Il prezzo della libertà

war_endArticolo pubblicato su Tempi n. 18
 29 aprile 2004

Mentre l’Europa si culla nell’utile mito che la liberazione dal nazifascismo sia opera della “resistenza” la storia ci ricorda che il totalitarismo è un nemico implacabile da affrontare con determinazione

di Newbury Richard

La storia forse non si ripete; però segue certamente un ritmo cadenzato, un percorso in rima. Nel 1904, firmando l’”Entente Cordiale”, l’Inghilterra riconobbe che la Francia, sua tradizionale nemica, doveva ora diventare sua amica, perché quella che la regina Vittoria aveva definito la «cara piccola Germania», da zona cuscinetto tra Austria Ungheria e Francia, era diventata la potenza militare industriale di gran lunga più forte del continente, e aspirava a dominarlo, cosa che, dal punto di vista demografico, già faceva.

La sconfitta del Secondo e del Terzo Reich divennero la priorità essenziale per i successivi cinquant’anni. La battaglia era ideologica più ancora che territoriale – perché, detto in altri termini, una Germania sconfitta sarebbe tornata ad essere semplicemente una “espressione geografica”.

GLI ISLAMISTI COME I SOVIETICI: ALLEATI DIVENTATI NEMICI

Il cinquantennio successivo alla sconfitta della Germania è stato dominato da un nuovo nemico, armato di bombe atomiche e ideologiche, cosa che, ancora una volta, ha determinato la necessità di trasformare in un nemico un vecchio compagno d’armi (la Russia diventata Unione Sovietica, ndr).

Quando, nel 1946, Winston Churchill, che una clamorosa sconfitta elettorale aveva già rifiutato come leader del paese in tempo di pace, pronunciò il suo profetico discorso a Fulton, nello stato del Missouri, dicendo che «da Stettino nel Baltico fino a Trieste nell’Adriatico, era scesa sull’Europa una cortina di ferro», fu bollato e insultato da tutti come un reazionario privo di qualsiasi senso di gratitudine e come un pericoloso guerrafondaio.

Soltanto George Orwell, all’estremità opposta dello schieramento politico, e forte dell’esperienza diretta del comunismo, conosciuto nel 1936 combattendo contro il fascismo in Spagna, dimostrò altrettanta preveggenza nei suoi romanzi La fattoria degli animali e 1984. Il nemico era il totalitarismo in sé.

Per di più, scrisse Orwell, se il fucile era sostanzialmente uno strumento democratico in quanto un soldato poteva sparare ad un generale, la bomba atomica esigeva la presenza di un nuovo sacerdozio di tecnici in camice bianco e veniva sganciata dall’alto. Ora il totalitarismo ha mutato forma ancora una volta, assumendo l’aspetto dell’imperialismo teocratico dell’islam radicale, che, come sempre, vuole sottomettere tutta l’umanità a dogmi indiscutibili che negano il dono divino del libero arbitrio.

Se gli strumenti della prima minaccia erano il fordismo e quelli della seconda la fissione nucleare, gli strumenti della terza sono Internet, il telefono cellulare, la tivù e le stesse possibilità di movimento all’interno di una società libera. Il terrorismo è la privatizzazione della guerra. Poiché viviamo in una società globale con la libertà di spostarci ovunque, il terrorismo, proprio come il virus di un computer, sfrutta questa possibilità per colpire in qualsiasi luogo e da qualsiasi luogo.

Quando consideriamo l’enorme quantità di informazioni incontrollate che sono disponibili sulla rete telematica, non dobbiamo dimenticare che sono accessibili anche ad un’altra “rete”, quella di Al Qaeda, e tenere sempre presenti le parole incise sul monumento per la guerra in Corea che è stato eretto a Washington: «La Libertà non si ottiene gratis».

GLI AMERICANI IN IRAK COME IERI IN GERMANIA E IN GIAPPONE

L’altra rima della storia è questa: si tratta soltanto della terza volta che gli Stati Uniti sono stati attaccati sul loro stesso territorio, e ogni volta la risposta statunitense ha seguito un analogo modello strategico. La prima volta fu durante la guerra anglo-americana del 1814, quando gli inglesi bruciarono la città di Washington e la Casa Bianca; la conseguenza fu la Dottrina Monroe, per mezzo della quale gli americani eressero un cordone sanitario attorno al Nord e al Sud America, per proteggerli dalle interferenze europee.

La seconda volta fu con l’attacco di Pearl Harbour nel 1941, per effetto del quale fu deciso che soltanto rimettendo ordine in Europa si poteva raggiungere un ordine mondiale pacifico. Gli americani misero praticamente sullo stesso piano, a livello morale, le conquiste territoriali europee dei Reich tedesco e gli imperi coloniali di Inghilterra, Francia, Olanda, Portogallo e Italia.

Oggi, dopo l’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno deciso che la soluzione strategica per il terrorismo islamico è quella di imporre ai regimi del Medio Oriente dei sistemi di governo giusti e efficienti, per offrire a quella classe media di intellettuali musulmani di cultura occidentale qualcosa di concreto da governare e di cui assumersi la responsabilità. La causa del terrorismo non è la povertà, ma l’orgoglio ferito.

Ed ecco ancora un’altra rima della storia: quella delle crociate e della frustrazione provata dai musulmani per il fatto che questi barbari cristiani hanno ottenuto la superiorità tecnologica che un tempo era esclusivo monopolio del califfato.

BLAIR: «SENZA IL VETO FRANCESE SADDAM SI SAREBBE ARRESO»

A giudizio di Tony Blair, come ha spiegato in un ponderato discorso pronunciato dal primo ministro britannico il 5 marzo scorso, il punto essenziale nella questione della risposta armata alla violazione irakena della risoluzione Onu 1.441 non riguarda le armi di distruzione di massa o la sincerità delle accuse anglo-americane, ma sta tutto in un giudizio di valore sulla situazione presente (vedi pure pp-III-IV).

Blair riteneva possibile che, se le Nazioni Unite fossero state d’accordo, Saddam si arrendesse. Tuttavia, dice Blair, «questo non è il momento di perdersi nel mare della prudenza, di continuare a soppesare i rischi o di abbandonarsi al cinico gioco di chi vuole tirare le cose per le lunghe. Questo presunto realistico e accorto cinismo non è in realtà altro che, nel migliore dei casi, sciocca ingenuità e, nel peggiore, pura codardia.

Quando questa gente parla, come fa adesso, di un ritorno della diplomazia in riferimento a paesi come l’Iran, la Corea del Nord o la Libia, pensa seriamente che sia stata soltanto la diplomazia a ottenere nuove concessioni?(…) Dobbiamo affrontare di petto e con determinazione la minaccia posta dal terrorismo islamico. E dobbiamo comportarci correttamente con tutti i popoli del nostro pianeta, promuovendo i diritti umani.

Ciò significa risolvere il problema della povertà in Africa e quello della giustizia in Palestina, rimanendo fermamente opposti al terrorismo come strumento per raggiungere fini politici. Significa accettare una visione completamente diversa, più giusta e più moderna, del concetto di interesse personale. Significa riformare l’Onu, in modo che il suo Consiglio di Sicurezza rappresenti adeguatamente la realtà del XXI secolo e che sia in grado non semplicemente di discutere, ma anche di agire concretamente.

Significa fare capire alle Nazioni Unite che, di fronte alle minacce che incombono, dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per diffondere i valori della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto, della tolleranza religiosa e della giustizia; ma, allo stesso tempo, dobbiamo combattere una guerra senza quartiere contro coloro che vogliono sfruttare le divisioni religiose per arrecare catastrofi al mondo.

Ma, per il momento, la minaccia è qui presente, e richiede la nostra attenzione. È questa la battaglia in cui siamo impegnati. È un nuovo tipo di guerra. Dipenderà più che mai dal lavoro dei servizi segreti. Richiede un atteggiamento diverso rispetto ai nostri interessi. Ci costringe ad agire anche quando la minaccia sembra lontana o addirittura immaginaria. Per concludere, date fiducia ai vostri leader politici oppure toglietela, come preferite. Ma fatelo perlomeno dopo avere compreso effettivamente cosa pensano».

LA VECCHIA EUROPA VIVE DI MITI

Nel 2003 il balletto ritmato della storia agli anglo-americani ricordava il 1938 e il messaggio era chiaro: nessun appeasement e tanta determinazione a combattere. Al tempo di Monaco, la guerra sarebbe stata una decisione del tutto impopolare; ma ora sappiamo che, se si fosse affrontata subito la Germania, il generale Beck avrebbe arrestato Hitler. Tuttavia, se si fossero fatte soltanto delle ispezioni, non si sarebbe trovata nessuna traccia di campi di concentramento né prove di antisemitismo maggiori di quelle osservabili in Polonia.

Ma nel 1945 tutti, conoscendo le predizione del Mein Kampf, accusarono gli alleati di avere aspettato fino al 1939 prima di fare qualcosa. Per la Vecchia Europa, ossia per Francia, Olanda, Belgio e poi Italia e Germania, la rima seguita dalla storia era: «la guerra porta alla sconfitta».

La Svezia di Hans Blix ha saputo imparare la benedizione della neutralità, che permette di guadagnare da entrambe le parti. Il nation building postbellico in molti paesi europei è stato predicato sul fondamento dell’utile mito che la democrazia, i diritti umani e la prosperità sono stati ottenuti non con il sangue degli alleati, con i loro bombardieri e i loro carri armati, ma con la “resistenza antifascista” e la “amnesia selettiva”.

Ma in un mondo dove «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi», tutto ciò non rima affatto con la realtà della storia.