Il vizio dell’ipocrisia tra compromessi e concessioni

ipocrisiaStudi Cattolici n.638 Aprile 2014

Michelangelo Pelàez

Chiamare qualcuno ipocrita è una di quelle accuse che più feriscono la sensibilità personale perché mettono in discussione la propria identità morale. Tuttavia, con estrema leggerezza l’accusa di ipocrisia è rivolta a intere categorie professionali, agli appartenenti a una religione, ai membri di una comunità, di una città o nazione. C’è, per esempio, una ricca letteratura di severi giudizi sulla reale sincerità del mondo cattolico farcita di epiteti che denunciano l’ipocrisia di papi, vescovi, frati e preti, fino a critiche severe della dottrina cristiana accusata di sostenere una doppia morale e quindi un finto rigore teoretico.

 

Senza dimenticare Dante, che chiama Bonifacio VIII «lo Principe d’i novi farisei», da Bocaccio («L’ipocrita carità dei frati che quello danno ai poveri che converrebbe loro dare ai porci o gittar via») a Benedetto Croce («Quella ipocrita ferocia, in cui pareva riudire dalle bocche dei preti il detto di Caifa, è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera, … sdegnò il mondo civile»), dall’Ariosto («La superbia v’andò, ma non che sanza / la sua vicaria il monaster lasciasse; / per pochi di che credea starne absente, / lasciò ipocrisia loco tenente») al Gobetti («II governo clericale aveva aiutato un’educazione all’ipocrisia politica») non c’è che da scegliere.

Davanti a queste sommarie e frequenti accuse rimane l’impressione che il termine «ipocrita» sia utilizzato spesso in maniera volutamente malevola o alquanto generica e imprecisa. Così, per esempio, Alfredo Fanzini, noto critico letterario del primo Novecento, spiegava che la ragione per cui «gesuita» suona come sinonimo di «ipocrita» si deve cercare «nella necessità che ebbe la Compagnia di mettere insieme queste due cose che sono in antagonismo tra loro, cioè gli ammaestramenti di Gesù Cristo fondati su la rinuncia alle cose mondane e le cose mondane».

Dovrebbe essere noto a qualsiasi uomo di cultura che tale antagonismo non esiste. Gesù nel congedarsi dai suoi apostoli si rivolse così in preghiera al Padre: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno» (Gv 17, 15). Non c’è altro antagonismo tra il Vangelo e il mondo se non quello tra Gesù e il «Principe di questo mondo» (Gv 12, 31) che dovrebbe rendere i cristiani vigilanti affinchè non si insinui nella loro vita nulla che sappia di «mondanità», di complicità, cioè, con il Maligno: l’intiepidimento della vita cristiana conduce sempre all’ipocrisia. Chi sono gli scribi e farisei ipocriti?, si domandava il Savonarola: «E’ tiepidi».

Il rapporto con la veracità

In che cosa consiste realmente il vizio dell’ipocrisia? Ipocrita, nel suo significato originario, è l’attore di teatro, il commediante che negli spettacoli si presenta mascherato, con volto e fogge che alterano la sua vera identità allo scopo di ingannare e divertire il pubblico. Oggi ha, generalmente, un significato morale.

L’ipocrita come il teatrante è un falso sincero: «L’attore», diceva Vittorio Gassman, «è un bugiardo a cui si chiede la massima sincerità». L’ipocrita è un simulatore che assume nella sua vita quotidiana e in chiesa le apparenze di una persona diversa da quella che in realtà è; si atteggia a giusto quando invece si comporta abitualmente da peccatore. L’ipocrisia è una simulazione della verità che presuppone la distinzione antropologica, di matrice agostiniana, tra la propria interiorità e la sua manifestazione esterna. Quando la distinzione si trasforma in contrapposizione, il soggetto non è unificato, si parla allora di doppiezza ipocrita.

Nel Vangelo di san Matteo (cfr 2, 3-8; 6, 1; 23, 3), si condanna la discordanza tra la bocca e il cuore, tra la bocca e le azioni, tra il cuore e le opere praticate per essere ammirati dagli uomini. Gesù chiama il fariseo sepolcro imbiancato e Dante lo immagina rivestito di una cappa di bronzo dorato. L’ipocrita finge di essere con le parole o con le azioni ciò che in realtà nel suo intimo non è, né pensa né vuole; manifesta un’intenzione e ne persegue un’altra. Secondo san Paolo (cfr 1 Tm 4, 2) è un «impostore» che si atteggia a far piacere agli uomini quando in realtà cerca di danneggiarli.

L’ipocrita è, infatti, un servile bugiardo, amabile adulatore e procacciatore di onori, di potere e di denaro. Finge, come Giuda (cfr Gv 12, 5-6), l’amore della povertà ma pensa soltanto a riempire la sua borsa. Cattivo esempio, questo di Giuda, che purtroppo si ripete tra i discepoli di Gesù. Già san Pietro ebbe da dire parole durissime ai falsi donatori Anania e Saffira (At 5, 1 ss.) e Giovanni di Pagolo Morelli nelle sue Ricordanze, riferendosi a Giancarlo Galeazze Visconti, scrive che per untuosa ipocrisia «vestiva come uno pinzochera e co’ paternostri in mano».

Una precisazione è però necessaria. La proibizione di mentire obbliga sempre. Ma è da tenere in conto che la virtù della veracità, che l’ipocrita non osserva, deriva dal concetto di verità. Dire la verità, in concreto manifestare quello che si fa o si pensa, non si ha l’obbligo di farlo sempre e ovunque, anzi vige, in alcune circostanze, a costo di essere fraintesi, l’obbligo del silenzio di ufficio e in altre il diritto alla riservatezza. A differenza di altre virtù, come il dovere di aiutare il prossimo in difficoltà, la veracità, in tutte le sue espressioni, non è sempre virtù di facile discernimento, soprattutto oggi nella nostra convivenza anonima segnata da un feroce antagonismo.

E facile perciò scambiare per ipocrisia l’osservanza corretta di una veracità che esige in molte circostanze gradualità, riservatezza e silenzio. Si potrebbe dire, con le parole di Amleto rivolte alla regina sua madre, che «in questa epoca gonfia di turpitudini la virtù deve chiedere perdono al vizio». La veracità nelle sue varie espressioni, onestà, sincerità, franchezza (parresia), semplicità, non è uno stato di naturale innocenza, ma una virtù che si acquista a partire dalla scoperta della propria interiorità e si sviluppa con sforzo morale nella misura in cui questa interiorità impara ad aprirsi con fiducia e trasparenza al mondo e agli altri. Il bambino nella sua ingenua autenticità diventerà verace quando saprà distinguere tra vero e falso e scegliere responsabilmente il vero senza paura.

Certamente l’esigenza di verità, «primo e fondamentale elemento della virtù» (Montaigne), si colloca alla base di un’educazione morale mai conclusa, particolarmente in contesti più o meno estesi dove regnano la menzogna e quindi si debilita la retta coscienza morale del singolo e della collettività. Di fronte alle manipolazioni dell’opinione pubblica, con immediate ricadute nel costume sociale, l’adattamento a una falsa coscienza ideologica, la leggenda metropolitana accolta e diffusa come verità storica, l’adulazione, il gossip del finto scandalizzato, il patteggiamento calcolato della verità, l’astuto silenzio, i vergognosi rispetti umani, la vanitosa pubblica autoaccusa dei propri peccati sono altrettante forme di ipocrisia che minano la convivenza sociale.

Tradire la verità equivale a smarrire sé stessi sprofondando in un’esistenza ipocrita, massiva e vuota, quando invece la sincerità, massima espressione di amore alla verità, impone di non piegarsi al potente di turno a costo di sacrifici personali. In uno spirito libero, scrive Giambattista Torello, la sincerità è presa di posizione cordiale, senza ambiguità, trasparente di fronte all’altro, mettendo da parte adulazioni, diplomazie, nel pieno rispetto di ogni persona.

Falsi sinceri & autenticità

Ma che dire quando il concetto di verità va in frantumi e si fa passare per virtù l’autenticità come affermazione di un io individuale indipendente da ogni criterio di verità? Si sostiene allora che di fronte all’ipocrisia della società, «all’universale dissimulazione», non bisogna cedere a un falso formalismo regolativo della propria coscienza, ma denunciare ogni esteriorità e affermare la propria sincerità. Quante volte però, ricorda Torello, sotto il logoro mantello dell’autenticità si contrabbandano sfoghi, arroganza, scortesia, provocazioni, esibizionismo, masochismo. L’esibizionismo di un Rousseau nelle sue Confessioni, nei confronti delle Confessioni agostiniane, costituisce un esempio plateale della distanza che corre tra autenticità e sincerità.

L’endiade autentico-falso non è stata applicata di solito come criterio di valutazione della condotta umana, bensì per verificare se una moneta, una firma, un’opera d’arte siano vere o false. L’autenticità non si acquista con lo sforzo proprio di una virtù che coinvolge la persona nella sua interezza, bensì in modo indiretto, facendo sgorgare nella parlata, nel contegno, negli interessi e passioni, per lo più inconsapevolmente, la propria intimità.

Può essere questa una forma di autenticità dialogica basata sulla prerogativa di essere fedeli a sé stessi, senza necessità di alcuna maschera, nel rispetto dell’alterità; in questo caso si può conferire forza morale alla cultura dell’autenticità. Se si è sinceramente autentici non si può restare con mille artifici indifferenti nei confronti degli altri.

Oggi invece il paradigma dell’autenticità viene proposto come una sorta di criterio di verità. Andrea Tagliapietra (Sincerità, Milano 2012), nel descrivere la torsione della sincerità in direzione dell’autenticità, ha messo in luce come tale paradigma abbia spesso una funzione di denuncia delle varie forme in cui si articolano le strutture della vita collettiva. La sincerità, virtù sociale, si diluisce pericolosamente in un reattivo e libero sfogo contro la società. Ecco che allora godono di autorità morale gravi disordini sociali, violenze, trasgressioni sessuali e vengono invece tacciate di ipocrisia l’osservanza, virtù aristotelica, la fedeltà alla parola data, il compimento dei doveri famigliari e sociali.

La persona autenticamente sincera ha la capacità di accordarsi con sé stessa, attuando la parte migliore di sé, perché tiene a bada le sue passioni: la vanagloria e la superbia da cui dipende l’ipocrisia, l’invidia all’origine di maldicenze e calunnie, e infine l’avarizia causa di tradimenti e frodi. Questo accordo con le passioni tenute in ordine presuppone il possesso di virtù come la perseveranza, la costanza, la pazienza, che ne chiamano in causa molte altre: non ci sono virtù separate. Si può essere sinceri, non ipocriti, soltanto quando l’integrità della vita buona è condotta senza secondi fini. Sant’Agostino afferma che quando non vi è doppiezza di cuore non vi è neppure menzogna.

Le parole di Papa Francesco

II magistero di Papa Francesco costituisce una limpida e chiarificatrice denuncia del peccato di ipocrisia oltre che un forte richiamo alla conversione morale e spirituale capace di dare autentico fervore alla vita di tutti di cristiani.

Tema ricorrente nelle omelie pronunciate durante la celebrazione mattutina nella cappella della Casa Santa Marta, è la severa condanna della «musica dell’ipocrisia mormoratrice» tra i cristiani. Infatti Papa Francesco precisa: «Non parlo di quelli che non sono cristiani, li rispetto. Ma fra noi, parliamo in famiglia…» (15 ottobre). «Tutti noi abbiamo la tentazione dell’ipocrisia, abbiamo la possibilità di diventare ipocriti», per superare tale tentazione abbiamo bisogno della grazia di Dio (19 giugno).

Dai numerosi interventi del Papa la descrizione del grave peccato di ipocrisia è dettagliata ed esauriente, inoltre mette in risalto che non si tratta di un semplice peccato dovuto alla fragilità umana di cui sinceramente ci si pente, ma di corruzione, da attribuire a una malizia che ha del diabolico. Già san Gregorio Magno affermava: «Ci son di quelli che portano l’abito della perfezione e non raggiungono il merito della perfezione. Non si può certo credere che costoro siano aggregati al numero degli ipocriti; poiché altro è peccare di fragilità, altro di malizia».

Gesù rimproverava come ipocriti i farisei perché conoscevano tutta la legge, ma nella pratica non la osservavano. Le loro parole erano belle e buone, ma staccate dalla vita vissuta. La questione delle parole staccate dalla pratica, ricorda il Papa, si pone anche a noi cristiani: le beatitudini e tante cose che Gesù ha detto, noi possiamo ripeterle fedelmente, ma se non ci portano alla vita non solo non servono, ma fanno male, ci ingannano e ci fanno credere che noi abbiamo una bella casa, quando in realtà è priva di fondamenta. La questione essenziale è mettere in pratica gli insegnamenti di Gesù per costruire la casa sulla roccia (5 dicembre).

Nell’omelia del 19 giugno il Papa, commentando alcuni passi dei capitoli 6, 22 e 23 di san Matteo, sottolinea i gravi danni che l’ipocrisia reca alla Chiesa e descrive alcune categorie di ipocriti: 1) quelli che, sulla strada della casistica, vogliono far cadere Gesù nelle loro trappole (eticisti senza bontà, portatori di bellezze da museo); 2) quelli che seguono la strada di precetti infecondi; 3) quelli che si pavoneggiano del sacro con le loro preghiere, digiuni ed elemosine, i quali, nella loro viltà, sfiorano il peccato contro lo Spirito Santo.

L’ipocrita ha una doppia vita, piena di compromessi e ingiustificate concessioni. Cerca di salvare le apparenze, ma in realtà coltiva nel proprio io narcisistico gli idoli della mondanità e del denaro: è un «carrierista» vanitoso, avido di potere e di denaro, invidioso, chiacchierone e mondano. Considera la religione come una fonte di guadagno e la fede come uno status in cui, sotto sotto, si fanno degli affari (20 settembre). Idolatria, mondanità e mormorazione, più volte deprecate insieme dal Pontefice, sono componenti inseparabili dell’ipocrisia. San Gregorio Magno, infatti, scrive: «Gli ipocriti nelle cose di Dio hanno di mira aspirazioni mondane; poiché anche nel compimento di cose sante non cercano la conversione degli uomini, ma il favore umano».

La calunnia II & le chiacchiere

Papa Francesco, con immagini che rendono incisivo il suo discorso, identifica l’ipocrisia in una forma di santità di «tintoria», il che sta a significare una religiosità apparente di cristiano perfetto, con aria di pulita sufficienza, ma in realtà senza zelo né misericordia (14 ottobre). L’ipocrita ha un po’ di vernice cristiana, ma dentro non c’è conversione, è un cristiano tiepido, «all’acqua di rose», che dice di credere in Gesù Cristo, ma vive e parla come un pagano (24 ottobre). Le parole cristiane svuotate della presenza di Cristo sono come parole impazzite, senza senso e ingannatrici che sfociano nell’orgoglio e nel «potere per il potere» e fanno un gran male (5 dicembre).

Il linguaggio dell’ipocrita è pieno di finta amabilità con cui fa credere di voler conoscere la verità quando in realtà, con persuasione diabolica, tende trappole con cui coinvolgere gli altri nelle sue menzogne. Giudica il prossimo, è maldicente e sospettoso, ovunque è presente, insorgono conflitti e diffidenze che trasformano la vita comune in un inferno (2 e 13 settembre). Tra le cattive abitudini degli ipocriti, Papa Francesco elenca quella di «spellarsi» a vicenda con la disinformazione, la calunnia e le chiacchiere: «Quanto si chiacchiera nella Chiesa! Quanto chiacchieriamo noi cristiani!». Si tratta naturalmente di cristiani di buone maniere e di cattive abitudini: «cristiani da salotto» e chiacchieroni (18 maggio).

Nella tradizionale udienza natalizia alla Curia romana (21 dicembre) il Papa ha chiesto a tutti i suoi immediati collaboratori nel governo della Chiesa universale l’impegno esplicito di esercitare l’obiezione di coscienza nei confronti di ogni forma di chiacchiera mormoratrice, «perché le chiacchiere danneggiano la qualità delle persone, danneggiano la qualità del lavoro e dell’ambiente».

Le parole di Papa Francesco riecheggiano di spirito evangelico e ricordano pagine memorabili di grandi sante e di grandi santi: pensiamo a santa Caterina da Siena, particolarmente venerata da san Josemarìa Escrivà che considerava la sincerità la prima virtù umana su cui contare per avviarsi con desideri di santità sui cammini divini della terra; infatti, due capitoli del suo libro Solco sono dedicati proprio alla sincerità e all’ipocrisia. Ricordiamo, per concludere, san Filippo Neri al quale, riferisce un suo biografo, il Bacci, dispiaceva trattare con le persone doppie che non andavano con lealtà e schiettezza nel negoziare, e fu perciò «capital nemico delle bugie».

Nel popolo di Dio lo Spirito Santo è sempre presente e operante affinchè la zizzania dell’ipocrisia non soffochi mai la testimonianza della verità. Chiediamo alla Madre di Dio, e madre nostra, che abbondino in quest’ora della Chiesa i testimoni sinceri della verità; facciamolo con la bella invocazione di sant’Efrem il Siro: «Nobis non est alia quam a te fiducia, o Virgo sincerissima!».