Pensiero forte e pensiero debole: la radice dei valori

Trascrizione della relazione tenuta al Serra Club di Livorno l’11 febbraio 2002 dalla dottoressa Laura Boccenti Invernizzi sul tema: Pensiero forte e pensiero debole: la radice dei valori
pensiero forte

Laura Boccenti Invernizzi

Da tempo si parla di “pensiero debole”, cioè da un tipo particolare di sapere caratterizzato dal profondo ripensamento di tutte le nozioni che erano servite da fondamento alla civiltà occidentale in ogni campo della cultura. Secondo questa prospettiva i valori tradizionali sarebbero diventati tali solo a causa di precise condizioni storiche che oggi non sussistono più; per questo motivo deve essere messa in crisi la loro pretesa di verità.

A fondamento del pensiero debole c’è l’idea che il pensiero non è in grado di conoscere l’essere e quindi non può neppure individuare valori oggettivi e validi per tutti gli uomini.

Il maggiore interprete di questa problematica in Italia è il filosofo torinese Gianni Vattimo. Secondo Vattimo il compito attuale della filosofia non è d’interrogarsi sulla verità, ma di portare alle estreme conseguenze la crisi epocale che si è espressa attraverso il processo di secolarizzazione.

Secolarizzazione e nichilismo 

Sembra che il tempo presente sia il tempo del nichilismo derivante della crisi della secolarizzazione. Secolarizzazione sta qui ad indicare il passaggio da un’interpretazione della realtà in chiave religiosa ad una in chiave atea o agnostica e quindi da una cultura religiosa a una cultura irreligiosa o areligiosa.

Ogni cultura è espressione di un processo che parte dall’assunzione delle domande fondamentali che l’uomo si pone (sul senso dell’esistenza, sulla realtà e sul suo fondamento) e poi traduce i giudizi formulati su tali questioni in una visione del mondo a cui dà corpo incarnando tali giudizi in una civiltà per mezzo dei concreti rapporti che gli uomini stabiliscono con la realtà: le religioni, le istituzioni politiche e giuridiche, le arti, l’economia, le scienze, in una parola tutte le manifestazioni concrete dell’agire umano sono espressioni concrete e storiche, “incarnazioni” appunto, dei giudizi espressi sulle questioni fondamentali; tali giudizi infatti non possono rimanere chiusi nell’intelletto, ma diventano comportamento e gesto alimentando la manifestazione esterna della cultura.

I molteplici rapporti che vengono posti in essere dalla comunità di uomini in ogni tempo storico possono essere ridotti a tre relazioni fondamentali:

Il rapporto tra uomo e Dio

Il rapporto che l’uomo istituisce con gli altri uomini

Il rapporto tra uomo e mondo fisico

Nell’antichità e nel medioevo la cultura occidentale è sostanzialmente realista, nel senso che non mette in dubbio la capacità del pensiero di conoscere l’essere e su questo fondamento edifica ogni conoscenza successiva.

La scoperta e l’incontro con la verità dell’essere è possibile solo a patto che si realizzino alcune condizioni; l’essere infatti non si concede in modo immediato alla presa della ragione, perché il fondamento della verità non è concettuale, ma è costituito dalla realtà stessa che si mostra donandosi.

In questo mostrarsi dell’essere è racchiusa una richiesta che viene fatta all’uomo, quella di porre il fondamento della propria conoscenza fuori di sé, in una realtà che è stata trovata e che quindi non dipende nella sua struttura ontologica dal pensiero e dalla volontà dell’uomo.

Perciò nella ricerca della verità è fondamentale l’atteggiamento che guida l’attività conoscitiva, se cioè si è disposti o non si è disposti ad accettare il fatto della trascendenza dell’essere.

La disposizione dell’uomo che accompagna la conoscenza si esprime come “stupore di fronte all’essere” o “sospetto di fronte all’essere”.

Lo stupore manifesta l’assenso implicito della volontà di accogliere la realtà nella sua condizione di evidenza trovata, è l’atteggiamento che assume la coscienza quando essa:

– accetta di essersi trovata come già posta insieme al resto del mondo

– con una struttura e delle capacità determinate

– in una relazione originaria e costitutiva con la realtà

Lo stupore di fronte all’essere è recta ratio. Qui l’uomo trova la sua grandezza che sta nella capacità di riconoscere e accogliere la luce che risplende in lui senza essere da lui. In questa situazione la ragione rivela la propria capacità di accogliere il senso delle cose, capacità che, con un termine filosofico, possiamo definire metafisica.

La metafisica non s’identifica con un sistema filosofico, essa si costituisce quando la ragione, partendo da un evento sensibile perviene al suo significato sovrasensibile. Così ad es. Platone nel Fedone presenta due diversi piani di risposta alla domanda sul motivo della prigionia di Socrate: i filosofi naturalisti dicono che Socrate è in carcere perché ha un corpo capace di camminare che gli ha permesso di recarvisi. Questa però è solo la causa fisica della presenza di Socrate in carcere, la causa vera è la volontà di bene di Socrate che lo induce ad accettare la sentenza dell’autorità; tale causa non può essere percepita con i sensi, i sensi percepiscono solo i suoi effetti, essa tuttavia non solo è reale, ma è anche il senso profondo dell’avvenimento.

Quando l’uomo riconosce l’esistenza di una natura e quindi di una verità dell’essere che lo trascende è di fatto, per questo stesso riconoscimento, aperto a Dio come causa dell’essere dell’uomo e del mondo.

Quando l’uomo invece rifiuta il fatto di essersi trovato come posto e di essere, grazie alla propria “natura” (participio futuro del verbo “nasci” -nascere-; per cui il significato è “ciò che le cose sono capaci di essere e di fare per nascita”) capace di cogliere il senso della realtà, compie di fatto una scelta contro il fondamento, una scelta intimamente antireligiosa.

La chiusura verso l’essere diventa rifiuto, poi sospetto e, talvolta, risentimento di fronte alla natura. Alla radice del rifiuto della propria struttura ontologica c’è la rivendicazione di un’autosufficienza assoluta. Tale rivendicazione è illusoria e illegittima; illusoria perché nessun uomo è causa del proprio essere, illegittima perché la scelta di accogliere l’evidenza o di negarla non ha lo stesso peso davanti alla coscienza e quindi non è moralmente neutra.

Il processo di secolarizzazione si avvia quando nel rapporto tra l’uomo e la realtà inizia ad affermarsi l’opzione antireligiosa, che prende la forma del rifiuto di riconoscere la strutturale apertura del pensiero all’essere e quindi del rifiuto di cogliere attraverso la realtà sensibile il significato essenziale e metastorico delle cose.

In altri termini l’ateismo non si manifesta e non si sostanzia nella negazione della religione rivelata, ma nella sua riduzione alla sfera del soggettivo e quindi dell’opinabile conseguente alla rottura operata dalla modernità con la metafisica.

La ragione sganciata dall’essere non riesce e non può trovare un fondamento riconosciuto da tutti perché essa stessa ha ridotto la verità a opinione soggettiva.

Il primo esito del pensiero secolarizzato e depotenziato è costituito dalle ideologie. Il naufragio storico delle ideologie ha condotto al loro abbandono. Anche qui tuttavia ciò che è stato abbandonato è il contenuto dell’ideologia (la lotta di classe come motore della storia, il superuomo…), non è stata invece abbandonata l’idea della potenza senza regola della ragione, la ragione come possibilità infinita di porre significati e valori: in ciò sta l’essenza dell’attuale nichilismo.

Il nichilismo è una catastrofe culturale nel senso non solo di esito infausto e rovinoso, ma anche di capovolgimento e negazione del significato stesso di cultura, esso presenta le caratteristiche della non-cultura e dell’ anti-cultura.

La cultura infatti non è mai eticamente neutra, il suo valore sta nella capacità di aiutare l’uomo a diventare sé stesso, esprimendo le potenzialità presenti nella propria natura; essa è quindi necessariamente in relazione con la verità su Dio, sull’uomo e sul mondo.

L’essere dell’uomo infatti è teso verso il compimento, aspira al raggiungimento del bene che lo renda felice, quando si nega la possibilità di accesso razionale alla verità, si nega anche all’uomo la possibilità del compimento. La catastrofe culturale si colloca così all’origine della “catastrofe antropologica”.

Nichilismo senza ragioni

La scelta di accogliere l’evidenza o di negarla non è moralmente neutra. Il pensiero debole giustifica il rifiuto del riconoscimento come rifiuto di una presunta violenza intrinseca alla natura stessa della verità. E’ vero: la verità è esigente perché chiede adesione e accoglienza, ma la sua intransigenza non può diventare il contenuto di un’imposizione perché senza il libero assenso della volontà non ci può essere riconoscimento della verità. “Il rapporto vero con la realtà è come un rapporto sponsale, al cui interno è un non senso l’imposizione, perché è natura stessa di un tale rapporto l’essere comunicazione integrale nella libertà…C’è da domandarsi se il timore nichilistico per la verità non dipenda… da quell’atteggiamento dominativo che non riesce a pensare il mondo se non come rapporto di forze e come fruizione senza mistero.” ( Francesco Botturi, Dal nichilismo all’ateismo, in Cultura e libri, nn.48-49, 1989, pp. 43-53).

La storia ha dimostrato che quando l’uomo abbandona il fondamento della verità il pensiero depotenziato e secolarizzato ha prodotto le ideologie e con le ideologie i gulag e la shoah.

Se questo è vero quale sarà la carica di distruzione insita nel nichilismo?