La vera storia dell’uomo e la scimmia: parenti sì, ma non così stretti

Libero venerdì 6 giugno 2025

“Nature” pubblica lo studio sulla mappatura del genoma dei grandi primati: a sorpresa si scopre che non abbiamo in comune il 98% del Dna. “Una percentuale dal 12,5 al 27,3 non coincide”

di Marco Respinti

L’ uomo deriva dalla scimmia. Sta scritto nei libri e s’insegna nelle scuole di ogni ordine e grado. La scienza vera ha invece tantissimi dubbi e li pubblica sul periodico di settore più autorevole di tutti, Nature.

L’obiettivo è fisso sul Dna, la molecola contenente le informazioni genetiche che determinano le caratteristiche e lo sviluppo di tutti gli organismi viventi. È la stella incontrastata dal 1953, quando fu scoperto nel Cavendish Laboratory di Cambridge, e poi annunciato al mondo nell’Eagle Pub poco distante, da James Watson e Francis Crick (che nel 1962 l’Accademia di Svezia insignì del Nobel scordandosi però di Rosalind Franklin, che pure ebbe un ruolo determinante nella scoperta).

Chi decritta il Dna dei viventi, infatti, possiede il «codice della vita» e sa spiegare come la scimmia si sia evoluta in uomo o, meglio, sa dire quale sia l’antenato comune tanto alle scimmie quanto all’uomo, quando i due rami evolutivi si siano separati e persino che la scimmia sia una delle forme biologiche del genere uomo. Come il biologo molecolare statunitense Morris Goodman (1925-2010), che nel 2003 iniziò ad affermare che proprio per questo bisognerebbe cambiare il nome dello scimpanzé dall’attuale Pan troglodytes a un ipotetico Homo troglodytes. La prova inconfutabile sarebbe proprio il Dna, che scimpanzé e uomini avrebbero in comune al 98% e più.

Ma la cifra è farlocca. Lo rivela finalmente la prima mappa completa del Dna delle scimmie dette antropomorfe, una ricerca senza precedenti pubblicata con il titolo laconico Complete sequencing of ape genomes appunto su Nature e condotta da una squadra di ben 123 scienziati. Fanno capo a istituzioni universitarie sparse per tutto l’ecumene e li guida il professor DongAhn Yoo del Dipartimento di Scienze del genoma della Scuola di Medicina dell’Università dello Stato di Washington a Seattle.

«Nel complesso», scrivono quegli scienziati, «le comparazioni tra le sequenze dei genomi completi delle grandi scimmie hanno rivelato una divergenza maggiore rispetto alle stime precedenti».

Quindi risulta che «dal 12,5% al 27,3% del genoma delle scimmie non si allinea o non è coerente con un semplice allineamento uno-a-uno». Altro che il 98% in comune fra scimmie e uomini. Come sia possibile che certe conclusioni non comprovate scientificamente, e in particolare quelle inerenti argomenti così importanti, vengano spacciate come oro colato fa parte dei meccanismi perversi della mentalità umana, ma lascia sgomenti. Perché il primo dato che balza all’occhio è che, se quella raggiunta ora è la prima mappatura completa del Dna delle scimmie antropomorfe, quelle precedenti non lo erano affatto, e l’idea forte che scimpanzé e uomo abbiano in comune quasi tutto il corredo cromosomico è fondata su dati parziali e forse persino inesatti.

Il lavoro inedito svolto dalla squadra del prof. DongAhn Yoo ha infatti ottenuto proprio i genomi di ogni singola parte di ogni singolo cromosoma di quelle scimmie, e con un’accuratezza altissima: meno di un errore ogni 2,7 milioni di quelle lettere del Dna che nel linguaggio scientifico ne rappresentano simbolicamente le basi azotate, le quali, alternandosi, determinano le caratteristiche uniche di ogni organismo. Cioè appunto le loro somiglianze, le loro parentele o le loro differenze più o meno profonde. Quest’analisi senza precedenti ha del resto consentito addirittura lo studio di regioni più complicate e cruciali del Dna, per esempio quelle che controllano il sistema immunitario, prima praticamente invisibili. Insomma, niente buchi, lacune o anfratti inesplorati.

Altro dato cruciale: per confrontare i genomi di uomini e scimmie stavolta gli scienziati non hanno preso il Dna umano come punto di riferimento. La novità assoluta è che in questo modo hanno scongiurato ogni possibile distorsione nei risultati, distorsioni («bias» ripetono più volte il prof. DongAhn Yoo e colleghi) che in passato hanno portato a interpretazioni parziali o sbagliate.

Proprio così: interpretazioni (non conclusioni strettamente ancorate a rilevazioni inoppugnabili) che si sono per ciò stesso rivelate incomplete oppure errate, o magari anche pregiudiziali e faziose. Come la ricerca spasmodica di prove biologiche che suffraghino a posteriori assunti preconcetti. Tipo l’accanirsi nello stilare parentele genetiche a valle per confermare l’affermazione fatta a monte, e piuttosto genericamente, da Charles Darwin, il quale, ne L’origine dell’uomo e la selezione sessuale del 1871 (il suo secondo titolo più famoso: il primo fu L’origine delle specie del 1859), mette apertamente per iscritto l’idea che l’uomo spunti dal ramo delle scimmie del Vecchio Continente e dunque vada classificato fra esse.

Che poi, per la scienza autentica la comunanza cromosomica fra specie ha ben altro significato che la parentela. L’uomo ha in comune il 50% del Dna con la banana, almeno il 60 con il moscerino della frutta, circa l’80 con il Caenorhabditis elegans (un vermetto di 1mm), circa il 90 con un certo corallo e nel 2024 lo storico norvegese Kristoffer Hatteland Endresen ha insistito sulla somiglianza fra uomini e suini – le battute si sprecano – nel libro Un po’ come noi. Storia naturale del maiale (e perché lo mangiamo), edito a Torino da Codice. Il punto è che nel Dna albergano tutte le informazioni per sintetizzare le proteine: tutti gli organismi che sintetizzano proteine hanno cioè in comune le stesse informazioni. Ma con gli stessi mattoni si può costruire una latrina oppure un palazzo principesco. Dipende dal progetto.