“Quando c’era Berlinguer”…

berlinguerCultura & Identità. Rivista di studi conservatori –

Anno VI, nuova serie, n. 5, 22 giugno 2014 (pag1-4)

(editoriale)

Trent’anni fa, il 7 giugno 1984, durante un comizio a Padova, Enrico Berlinguer, segretario generale del Partito Comunista Italiano, veniva colpito da emorragia cerebrale e, quattro giorni dopo, moriva.

Dopo una rapida carriera nei quadri del partito, era asceso alla segreteria generale nel 1972, in piena contestazione studentesca e agli albori del terrorismo: la lascerà, insieme alla vita, agli esordi di quel processo, in larga misura “pilotato”, che avrebbe portato alla rimozione del Muro di Berlino e alla “‘dismissione” dell’impero socialcomunista di matrice moscovita.

Chi è stato Berlinguer? un eroe popolare? un grande politico? un utopista? un machiavellico comunista del tardo XX secolo?

Chi si richiama esplicitamente a lui, cioè il gruppo dirigente dell’attuale Partito Democratico, prodotto finale di una lunga serie di metamorfosi identitarie della sezione italiana dell’Internazionale Comunista, tende ad accreditarne una immagine oleografica, farne un personaggio di alta statura morale, l’interprete autentico e sagace delle esigenze del Paese, un politico appassionato e tenace, totalmente e fino all’ultimo dedito alla causa dei lavoratori e del progresso.

E hanno voluto commemorare i trent’anni dalla sua scomparsa in vari modi: con un film-documentario. Quando c’era Berlinguer, prodotto da uno dei suoi successori alla segreteria — ancorché di una formazione dal diverso nome —, l’on. Walter Veltroni. messo poi in onda da Sky; e, ancora, con il libro omonimo del medesimo Veltroni. Ambienti contigui ai “dem”, come l’Espresso, hanno prodotto, ai primi di giugno un corposo album d’immagini venduto nelle edicole. Il secondo quotidiano di opinione nazionale, il Corriere della Sera gli ha dedicato l’11 scorso un dossier d’immagini, Enrico Berlinguer a 30 anni dalla morte. Le foto più belle. che ritrae il leader comunista nei suoi momenti più fulgidi o quando è in compagnia degli esponenti più noti della nomenklalnra rossa italiana, oppure di soavi personaggi come Leonid Breznev e Hu Yaobang. E, ancora, convegni e iniziative culturali a non finire.

Dediche di strade a Berlinguer sono peraltro avvenute a Roma e sono in programma in altri comuni italiani, per esempio a Catania, a Napoli, a Lucca. Persino lo Stato, attraverso le Poste Italiane, ha ritenuto di rendere omaggio al Quinto Segretario con un francobollo commemorativo destinato alla posta ordinaria. Tutti questi fatti lo sforzo da parte di più di un ambiente di coronare il personaggio di un’aureola di santità profana, di operare una sorta di canonizzazione “laica” di un personaggio politico tutt’altro che religioso, proprio nell’anno in cui sono saliti agli altari veri due grandi personaggi del Novecento. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.

Che chi si sente a qualunque titolo attratto da Berlinguer voglia celebrarne la memoria non è fatto che desta obiezione, né emozione: ognuno “santifica” chi vuole: c’è chi beatificherebbe Robespierre, chi Almirante o chi vorrà, a suo tempo, un Pannella “santo subito”.

Quello che stona, nella circostanza, sono due cose, che trasformo in due quesiti.

Davvero Berlinguer è stato un personaggio positivo, non solo per i comunisti, ma anche per l’intera nazione italiana? E poi: come mai ambienti politico-culturali che si dipingono lontani, “diversi”, migliori, del vecchio partito togliattiano ritengono non solo d’indossare un personaggio come Berlinguer, ma anche di trasformarlo in una icona semi-religiosa?

Riguardo al primo quesito i dubbi sono davvero pochi. Chi celebra Berlinguer tende a sottolinearne in positivo gli elementi di discontinuità con il passato “bolscevico” del Partito Comunista Italiano, però dimentica in toto gli elementi — che non sono pochi, ne minori — di continuità con tale passato: su questi elementi vorrei soffermarmi brevemente.

Dal punto di vista storico gli anni della segreteria Berlinguer sono anni bui — forse quelli finora più bui — per il Paese. Anni di bombe e di terrorismo. Anni di grandi tensioni sociali e di radicali contrapposizioni ideologiche. Anni in cui gramscianamente “tutto è politico”. Anni in cui il comunismo mondiale fa passi da gigante, arrivando a conquistare mezza Africa, a invadere l’Afghanistan e a porre la sua ipoteca sui movimenti antigovernativi latino-americani e, in Italia, a spingersi fino alle soglie dell’area del governo. Anni in cui l’impronta cristiana e naturale degli ordinamenti sociali del Paese viene profondamente erosa fino a scolorire.

Nel dodicennio della segreteria berlingueriana i cattolici — e i “laici” “di buona volontà” — sono sconfitti nel referendum abrogativo della legge divorzista del 1970, viene promulgata la legge che liberalizza e statalizza l’aborto volontario e si assiste a una nuova sconfitta dei cattolici e, in genere, dei pro-life nel successivo referendum antiabortista del 1981. In entrambe queste laceranti vicende i gruppi “progressisti” non sarebbero mai riusciti a prevalere senza l’ausilio della potente e capillare macchina organizzativa comunista, cui l'”oro di Mosca” consentiva al solo PCI — escludendo quindi i sindacati e le organizzazioni collaterali — di mantenere a libro-paga decine di migliaia di funzionari: più dei parroci e dei loro coadiutori!

Ovviamente, se l’Italia di quegli anni è preda dei proverbiali “sette demoni” rivo-luzionari non è imputabile integralmente a Enrico Berlinguer: basterebbe solo accennare all’emergere dei radicali e al tradimento dei cattolici impegnati e degl’intellettuali. Ma l’ideologia da lui professata e l’organizzazione da lui diretta sono, se non lo starter, il vero motore che a pieni giri “produce” rivoluzione, sia in proprio, sia “per conto terzi”, sostenendo nel contempo, e presto assorbendo, questa o quella “avanguardia”.

Oltre a ciò, la dirigenza comunista — e Berlinguer entra a far parte dei vertici del partito assai giovane —, al di là di manifestazioni più o meno epidermiche di dissenso dalla casa-madre — rilevabili non certo nel tragico 1956, al tempo della rivolta nazionale di Budapest, ma di certo dal 1968, dalla pallida “primavera di Praga” —, è allora parte integrante dell’élite internazionale, coordinata da Mosca, dedita a promuovere e a organizzare la rivoluzione marxista in tutti Paesi del mondo. Forse, quando assume la segreteria, nessuno più ricorda la sua evocazione di santa Maria Goretti, la martire della verginità canonizzata da Pio XII (1). Forse il partito, logorato dal benessere e dal consumismo, è un po’ imborghesito. Forse la nomenklatura italiana, e ancor più marcatamente il clan dei comunisti romani, è anche somaticamente diversa dal prototipo del bolscevico: se si confronta la fotografia di un Breznev con quella di un Gerardo Chiaromonte o di un Lucio Magri il contrasto appare più stridente che mai! Eppure si tratta sempre di dirigenti dello stesso partito di Ceaucescu, di Honecker, di Husak, di Gomulka, tutti membri di una setta che professa la medesima ideologia, ha lo stesso programma di azione: possono variare i metodi e i tempi, ma la sostanza e la meta rimangono le stesse.

La carriera di Berlinguer è tutta scandita da cooptazioni vieppiù significative: già nel 1946, da segretario del Fronte della Gioventù (sottinteso: “comunista”‘), incontra Stalin a Mosca; tre anni dopo è segretario della FGCI, la Federazione Giovanile Comunista Italiana, ergo di diritto membro della Direzione del partito; nel 1957 — particolare non secondario — è nominato direttore della scuola di partito, l’Istituto di Studi Comunisti, delle Frattocehie, nei pressi di Roma — che chiuderà i battenti solo nel 1993! —, dove s’insegna la sovversione scientifica dei sistemi democratici; nel 1957 è vicesegretario del PCI sardo e poi. nel 1966. responsabile politico per il Lazio; fra il 1966 e il 1968 il PCI lo invia in Vietnam, in Cina, in Corea del Nord e di nuovo a Mosca.

Nel 1968 è eletto deputato e nel 1972 segretario generale, succedendo allo “spagnolo” — uno degli ultimi esponenti del comunismo “di guerra” degli anni 1930-1940 — Luigi Longo.

Ora, un personaggio simile, la cui attività “professionale” è servire a tempo pieno in una organizzazione che persegue il disegno di sovietizzazione del mondo e la cui vita s’intreccia con quella di autentici professionisti della Rivoluzione internazionale, da Togliatti a Pajetta, da Ingrao a Cossutta e Longo, non può non essere considerato pienamente partecipe e, anzi, magna pars di quel medesimo disegno.

Un disegno — o forse un tragico sogno — miseramente e misteriosamente crollato nel 1989-1991 dopo aver seminato il mondo di morti e di martiri; dopo avere attizzato guerre in ogni continente; devastato, dissolto o asservito le comunità religiose di tanti Paesi; eliminato interi ceti sociali, imprigionata e dissolta ogni dissidenza; ridotti alla fame popoli antichi e liberi.

Come è possibile che uno per quasi quarant’anni giri ovunque nel mondo del “socialismo reale” senza accorgersi di che cosa questo volesse dire per i disgraziati popoli che dovevano subirlo? Certo, difficilmente il giovane ex aristocratico sardo avrà avuto modo di mischiarsi al popolo più povero ed emarginato; di sicuro i suoi soggiorni e i suoi interlocutori saranno stati all’interno dei circuiti privilegiati riservati all’é/ife comunista autoctona e agli ospiti di prestigio. Probabilmente non avrà mai visto una famiglia polacca condividere in otto persone un bilocale in un kombinat fatiscente e senza riscaldamento oppure avrà visitato una fabbrica in Romania.

E’ difficile che un personaggio sia dipinto come di alta statura morale e intensa sensibilità e poi sia riuscito a “vivere senza menzogna” — come auspicava Solzenycin — in un universo come quello comunista dove la menzogna ad extra e ad intra era la regola funesta…

Ma uno che ha diretto la scuola di partito e si fregia dei galloni di erede di Togliatti non si cura di questi aspetti: guarda solo alla realtà come si deduce dalle categorie del marxismo e fa quanto richiesto dalla tattica leninista; deve preoccuparsi di trovare e di dettare la linea politica giusta di fronte al maturare, sempre mutevole, della “contraddizione” dialettica, cioè d’inventare nuove formule politiche. E di questo si rivelerà del tutto capace, anche se con relativamente poco costrutto.

Dopo la batosta del 18 aprile 1948 e la nascita dei blocchi, quando scoppia la guerra “fredda”, il percorso del partito è tutto in salita: però già nel 1960. sbandierando un inesistente “pericolo fascista” e usando la violenza, saprà reimporsi. Il centrosinistra sposterà l’asse politico del Paese e gli creerà spazio politico; il Sessantotto sarà occasione, abilmente sfruttata, per rilanciare l’ideologia marxista e per spostare ancor più a sinistra il Paese. Il PCI si presenterà ancora come partito ideologico ma, attraverso il mito della i Resistenza come “secondo Risorgimento”, stempererà il suo carattere di classe in quello di forza nazionale, co-fondatrice della Repubblica. Il “caso Moro” lo accrediterà nel 1978 come la vera architrave della Repubblica e, dopo l’uccisione, nel 1979, del sindacalista comunista Guido Rossa da parte delle Brigate Rosse, come unica forza in grado di sorreggere le istituzioni repubblicane di fronte al terrorismo.

Ma anche questa riconquistata centralità politica non è ancora il potere. Berlinguer capisce che senza i cattolici il percorso del PCI può finire come nel Cile di Allende e perciò lancia nel 1973 la parola d’ordine del “grande compromesso storico” fra partito comunista e mondo cattolico — si badi bene: non fra partito e Democrazia Cristiana, cosa ormai acquisita, almeno dalla segreteria Moro. Il crescente ruolo “istituzionale” del PCI culmina nel 1977-1979 con i governi “rossi” Andreotti-Berlinguer, dove il partito, pur esterno al governo, diviene il vero asse della bilancia della politica italiana e l’autentico governo-ombra del Paese. Nel 1979, però, con l’ascesa al soglio di Giovanni Paolo II e l’irrigidimento dei rapporti fra i blocchi, la marcia del PCI verso il governo si arresta.

E si apre così per il PCI la fase dell’ “austerilà”, forse quella cui più è rimasta legata la memoria di Berlinguer. Probabilmente per colpire principalmente l’astro nascente Craxi, l’unico leader che abbia tentato di mettere in discussione l’egemonia comunista nel mondo repubblicano, inizia allora nel PCI la denuncia della corruzione, del malcostume, delle mafie, del sistema tangentizio che affligge la politica italiana. Una denuncia ovviamente indirizzata solo contro gli avversar! e i comprimari politici, cercando per diametrum di accreditarsi come partito “diverso”, onesto, spassionatamente dedito al progresso civile del Paese. Il che farà dimenticare le innumerevoli valigie diplomatiche con l’ “oro di Mosca” ritirate presso l’ambasciata sovietica, le centinaia di tangenti affluite al partito attraverso le cooperative “rosse”, le intermediazioni con i Paesi dell’Est e con Cuba, nonché i generosi contributi dei vari “miliardari rossi” del nostro Paese.

L’austerità — con il relativo blocco dell’esportazione dei capitali e l’abbuiamento precoce delle città — sarà l’ultima carta che Berlinguer cercherà di giocare per uscire dall’impasse diun partito che, nonostante l’avanzata in termini di suffragi del 1976, non riesce a sfondare sul piano politico. Dopo la “marcia dei Quarantamila” della Fiat, nell’autunno del 1980, il PCI vede altresì declinare la sua presa sul movimento operaio stesso.

Tuttavia, se il percorso verso il cambiamento politico sarà impervio e, alla fine, sterile, il cambiamento che imporrà al Paese, l’eversione delle strutture profonde della società italiana, il mutamento del “senso comune”, daranno frutti di gran lunga più “lusinghieri”. Divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia, libertà di droga, livellamento dei sessi, sovietizzazione delle istituzioni formative pubbliche, consolidamento dell’egemonia comunista sul mondo della cultura e sulla magistratura: tutti mutamenti allora ancora alcuni allo stato embrionale ma destinati a scatenare conseguenze devastanti negli anni a venire.

In conclusione, non si può non vedere in Berlinguer la quintessenza e il protagonista di un passaggio del Paese verso esiti socialisti — in senso ampio — “più avanzati”. Né si può esimersi da chiamarlo in corrèo, da individuarne responsabilità decisive, in quanto “gestore” di un’autentica centrale di disarticolazione e dissoluzione di quanto di positivo esisteva del retaggio di un’Italia già duramente provata dalla Rivoluzione risorgimentale e fiaccata dalle numerose, inutili e sempre più atroci guerre cui l’élite dirigente postunitaria e fascista l’aveva chiamata.

Quanto al secondo quesito, posto quanto detto, pare davvero contraddittorio che chi apparentemente vuole prendere le distanze dal vecchio dogmatismo rivoluzionario comunista oggi senta il bisogno di prestare omaggio a un soggetto che di quel vecchio dogmatismo è stato interprete, forse meno pedissequo, ma di certo pienamente coerente. Nell’ideario dei “democratici”, postcornunisti e postdemocristiani, quale spazio può avere l’onesto e mesto, ma a pieno diritto tra gli ultimi “dinosauri” del comunismo, Enrico Berlinguer?

Non è mia intenzione lanciare accuse indiscriminate e scomposte. Il problema non è tanto Berlinguer come persona, cui non si può imputare direttamente alcunché d’illegale o di disonorevole: il problema è nella forza, politica e non solo politica, di cui è stato la guida assoluta per lunghi anni, così come del rapporto ira tale forza e il bene comune del Paese.

Beatificare Berlinguer significa beatificare il comunismo italiano e internazionale degli anni 1970 di cui egli è figura di spicco e alto dirigente ovunque apprezzato. Significa erigere a modello una delle peggiori stagioni della storia della nostra nazione, una pagina dolorosa e una fase maligna di una patologia antica, della quale non solo il Paese non è riuscito a liberarsi allora — e forse nemmeno oggi —, ma che negli anni berlingueriani ha conosciuto le sue crisi morbili peggiori e più devastanti.

Anche se personalmente “pulito”, egli ha guidato senza tentennamenti una “gioiosa macchina da guerra ” la cui azione, al di là delle apparenze umanitarie, ha in modo decisivo contribuito a de-moralizzare la nazione, spesso con prese di posizione proditorie in politica internazionale e sfiorando la contiguità con la sfera dell’illecito. Non si può dire di Berlinguer che “non sapeva”: nella sua posizione nazionale e internazionale per lui vale, in forma assolutamente appropriata, il “teorema”, tante volte applicato e abusivamente dalla Procura di Milano, del “non poteva non sapere” e quindi per lui si configura una oggettiva corresponsabilità in sedere — perché tale è stata la costruzione della peggior tirannia che il mondo abbia conosciuto — tutt’altro che esigua.

I nostalgici di Berlinguer — comunisti, ex comunisti, post-comunisti, “diversamente comunisti”, para-comunisti, “dem” — farebbero bene, magari proprio in coincidenza con questo anniversario, a fare invece finalmente un mea culpa e a domandare perdono delle colpe storiche del comunismo, di aver desiderato d’imporre un sistema politico e sociale contro natura a un mondo che di comunismo non voleva e non vuole sapere. Mi basterebbe sentire qualche ex o qualche dirigente attuale recitare senza infingimenti e fuori dalla “doppia morale”, questo brano di una poesia dell’ex comunista messicano Octavio Paz Lozano (1914-1998), che Marcello Veneziani ha di recente riproposto.

«El bien, quisimos el bien: / cnderezar al mundò. I No nos faltò entereza: I nos faltò humildad. Lo que quisimos no lo quisimos con inocencia. I Preceptos y conceptos, I suberbia de teòlogos: I golpear con la cruz, I fundar con sangre, I levantar la casa con ladrillos de crimen, I decretar la comunión obbligatoria. I Algunos I se convirtieron en secretarios de los secretarios I del Secretario General del Infierno. I La rabia I se volvió filosofia, I su babà ha cubierto al pianeta. I La razón I descendió a la tierra, I tomò la forma del patibulo I y la adoran millones» (2)

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1) Cfr. E. BERLINGUER, Discorso in occasione del Primo Convegno della Gioventù Comunista, 22-24 maggio 1947, in MARISA MUSI: e Idem: Relazione alla Conferenza Nazionale Giovanile del PCI, Uesisa, Roma 1947, p. 44,

2) «II bene, volevamo il bene / raddrizzare il mondo.I Non ci mancò la rettitudine: I ci mancò l’umiltà. I Quello che volevamo non lo volevamo con innocenza. I Precetti e concetti, I superbia da teologi: I batterai con la croce, I fondare con il sangue, I edificare la casa con i mattoni del crimine, I decretare la comunione obbligatoria. I Alcuni divennero segretari dei segretari del Segretario Generale dell’Inferno. / La rabbia s’è fatta filosofia, I la sua bava ha coperto il pianeta. I La ragione è discesa sulla terra, I ha preso la forma del patibolo I e in milioni l’adorano»

(OCTAVlO PAZ. Nocturno de San Ildefonso, in IDEM. Vuelta. Seix Barral, Barcellona 1976, pp. 71-83 (p. 72)).