Riflessioni in tema di partito dopo il “crollo delle ideologie”.

partitiCristianità n. 258 (1996)

Verso una politica limitata e forte

di Giovanni Cantoni

Fra i temi del dibattito politico corrente ha rilievo particolare – a giusto titolo e oltre le emergenze che si susseguono, reali o intese a distogliere da altre problematiche – quello relativo a riforme costituzionali, grosso modo e a parole considerate importanti da tutti, ma che alcuni ritengono sufficiente affrontare con strumenti in un certo senso ordinari, qual è una Commissione Bicamerale, altri per vie straordinarie, come sarebbe l’elezione di un’Assemblea Costituente.

Mentre il dibattito ferve, credo di qualche utilità svolgere alcune riflessioni in tema di “partito”, notando un poco polemicamente che, se si tratta di una realtà politica non solo volontaria ma anche non istituzionale, non formale, non per questo – però – è meno significativa come elemento della Costituzione sostanziale, alla cui riforma – sempre che lo si voglia – si può porre mano senza attendere il consenso di controparti e, tanto meno, di avversari politici, a testimonianza della propria comprensione della mutata temperie socio-politica e della propria volontà di affrontarla in modo adeguato nonché di contribuire al mutamento ulteriormente auspicato.

Evidentemente, le riflessioni in questione sono solamente formali finché riguardano appunto la forma partito, mentre diventano di natura sostanziale quando dicono relazione agli indispensabili contenuti che la forma partito deve realizzare e veicolare, con le precise limitazioni che verranno indicate a tempo e a luogo.

1. L’introduzione nel 1993 del regime elettorale maggioritario e la sua motivazione corrente

Nel 1993, attraverso un referendum, viene mutato il regime elettorale della Repubblica Italiana da proporzionale in maggioritario, con la prevalente sintetica “ragione” – se si può accreditare come ragione – espressa nello slogan “Per cambiare”. La motivazione più articolata con cui viene raccomandato l’instaurando regime elettorale maggioritario – prescindendo dalla sua correzione proporzionalistica – suona: “Mentre il regime elettorale proporzionale descrive il corpo elettorale, quindi – con le opportune mediazioni – il corpo sociale, quello maggioritario premia i vincitori; mentre il regime proporzionale garantisce la rappresentazione, cioè la rappresentanza, del corpo elettorale, quindi del corpo sociale, quello maggioritario assicura la governabilità; mentre il regime proporzionale garantisce che, prima di prendere una decisione, si siano sentite tutte le opinioni, quello maggioritario permette di decidere”.

2. Altre motivazioni e il “crollo delle ideologie”

Qualunque sia stata l’intentio di chi ha proposto il regime elettorale maggioritario – non necessariamente identica a quella di chi lo ha accettato e indossato -, la riforma elettorale è caduta puntualmente in una situazione di grande rilievo.

Quanto alle diverse intentio, avanzo l’ipotesi che quella dell’on. Mariotto Segni – promotore del referendum – fosse conforme alla motivazione che ho definito “articolata” e ho enunciata nel paragrafo precedente, mentre quella della sinistra intendesse semplicemente trarre il maggior vantaggio possibile da Tangentopoli, sbaragliando letteralmente, alla prima occasione elettorale, gli unici avversari tenuti in qualche conto, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, mentre dalla lotteria elettorale, il 27 marzo 1994, dovevano uscire a sorpresa due novità: Forza Italia e Alleanza Nazionale.

Quanto alla “situazione di grande rilievo”, faccio riferimento al cosiddetto “crollo delle ideologie”, cioè al venir meno di “visioni del mondo” condivise da settori della società quantitativamente apprezzabili e rilevanti.

3. La forma partito e le sue incarnazioni

Il mutamento del regime elettorale, contestuale al mutamento ideologico, ha colpito profondamente la struttura per eccellenza di rappresentazione dell’ideologia, il partito, nella sua forma nota e sperimentata in Italia nei cinquant’anni di vita repubblicana.

A questo punto, pur non entrando nel merito della diversità fra i partiti, credo però indispensabile almeno segnalarla: infatti, partito era il Partito Comunista Italiano, partito il Partito Repubblicano Italiano, partito la Democrazia Cristiana, ma il termine generico accomunava realtà già a prima vista non assimilabili, trattandosi nel primo caso di un’organizzazione di quadri e di militanti con collegamento diretto e autonomo con la base elettorale, comunque con una “cinghia di trasmissione”, il sindacato, non eterogenea al partito; nel secondo caso di un’agenzia di potentati sovranazionali di diversa natura, soprattutto economico-finanziari; nel terzo caso di un comitato elettorale permanente con contatto indiretto e artificiale con la base elettorale, assicurato dalle strutture del mondo cattolico, della cui destrutturazione tale comitato elettorale è stato in qualche misura vittima, ma – interattivamente – alla cui destrutturazione ha contribuito in modo consistente e vistoso.

4. L’indispensabile ripensamento della forma partito

La nuova situazione socio-culturale e il nuovo regime elettorale – indipendentemente dal suo perfezionamento a breve o a medio termine in maggioritario puro e dalla problematica collegata al doppio turno oppure al turno unico – costringono a ripensare la forma partito, venuta meno l’ideologia, cioè l’appello che richiama anzitutto il militante, quindi l’elettore, ma non assolutamente venute meno, anzi accresciute, le necessità organizzative.

5. La fine del partito ideologico

Preciso che con l’espressione “perdita dell’ideologia” indico il venir meno della rilevanza sociologica del consenso tributato a una determinata visione del mondo, venir meno che ha come corollari:

a. la moltiplicazione delle ideologie ma non assolutamente la loro scomparsa: all’”ogni uomo un voto” del democratismo si affianca “ogni uomo un’ideologia”, versione contemporanea del classico “tot capita tot sententiae”;

b. il riemergere delle idee senza pretesa egemonica ma esclusivamente ermeneutiche e delle loro relazioni, sia concettuali che sociologiche, con la potenziale rinascita dei “movimenti di idee”, dei “movimenti ideali”, e così via.

La perdita dell’ideologia rende il partito meno “chiesa”, meno luogo in cui cercare e immaginare di trovare la soluzione a tutti i quesiti esistenziali. Nel corpo sociale si apre quindi un enorme spazio genericamente “culturale”, e una parte rilevante della “vecchia” battaglia politica diventa conflitto culturale, condotto da gruppi di pressione, da lobby, che operano:

a. anzitutto per la conquista del cittadino a una determinata prospettiva, a una determinata visione del mondo;

b. quindi perché chi si pone come potenziale rappresentante politico si faccia latore delle esigenze che ne derivano e garante degli spazi sociali funzionali alla loro legittima realizzazione.

Fra il potere e il cittadino cresce l’articolazione sociale: non vi sono solo corpi intermedi naturali, come la famiglia, o volontari, come i partiti, ma anche corpi intermedi volontari portatori di “visioni del mondo”.

6. Il ritorno alla “politica limitata”

Come si può notare, è la fine del “tutto è politica”, anima di ogni e qualsiasi totalitarismo, e la corrispondente apertura di un contenzioso fondamentale sulla posizione gerarchica della politica nell’insieme delle attività destinate a soddisfare le esigenze umane.

Dunque, a chi il primato? Alla politica, all’economia, alla religione o a che altro? Benché la situazione di fatto, cioè la situazione attuale, l’ipotesi, induca a qualificare la domanda come “chiusa”, retorica in quanto a risposta prevedibile, suscettibile soltanto di una risposta, quella che riconosce il primato all’economia – meglio, alla finanza -, non si tratta obbligatoriamente e necessariamente dell’inaugurazione dell’era della politica debole, ma – almeno in tesi – della fine della politica assoluta e del ritorno alla politica temperata, limitata.

7. Una politica limitata e forte

Comunque, sembra scomparire il terreno dello scontro politico e la politica pare ridursi a vigilanza ai crocevia, a un’attività da guardalinee, ad amministrazione.

Sono questi i termini reali del problema? Assolutamente no. Infatti, a sua volta, la politica limitata può essere debole o forte, al servizio di una parte o erroneamente dislocata dal punto di vista gerarchico. E precisamente in quest’ottica si gioca l’attività del partito: la sua cultura – che è cultura politica da non confondere in nessun modo con la sua politica culturale – determina la sua struttura.

8. Il richiamo della politica parziale

Venuta meno l’ideologia di suo onnipervasiva, totalitaria e totalizzante – come ho già detto -, viene meno l’appello che richiama anzitutto il militante. Perciò, si rende indispensabile ridefinire lo spazio consapevole della politica, cioè lo spazio “parziale” della politica e la funzione di chi opera in esso. Se il politico non può più cambiare il mondo o è subordinato a chi svolge altra attività, all’orizzonte – nel medio o nel lungo periodo – l’”attrazione fatale” della politica è destinata a venir meno, e con essa la militanza d’altri tempi.

Ma non per questo la vita politica va abbandonata a chi sia interessato direttamente ed esclusivamente al potere che ne deriva, e neppure a ipotetici tecnici della politica, ma a chi avrà capito la nuova condizione.

9. Un servizio al bene comune

La materia del contendere politico non viene meno e non può venire meno, se non nel caso in cui si identifichi una tecnica politica che basti a garantire la funzione organizzativa della società. Diversamente permane un’area di alternative, di scelte, di decisioni, di cui vive la politica e che ne costituisce la specificità; un’area che non ne fa un fine in sé, ma un mezzo rispetto a un fine diverso, costituito in prima istanza dall’ordine della società, in ultima istanza dall’insieme delle condizioni perché l’uomo, cioè ogni singolo associato, possa perseguire la propria meta temporale ed eterna; comunque, per certo, tale fine non è assolutamente rappresentato dalla semplice indicazione ope legis di una meta.

Quindi, la materia del contendere politico dice relazione alla libertà e alle sue limitazioni sociali; la lotta politica riguarda la determinazione e la realizzazione del mix fra libertà e dato di fatto, pratico e teorico, fra libertà e possibilità, fra libertà e verità fattuale e teorica.

Il discorso non è astratto. Esattamente il contrario: infatti, la libertà è la premessa, la pre-condizione qualificante di un atteggiamento non ideologico; ma dove si ferma? Il programma politico, i programmi politici concorrenti riguardano appunto questi limiti, il cui insieme costituisce quel “minimo comune denominatore” talora correttamente e felicemente evocato da esponenti di partito particolarmente sensibili alla congiuntura.

Dunque, una politica senza ideali? Assolutamente no: una politica votata al suo ideale, che non è mutuato né dall’economia né dalla religione, ma che costituisce il suo specifico, che non ignora né l’economia né la religione, che ha relazione sia con l’economia che con la religione, ma che non si sostituisce a esse né sopporta di essere da esse sostituito.

Questo ideale si denomina “bene comune”, consistente – ripeto – nella realizzazione nei fatti e nelle istituzioni che li definiscono dell’insieme delle condizioni che permettono al singolo, a ogni singolo associato, di perseguire la propria realizzazione, la realizzazione di quello che è, non di quello che gli piacerebbe essere.

E le alternative possibili sono costituite dall’assenza di limiti, da un libertarismo sostanziale secondo cui “la verità è figlia della libertà”, mentre verità e libertà sono certamente “parenti”, ma con un diverso rapporto di “parentela”; o dalla presenza di tanti limiti da togliere sia la libertà che la responsabilità, facendo della vita un percorso completamente obbligato, necessitato e fatale, a questo riguardo sia nella prospettiva di uno storicismo o di un naturalismo secondo cui “la verità è figlia del tempo”, sia in quella di un fondamentalismo secondo cui la rivelazione sostituisce – e non integra – i dati naturali, la grazia non perfeziona ma surroga la natura.

10. Un partito essenziale che promuove il bene comune

Ed eccoci al partito. Si tratta anzitutto di un partito che raccoglie quanti si riconoscono vocati a contribuire alla vita sociale attraverso la promozione diretta del bene comune; quindi, di un partito definito da un programma essenziale, ma non palingenetico, cioè non inteso a una riforma che, oltre le istituzioni positive e storiche, interessi quelle naturali; infine, di un partito in cui ciascuno porta “da casa” le motivazione dell’impegno, sia come premesse esistenziali, sia come finalità, cioè come mete ultime.

E, in tale partito, chi è mosso da motivazioni e da finalità religiose, deve aver ben chiaro che la lotta contro la secolarizzazione in politica si combatte anzitutto restaurando in interiore homine tali motivazioni e tali finalità nell’agire politico, ma non attraverso benedizioni di monumenti o inaugurazioni di istituti, per certo non escluse, però altrettanto certamente non decisive.

Quanto al programma, si potrebbe far riferimento al decalogo come espressione dei comportamenti ragionevoli circa le relazioni essenziali dell’uomo con Dio, con gli altri e con le cose: quindi – tacendo di formulazioni astratte come “principio di solidarietà” e “principio di sussidiarietà” – libertà religiosa, anche se la storia e la situazione dovessero permettere la confessionalità; diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale, nel rispetto costante dei princìpi della bioetica; famiglia fondata sul matrimonio eterosessuale e indissolubile, in quanto potenzialmente atta alla procreazione e all’educazione; proprietà privata non solo di beni, ma di professionalità e, infine, diritto di iniziativa economica, con attenzione alla sovranità monetaria e all’astrazione finanziaria. E si tratta piuttosto di “capitoli” che semplicemente di spunti di riflessione.

11. Promozione e rappresentazione, non organizzazione

A fronte di un programma essenziale e non palingenetico – ripeto ancora l’espressione perché fondamentale -, si potrebbe essere tentati di immaginare un partito ridotto a un comitato elettorale. Esattamente il contrario. Non entro nel merito della struttura, dal momento che meglio si dovrebbe parlare di strutture, di cui sono esempio felice i circoli ambientali e territoriali adottati da Alleanza Nazionale, atti a rendere sia gli iscritti che, anzitutto, i quadri, sensibili non solo al territorio, ma pure all’interesse professionale; inoltre tali da introdurre alla comprensione del fatto che la patria non è solo “terra dei padri” ma anche vocazione perpetuata.

Mi limito a segnalare che importa immaginare come indispensabile l’esistenza di una realtà organizzata, che, fra una tornata elettorale e l’altra, opera un ininterrotto monitoraggio del corpo elettorale e di quello sociale, avendo contatto con tutti i gruppi di pressione presenti sul territorio, ma che non costruisce le proprie lobby limitandosi a prendere atto della loro esistenza e ad auspicare la loro formazione; e, fra le proprie attività, privilegia la formazione dei propri militanti in termini di cultura politica e la diffusione della propria cultura politica nel corpo sociale.

Quanto alla politica culturale, si deve esprimere nel contatto con quanti affermano l’esistenza di valori assoluti compatibili con la necessaria tolleranza politica – si escludono perciò tutti gli organismi a carattere fondamentalistico nel senso indicato -, senza però effettuare scelte formali.

Per esempio, organizzare direttamente quanti esercitano una medesima professione significa fare del corporativismo statalistico e, all’orizzonte, totalitario; invece, suggerire, auspicare, trattare con l’organizzazione di quanti esercitano lo stesso mestiere significa fare del corporativismo simpliciter. Il discorso vale, in analogia, relativamente a ogni necessità, tanto durevole, come la professione, quanto episodica, come qualche esigenza contingente sia locale sia temporale: quelli che chiedono una strada o un ponte.

Perciò, ancora, organizzare direttamente quanti professano una determinata religione significa sostanzialmente immaginare se non un partito confessionale, almeno una forza politica predisposta a interferire nella vita religiosa; mentre è essenziale avere relazioni con esponenti a diverso titolo del mondo religioso, da quelli istituzionali, se ne esistono, a quelli culturali, così prestando la dovuta attenzione alla principale componente del bene comune.

Insomma, il problema del partito politico – che non esaurisce il problema politico, ma ne è figura – sta nel rappresentare e nel soddisfare le esigenze dei rappresentati nel quadro di punti essenziali; non sta nel servirsi dei propri rappresentati ma nel servirli.