Smelev, Il sole dei morti: storia del terrore rosso in Crimea

Il Corriere del Sud 8 Aprile 2022

di Andrea Bartelloni

“Il terrore rosso” è il periodo della storia della neonata Urss che va dal 1917 al 1923, anni nei quali prende forma il regime comunista nel suo aspetto più sanguinario, nascono i Gulag, il comunismo di guerra diffonde il suo terrore dappertutto e grazie a quello si espande.

Con una velocità sorprendente prende il potere anche se le resistenze sono forti, ma, alla fine Vladimir Il’ic Lenin (1870-1924) riesce a consolidare quel regime che avrà la sua naturale prosecuzione in quello di Josif Stalin (1878-1953).

Riesce col terrore in tutte le regioni della Russia, terrore descritto molto bene da Sergej P. Mel’gunov in Il Terrore Rosso in Russia (1918-1923) pubblicato nel 1923 in Germania, poi in inglese nel 1925, in Francia nel 1927, negli Stati Uniti nel 1975 e in Russia nel 1990.

In Italia nel 2010 grazie alla cura di Sergio Rapetti e Paolo Sensini e all’editore Jaca Book, è stato la principale fonte di informazioni e notizie per quanti si sono occupati degli avvenimenti di quegli anni.

Mel’gunov (1879-1956) lascia la Russia con la sua famiglia nel 1922 e passerà la sua vita in Francia. In Francia troviamo un altro esule, Ivan Sergeevic Smelev (1873-1950), anche lui con la moglie lascia la Russia proprio cento anni fa, nel 1922, passa da Berlino come Mel’gucov e arriva a Parigi nel gennaio del 1923 e scriverà un’epopea dedicata alla morte che ha attraversato la Crimea dall’estate del 1920 alla primavera del 1921.

Smelev descrive attraverso una prosa ricca di poesia e di passione la morte che non tralascia niente nessuno: uomini, donne, bambini, animali e piante.

Il sole dei morti-Epopea racconta la storia del terrore rosso che si abbatte sulla Crimea ed è ancora Sergio Rapetti a curare l’edizione italiana (Bompiani, 2021) traducendolo dall’edizione originale del 1923. Stava per essere pubblicato nel 1937 dall’editore Biette, ma la sua uscita fu bloccata.

È veramente un’epopea fatta di fucilazioni, impiccagioni, malattie, ma anche di fame, tanta fame che è la caratteristica principale di questa storia. Smelev si ritira in Crimea, deluso dall’Ottobre, con la famiglia, la moglie e il figlio rientrato dalla Prima guerra mondiale con i polmoni bruciati dai gas.

La Crimea è un piccolo paradiso, terra di villeggiatura per la borghesia russa, ricca sia per l’agricoltura che per la pesca e, proprio per questo vi si accanisce il terrore rosso subito dopo la disfatta dei Bianchi.

La devastazione è totale, il quadro che Smelev descrive, è quello di una “catastrofe epocale, fisica e spirituale che sta distruggendo, (…), tutto un grande paese e la sua tradizione e cultura. (…) Il sole – fonte inesauribile di vita e gioia- si trasmuta nel sole nero dei morti”.

Così si legge nella Postfazione scritta da Sergio Rapetti e che descrive anche la vita e le opere dell’esule russo.

Il racconto è un continuo susseguirsi di pagine poetiche e drammatiche dove si dà voce a molti personaggi che l’autore incontra e fa parlare finché può, finché resiste nella speranza, vana, di avere notizie del figlio scomparso mentre “ogni notte qualcuno viene ammazzato, con una coltellata, un colpo d’arma da fuoco. (…) Dappertutto, (…) c’è un popolo eterogeneo in attesa di morire (…). Nessuno ha dove andare. (…) Morire per morire lo si può fare anche a casa propria”.

Smelev e sua moglie, che non compare mai nel racconto, dovranno abbandonare la loro “casetta che già sembra disabitata e quel pendio dove s’erge il più bello dei noci”.

Struggenti anche le descrizioni delle vigne, dei mandorli, dei giardini abbandonati, degli animali da cortile, di Simmenthal, la vacca pezzata, Tamarka, Bubik il capretto “una meraviglia”, Pavka il pavone di Smelev e altri animali, ultime speranze di sopravvivenza, ma che moriranno anch’esse di stenti, requisite “per ordine della Sezione” o rubate.

Il racconto si chiude con una pagina dove l’autore descrive l’arrivo della primavera con i colori dei fiori e il merlo che canta “ai campi abbandonati e incolti, al deserto, a noi, alla nostra casetta, qualcosa di tenero, struggente… Qui da noi è il deserto e nessuno lo disturberà”.

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