L’identità europea svanita

Corriere della Sera 5 febbraio 2024  

Vengono finanziati alcuni settori: le materie umanistiche passano – ed è un errore – in secondo piano  

di Ernesto Galli Della Loggia

Potrà mai l’Unione europea esistere come soggetto politico di qualche effettiva consistenza dopo aver deciso di suicidarsi culturalmente, di gettare alle ortiche la propria identità? E come mai a nessun partito della decina e più che siedono a Bruxelles è mai venuto in mente di occuparsi di questa singolare decisione e dei modi di cui ormai da anni essa viene posta in essere? Sono le domande che ci si pone (in realtà mi pare che finora se le sia poste nessuno) appena si leggono i dati riportati in un interessante articolo di Federico Poggianti pubblicato un paio di settimane fa sul magazine on line de Il Mulino.

Dice tutto il titolo stesso dell’articolo «Come Bruxelles condiziona la ricerca»: e cioè come la Ue finanzi in misura massiccia certi settori culturali mentre ne trascura del tutto altri. E’ già molto significativo che fino al 2000 le uniche discipline la cui ricerca veniva presa in considerazione e sovvenzionata fossero le discipline tecno-scientifiche di area cosiddetta Stem. Una volta finalmente ammesse dopo il 2000 anche quelle non scientifiche, il divario tra i due ambiti, per quanto riguarda l’entità del finanziamento, risulta sempre abissale: per intendersi intorno al 98 per cento circa del totale alle une e il 2 per cento circa alle atre. Ma naturalmente si può ben capire: le ragioni sono molte, ovvie e in fin dei conti condivisibili.

Le cose diventano invece assai opinabili quando si va a vedere la distribuzione dei fondi di quel rimanente 2 per cento tra le discipline non Stem, cioè tra le varie discipline raccolte sotto l’etichetta Ssh (Social Sciences and Humanities) che comprende sia le Scienze sociali (tutte le sociologie, la psicologia, l’economia) sia le materie umanistiche vere e proprie.

Ebbene, prendiamo ad esempio il 2018, un anno considerato per vari motivi statisticamente rappresentativo: in quell’anno, contro 1.832 progetti finanziati di area Stem se ne contavano 297 di area Ssh (nota bene: qui si tratta del numero dei progetti finanziati, dunque nulla a che fare con la loro complessiva entità finanziaria, il che implicherebbe una ben altra diversità di cifre!). Ma di questi 297 progetti di area Ssh solamente 2, dicesi 2, riguardavano in realtà materie umanistiche propriamente dette, i restanti 295 riguardavano le scienze sociali. Nelle quali, peraltro, la parte del leone, di un leone affamatissimo, lo facevano, allora come al solito, le ricerche economiche o comunque quelle a sfondo economico.

Poggianti individua con precisione i motivi di questo massiccio sfavore riservato alle «Humanities» vere e proprie, di questo autentico disprezzo culturale per le letterature, le filologie, il diritto, la storia, la filosofia, la storia dell’arte, la linguistica. A cominciare dal motivo molto concreto che nei panel di esperti chiamati a giudicare dell’insieme dei progetti  Ssh c’è in permanenza una forte presenza di studiosi di scienze sociali, quasi sempre con gli economisti al primo posto (tra parentesi: i giudici sono scelti in modo assai poco trasparente e restano a lungo sempre gli stessi). Egualmente importante è il fatto che l’Unione vede nelle scienze sociali una fonte di legittimazione del proprio processo decisionale. Le ricerche nel campo delle scienze sociali si prestano bene ad essere scelte in base al proprio implicito orientamento, sicché ben «difficilmente, scrive il nostro autore, i progetti selezionati si discosteranno significativamente dagli indirizzi politici di Bruxelles». Aggiungiamoci il fatto che un vero e proprio feticcio venerato dai giudici brussellesi nelle loro valutazioni è il lavoro di équipe, il quale però mal si adatta alle ricerche nel campo delle materie umanistiche, e infine la difficile «misurabilità» di tali ricerche sulla base del beneficio atteso rispetto alle risorse impiegate, nonché la loro ancor più ardua «applicabilità pratica»: entrambi criteri carissimi anche questi ai suddetti giudici.

Non nascondiamocelo però: il punto cruciale è un altro. E sta nel fatto che le discipline umanistiche e la maggior parte delle loro ricerche insistono naturalmente in un ambito nazionale. In quell’ambito, cioè, che secondo il «politicamente corretto» dominante a Bruxelles deve essere messo al bando e spento. Agli occhi del vuoto utopismo paneuropeo privo di radici, la nazione resta il nemico primo. Negli ambienti dell’europeismo che conta e che ispira ogni giorno la politica dell’Unione resta tuttora centrale (anche se oggi espressa con una certa cautela) l’idea dell’obbligatorio declino dello Stato nazionale, la convinzione messianica della sua futura, inevitabile scomparsa. Proprio perciò neanche un euro o pochi spiccioli vanno a tutto quanto si riferisce alle sue antichità e alle sue vicende, ai suoi pensieri e ai suoi libri, alle sue lingue, alle tradizioni culturali e politiche dei suoi popoli, alle loro fantasie figurative. A tutto ciò che nutre l’anima e i sogn, che ci fa conoscere da dove veniamo.

Ma c’è qualcosa in tutto ciò di tragicamente suicida. L’Europa ufficiale non si accorge, infatti, che in questo modo, lungi dall’affrettare l’avverarsi della sua utopia, in realtà essa non fa che sancire l’implausibilità di qualunque speranza di diventare – non già nel prossimo secolo ma nel prossimo decennio – un soggetto politico degno di questo nome. Dal momento che solo se ogni nazione europea avrà la conoscenza e la consapevolezza più ampia della propria storia e della propria identità, solamente se si stabilirà questa larga circolarità delle particolarità di ogniuna, solo a questa condizione è immaginabile che si verifichi quanto è necessario. E cioè che pur nell’assenza di una lingua comune si radichinegli europei la coscienza delle profonde radici ce li uniscono, di tutto ciò che li avvicina, che forma una identità comune. Le scienze e l’economia – pur cose va da sé importanti e rispettabilissime – non sono mai servite a dar vita a una qualche comunità politica o ad animarne le visioni e le grandi imprese: quanto bisognerà aspettare perché anche i signori di Bruxelles se ne rendano conto?  

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