La Cina non ha rinunciato all’imperialismo comunista

Abstract: La Cina non ha rinunciato all’imperialismo comunista. Non bastasse il conflitto in Ucraina, ecco che i tamburi di guerra cominciano a risuonare anche in estremo Oriente, con la possibile invasione di Taiwan da parte del regime di Xi Jinping. A volte tendiamo a dimenticare che la Cina è un paese ufficialmente comunista, che non ha rinunciato né all’ideologia marxista-leninista

Tradizione Famiglia Proprietà, newsletter 14 Aprile 2023

Il drago prevedibile (*)

Non bastasse il conflitto in Ucraina, ecco che i tamburi di guerra cominciano a risuonare anche in estremo Oriente, con la possibile invasione di Taiwan da parte del regime di Xi Jinping. A volte tendiamo a dimenticare che la Cina è un paese ufficialmente comunista, che non ha rinunciato né all’ideologia marxista-leninista né all’espansionismo imperialista mondiale a essa inerente. Per troppo tempo abbiamo nutrito la Cina, cibandola con i nostri soldi e la nostra tecnologia, salvo poi scoprire che è una minaccia per il mondo. Forse è arrivato il momento di ripensare, ab imis fundamentis, i nostri rapporti con la Cina, prima che sia troppo tardi. Dal lontano 1937 il prof. Plinio Corrêa de Oliveira ammoniva sul corso suicida che stava seguendo la politica occidentale nei confronti del comunismo giallo.

di Julio Loredo

“Saremo costretti a rivedere i nostri rapporti”

“Saremo costretti a rivedere i nostri rapporti”. Ecco il ricatto che la Cina sfoggia sempre quando qualcuno osa mettere in dubbio le sue politiche.

Lo subì nel 2020 anche Donald Trump, ostinato nel chiamare “virus cinese” il COVID-19. L’esuberante presidente degli Stati Uniti d’America, leader della maggiore potenza economica e militare della storia, dovette sottomettersi: via l’aggettivo “cinese”… Poco prima, ad abbassare la testa era stato il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, reo di aver detto che il coronavirus proveniva dalla Cina. Non poteva permettersi di perdere il mercato cinese. Prima di lui, e per lo stesso motivo, il presidente argentino Alberto Fernández aveva dovuto bloccare un’indagine sugli accordi segreti con la Cina sottoscritti dal governo precedente.

E non parliamo poi dei nostri sfibrati governanti europei, troppo premurosi nel piegarsi alle imposizioni di Pechino, come ha fatto di recente il presidente francese Emmanuel Macron. Brandendo la sua supremazia economica con una tracotanza che ha del surreale, la Cina vuole imporre la sua volontà.

Uno dei grandi enigmi della nostra epoca – un vero mistero d’iniquità – è come l’Occidente, che si vanta del suo carattere democratico e liberale, abbia potuto sottomettersi in modo così servile a un governo dittatoriale dominato da un Partito Comunista. E come i tycoon dell’industria e della finanza, che si vantavano di aver creato la civiltà più ricca della storia, abbiano poi lasciato che quella ricchezza – insieme al potere che essa comporta – passasse nelle mani di una potenza nemica. Pur di far più soldi l’Occidente ha posto – coscientemente e volontariamente – la testa nella ghigliottina. Può adesso meravigliarsi che il boia tiri la leva?

Una voce profetica

Eppure, questa situazione era perfettamente prevedibile e quindi evitabile. Essa è conseguenza della politica cieca e suicida dell’Occidente nei confronti del comunismo cinese, contro la quale, già negli anni Trenta del secolo scorso, si alzò la voce di Plinio Corrêa de Oliveira.

Nel lontano 1937, il leader cattolico denunciava come gli Stati Uniti stessero improvvidamente armando i comunisti cinesi, insieme ai sovietici: “Il Dipartimento di Stato annuncia che le licenze per esportare armi e materiale bellico in Cina nel mese di novembre hanno raggiunto un totale di 1.702.970 dollari. Pure per l’URSS, le licenze di esportazione per materiale bellico hanno raggiunto la somma di 805.612 dollari. (…) Non capiamo come gli Stati Uniti vendano armi ai comunisti, il nemico più pericoloso e abominevole della civiltà”.

Nel 1943, quando ormai la disfatta del nazismo era solo questione di tempo, egli indicava i nemici futuri: il comunismo e l’islam. Il suo sguardo profetico, però, andava oltre: “Il pericolo musulmano è immenso e l’Occidente sembra non accorgersene, come d’altronde sembra pure chiudere gli occhi di fronte al paganesimo giallo”.

Nel dopoguerra, l’Occidente continuò a ignorare tale pericolo, lasciando che il comunismo prendesse il controllo della Cina. Due fazioni si contendevano quell’immenso territorio: il Kuomintang, di orientamento nazionalista, guidato da Chiang-Kai-Shek, e il Partito Comunista Cinese, guidato da Mao-Tse-Tung. Quest’ultimo era appoggiato dall’Unione Sovietica.

Nel 1945, Plinio Corrêa de Oliveira denunciò l’ingerenza dell’URSS in Cina: “Se ci fossero dubbi sull’insincerità dell’Unione Sovietica, basta vedere cosa succede in Cina. A scapito di tutto ciò che prometteva, la Russia ha riacceso la guerra civile in Cina, nonostante si fosse impegnata diversamente nel trattato di pace firmato con Chiang-Kai-Shek. (…) Dobbiamo sottolineare la gravità internazionale di questa aggressione. (…) Questo atteggiamento da parte della Russia comunista costituisce un nuovo shock contro la pacificazione del mondo. Non possiamo non rilevare quanto il Partito Comunista cinese sia un giocattolo dell’imperialismo russo, che lo usa con la più aperta sfacciataggine per raggiungere i suoi obiettivi internazionali”.

Secondo Plinio Corrêa de Oliveira, l’unica politica coerente sarebbe stata quella di sconfiggere i comunisti, senza se e senza ma. Invece, pur di non infastidire l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti adottarono un approccio diverso, che si sarebbe poi dimostrato disastroso: “La politica americana in Cina mira a forzare l’unificazione attraverso un governo di coalizione democratica tra Kuomintang e comunisti. Ma non potrà mai esserci una vera coalizione tra il Kuomintang e i comunisti. L’obiettivo dei comunisti non è quello di rendere la Cina una nazione democratica unificata, ma di farne una provincia sotto il giogo del totalitarismo comunista. È quindi necessario aiutare Chiang ad estendere la sovranità del governo centrale su tutta la Cina, cosa che si può fare solo distruggendo la sovranità del governo ribelle comunista e liquidando i suoi attributi di potere indipendente, esercito, polizia, amministrazione politica, sistema finanziario”.

Con l’appoggio dei sovietici, che occuparono pure la Manciuria, nel 1949 Mao-Tse-Tung sbaragliò definitivamente Chiang-Kai-Shek e stabilì la Repubblica Popolare Cinese, iniziando quindi l’espansione verso il Tibet e il sudest asiatico. Nel frattempo, mostrando una spaventosa imprevidenza, l’Occidente lasciò il nord della Corea in mano ai comunisti, una mossa che ebbe conseguenze catastrofiche.

A metà giugno del 1950, appoggiati dalla Cina e dall’URSS, i comunisti invasero il sud, dando inizio alla guerra di Corea. Dopo un momento di sconcerto, il generale Douglas McArthur, comandante delle forze alleate, capì che la guerra si giocava non a Pyongyang bensì a Pechino e a Mosca, e propose una guerra totale contro i comunisti, che comprendeva il bombardamento delle basi comuniste in Cina. Venne sommariamente destituito dal presidente Harry Truman, che scelse invece la via del cedimento e del compromesso.

In un lungo articolo pubblicato nel gennaio del 1951, Plinio Corrêa de Oliveira elencò “Gli errori di Roosevelt nella seconda Guerra mondiale”, tra cui: “Di fronte all’espansionismo comunista, il Dipartimento di Stato, invece di opporvi una resistenza energica, la favorì indirettamente col suo atteggiamento remissivo. (…) In Asia, le cose andarono peggio. Il presidente Truman decise di continuare la politica di fidarsi del comunismo cinese, come aveva fatto il suo predecessore. (…) Con tale cedimento, la sorte dell’Estremo Oriente era ormai segnata”.

Negli anni Sessanta, l’URSS e la Cina iniziarono una messinscena, simulando una rottura per depistare l’Occidente. Plinio Corrêa de Oliveira non credette mai a tale manovra. Egli scrisse nel 1963: “Si tratta appena di una trappola, che finirà per inghiottire l’uomo occidentale, scemo e ridente, superficiale, agitato e debole, che vive nel mondo delle apparenze. (…) I comunisti saranno molto grati di questa straordinaria avventatezza degli occidentali”. E nel 1967: “La divisione tra ‘linea russa’ e ‘linea cinese’ non è altro che un bluff”. Sordo a tali ammonizioni, l’Occidente continuò la politica, cieca e suicida, di favorire la Cina in chiave anti-sovietica.

La “settimana che cambiò il mondo”

Di cedimento in cedimento, si arrivò al grande colpo di scena: il viaggio del presidente Richard Nixon in Cina nel febbraio del 1972, a cui il pensatore cattolico brasiliano attribuì un’importanza epocale. Il pretesto fu di acquisire una posizione dominante in Cina, tale da poter contro-bilanciare l’Unione Sovietica. Plinio Corrêa de Oliveira lo considerò, invece, l’inizio del cedimento finale. Nixon stesso definì il suo viaggio “la settimana che cambiò il mondo”.

Saputa la notizia del viaggio, il 17 luglio 1971 il leader cattolico brasiliano tenne una conferenza analizzandone la portata e, con sorprendente lungimiranza, ne predisse le conseguenze:

  • Questo viaggio cambierà sostanzialmente la percezione dell’opinione pubblica occidentale nei confronti della Cina comunista, presentandola sotto un profilo più amichevole: “Cadranno le barriere ideologiche nei confronti del comunismo cinese”;
  • La Cina sarà ammessa nelle Nazioni Unite, spodestando Taiwan, e poi sarà nominata membro permanente del Consiglio di Sicurezza, assumendo quindi il ruolo di potenza mondiale;
  • “La guerra del Vietnam viene liquidata, in uno spirito di cedimento e di tradimento da parte degli Stati Uniti. Col viaggio di Nixon in Cina, gli Stati Uniti hanno accettato un’umiliazione enorme che lascia intravvedere un cedimento anche in Vietnam. Secondo me, la guerra finirà con la resa incondizionata degli Stati Uniti”;
  • “Le potenze anticomuniste dell’Estremo Oriente saranno abbandonate alla propria sorte (…) Nixon sembra intenzionato a smantellare inesorabilmente il sistema anticomunista in Estremo Oriente. (…) Ciò costringerà i Paesi della zona ad appoggiarsi su Pechino, anziché su Washington”;
  • “Hong Kong entrerà in agonia. Io credo che tra non molto tempo l’Inghilterra riaprirà i rapporti con Pechino e consegnerà Hong Kong ai cinesi”.

Alla fine, Plinio Corrêa de Oliveira si domandava: “Chi può dire che l’espansione cinese non continuerà?”. Ovviamente, la sua convinzione era che, una volta iniziata, l’espansione gialla non si sarebbe più fermata. Tanto più che gli Stati Uniti non avevano messo nessuna condizione politica o militare.

Sulla scia del viaggio del presidente Nixon, gli Stati Uniti firmarono con la Cina la Dichiarazione di Shanghai, di cooperazione fra i due Paesi. Plinio Corrêa de Oliveira dedicò all’Accordo un’intera conferenza, in conclusione della quale commentò: “Vista l’ingenuità liberale degli americani, e l’astuzia comunista dei cinesi, l’Accordo avrà un esito molto conveniente per i comunisti. Essi approfitteranno di ogni occasione per avanzare. D’ora in poi i rapporti fra la Cina e l’Occidente si svolgeranno su questa base: i cinesi sapranno approfittarsene, mentre gli occidentali no”.

Il leader brasiliano riteneva l’Accordo di Shanghai la peggiore catastrofe politica del secolo XX: “Yalta fu una calamità maggiore di Monaco. Fu Monaco moltiplicato per Monaco. L’Accordo di Shanghai è Yalta moltiplicata per Yalta! Dove ci porterà? Io non lo so. Ma una cosa è certa: l’Occidente ha già perso questa guerra”.

Va detto che questa era la linea del Governo americano, e più concretamente della Segreteria di Stato. Nel pubblico, invece, vi furono consistenti reazioni alle quali Plinio Corrêa de Oliveira dedicò alcune riunioni e articoli di giornale.

Dopo la morte di Mao-Tse-Tung nel 1976, prese il potere Teng-Xiao-Ping, che avviò la cosiddetta “primavera di Pechino”, la prima timida apertura del sistema cinese al capitalismo, senza mai rinnegare l’ideologia comunista. Il tutto nello spirito dell’Accordo di Shanghai.

L’Occidente iniziò quindi a investire in Cina. Plinio Corrêa de Oliveira avvertì che il flusso di aiuti occidentali avrebbe fornito alla Cina i mezzi necessari per perseguire i suoi scopi espansionistici: “Può la Cina aspirare a controllare la regione, salvo poi espandersi? Non gli mancano l’estensione territoriale, la popolazione sovrabbondante e l’appetito di conquista. Tuttavia, per un così grande impegno, avrà bisogno di un notevole potenziale industriale e militare, cosa che il comunismo non gli ha dato. La Cina comunista potrà svilupparsi e raggiungere la condizione di superpotenza imperialista solo con l’aiuto delle nazioni capitaliste”.

Tralascio le pesantissime responsabilità dell’Ostpolitik vaticana nei confronti della Cina comunista, che andò a braccetto con quella americana e che, proprio sotto il pontificato di Francesco, ha raggiunto eccessi allarmanti. Aprirebbe orizzonti talmente rilevanti che meriterebbero un trattamento a parte.

Un progetto di dominazione imperiale

Plinio Corrêa de Oliveira morì nel 1995, e non vide dunque il pieno compimento delle sue previsioni. Oggi possiamo dire con rammarico: tutto ciò che egli aveva previsto si è purtroppo avverato nel peggior modo possibile.

Nel 1980, il reddito pro capite cinese era inferiore a quello delle nazioni africane più povere. Oggi, la Cina produce il 50% di tutti i beni industriali del mondo. Tutto ciò, va ribadito, con i soldi e il know-how dell’Occidente, improvvidamente trasferiti in Cina seguendo la logica – o meglio la mancanza di logica – del capitalismo selvaggio e della globalizzazione. Mentre gli occidentali riempivano la Cina di soldi e di tecnologia, i cinesi seguivano scrupolosamente ciò che un analista occidentale definì una “politica bismarkiana”, cioè un progetto ben definito di dominazione imperale.

Tale progetto è ben esaminato da Michael Pillary, uno dei maggiori esperti americani sulla Cina, nel suo libro: «The Hundred-Year Marathon. Chinas’s secret Strategy to Replace the U.S. as the World Superpower». Egli mostra come la politica americana di riempire la Cina di soldi e di tecnologia, perfino militare, nell’ingenua speranza che essa sarebbe diventata un partner affidabile, si è dimostrata un boomerang: per tutto questo tempo i cinesi hanno giocato la partita con seconde intenzioni, approfittandosi dell’ingenuità occidentale per acquisire una posizione dominante, che oggi cominciano a brandire come arma di dominio globale.

Un altro libro interessante è quello del giornalista britannico Martin Jacques «When China Rules the World: The End of the Western World and the Birth of a New Global Order». Basato su studi di mercato, proiezioni geopolitiche e analisi storica, Jacques mostra – se dovesse continuare l’attuale trend – come la Cina sarà la potenza egemonica nel secolo XXI, declassando gli Stati Uniti e introducendo una “nuova modernità” diversa da quella attuale. La Cina, secondo Jacques, non è uno “Stato-Nazione”, bensì uno “Stato-Civiltà” con vocazione imperiale, abituato a esercitare un potere incontrastato.

Ripensare la Cina

Le recenti minacce belliche di Pechino potrebbero cambiare le carte in tavola. Di fronte ai ruggiti di un drago che, finalmente, inizia a spaventare l’Occidente, molte persone iniziano a domandarsi se non abbiamo sbagliato strada.

Forse Dio ci sta dicendo qualcosa con questa situazione. Forse è arrivato il momento di ripensare ab imis fondamentis la nostra strategia nei confronti della Cina comunista. Domani sarà troppo tardi. Potremmo, per esempio, ripensare la politica europea di imporre le auto elettriche, pur sapendo che la Cina controlla il mercato mondiale delle batterie. Potremmo favorire il rimpatrio di industrie che si erano trasferite in Cina. Potremmo evitare la concorrenza sleale imponendo alla Cina le stesse condizioni lavorative che esistono da noi. Potremmo escogitare modi per contrastare la penetrazione cinese in America Latina e in Africa. Potremmo, potremmo, potremmo…

Ma per fare ciò serve coraggio. Un coraggio che non verrà dalle nostre forze naturali, siano esse di natura politica, economica o culturale. Qui ci vuole l’intervento della grazia divina sulle anime. Io mi domando: di fronte alla possibilità di un’ecatombe mondiale, non è arrivato il momento di gridare al Cielo: Perdono! Perdono! Perdono! Sono sicuro che il Cielo ci risponderà: Penitenza! Penitenza! Penitenza! Conversione! Conversione! Conversione! E, in mezzo al frastuono degli elementi scatenati, si sentirà una voce, dolce come un favo di miele, dire: “Fiducia figli miei! Infine il mio Cuore Immacolato trionferà!”.

(*) Versione aggiornata del articolo “Ripensare la Cina”, pubblicato sulla rivista Tradizione Famiglia Proprietà, maggio 2020

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