia per la “vittoria mutilata” la destinava a trovare un’intesa con la Germania, mentre l’Austria non poteva che aspirare, per sopravvivere, ad una unificazione con la Germania.

La strada da seguire sarebbe stata non già quella di “balcanizzare” l’Impero austriaco, ma di “debalcanizzare” i Balcani, formando una sola grande federazione dotata di autentica indipendenza e dei mezzi politici ed economici necessari a sopravvivere. Questo blocco, politicamente omogeneo, anche se etnicamente disomogeneo, avrebbe potuto espandere la sua influenza verso il Sud e l’Est del continente e costituire il naturale alleato politico delle potenze vincitrici.

Allo stesso modo, la Polonia, che fin dal XII secolo aveva svolto un ruolo di primo piano nella Cristianità, sarebbe potuta divenire un bastione dell’Europa verso l’Est e, nello stesso tempo, contenere le spinte della Germania. La Conferenza di pace indebolì invece la Polonia ad est, separando da essa la Lituania, che le era stata unita da un legame liberamente ratificato per circa cinque secoli, e riconoscendo l’indipendenza dalla Russia dell’Ucraina e della Curlandia (la futura Lettonia), mentre si concedevano ai polacchi terre prussiane, come Koeningsberg e il corridoio di Danzica, inevitabilmente destinate a costituire un casus belli con la Germania.

Ciò che le potenze di Versailles fecero per l’Austria, non lo fecero per la Germania. Avrebbero potuto smembrarla; si imitarono invece ad imporle la forma repubblicana, mantenendone l’unità. Le mutilazioni territoriali a cui fu sottoposto il Reich guglielmino (un settimo del suo territorio e un decimo della sua popolazione) lasciarono intatto il nucleo essenziale delle sue strutture politiche e sociali e dei meccanismi che ne avevano permesso l’espansione politica, militare ed economica.

La Conferenza di Parigi non solo non indebolì la Germania, ma la consolidò, distruggendo quel sistema di piccoli Stati sovrani, circa una trentina di staterelli e di Troni che avrebbero potuto costituire un forte elemento di resistenza al totalitarismo. Con ciò la conferenza di Parigi rese al pangermanesimo un servizio maggiore di quanto avrebbe potuto rendergli lo stesso Bismarck. La nuova Germania repubblicana si presentava come uno Stato centralizzato, le cui frontiere riunivano sessanta milioni di uomini umiliati dalle potenze vincitrici.

La Conferenza di Parigi, unificò e consolidò la Germania, ma allo stesso tempo ne umiliò le aspirazioni, spingendola verso il riarmo ed il revanscismo. I “paragrafi ingiuriosi” del Trattati di Versailles, come l’articolo 231 che addossava interamente alla Germania e ai suoi alleati la colpa dell’ “aggressione” dell’agosto 1914, furono sentiti dall’opinione pubblica tedesca come un inaccettabile diktat e offrirono il pretesto per la costituzione di un “fronte anti-Versailles” che unì progressisti e conservatori.

Lo squilibrio generato dalla pace di Versailles favorì i due “fratelli nemici”, che entrarono pressoché contemporaneamente sulla scena negli anni Venti: bolscevismo e nazionalsocialismo. La dinamica storica europea e mondiale, tra il 1917 e il 1945, fu determinata dalla grande “guerra civile europea” condotta tra il Terzo Reich e l’Unione Sovietica. Molti uomini politici europei non compresero l’affinità di fondo che legava i due sistemi ideologici, ma attribuirono al comunismo sovietico il ruolo di “avanguardia” nel processo di democratizzazione dell’umanità.

Per i paradossi non infrequenti della storia, l’Europa fu salvata, nella Seconda Guerra Mondiale, da quella stessa potenza che venti anni prima aveva contribuito a disgregarla. Se gli Stati Uniti non fossero entrati in guerra, il conflitto avrebbe di fatto visto di fronte nazismo e comunismo: la vittoria dell’uno o dell’altro avrebbe segnato la fine irrimediabile dell’Europa. L’entrata in guerra degli Stati Uniti contribuì non solo a determinare la sconfitta del nazionalsocialismo, ma ad evitare che l’Europa fosse totalmente conquistata dall’Unione Sovietica.

La storia insegna d’altra parte che, per comprendere la natura e le cause della guerra, occorre risalire ai Trattati di Pace che le hanno concluse. Ciò che accadde a Parigi appare come la negazione di qualsiasi forma di preveggenza politica, a meno che non si debba pensare, come molti hanno fatto, ad una scelta deliberata per impedire un’autentica pacificazione dell’Europa e facilitare l’esplosione di nuovi conflitti.

Nessuno lo ha sintetizzato meglio di Niall Ferguson: «La Prima Guerra Mondiale fu nello stesso tempo dolorosa, nel senso datogli dal poeta, e “un peccato”. Fu qualcosa di peggiore di una tragedia, qualcosa che, come ci astato insegnato dalla drammaturgia, deve essere considerata in ultima analisi inevitabile. Fu niente di meno che il più grande errore della storia moderno» (op. cit., pag. 587).