Femminicidio. I dati di un allarme inventato

femminicidioRadici cristiane n.88 Ottobre 2013

Dopo che, in agosto, il governo Letta ha emanato il decreto legge sul cosiddetto “femminicidio”, la maggior parte dei giornali e del mondo politico ha cantato col coro, presentando la solita trovata demagogica come una grande conquista civile. Qualcuno ha anche provato a dire che il femminicidio non esiste. Noi siamo in grado però di dimostrarlo, fornendo – dati alla mano – le prove di come, ancora una volta, si cerchi di prendere in giro gli Italiani. E di quanto il matrimonio rappresenti un argine ed una difesa naturale anche contro le violenze tra le mura domestiche.

di Giuliano Guzzo

Ora possiamo dirlo: il cosiddetto femminicidio, inteso come allarmante crescita degli omicidi ai danni delle donne, è una bufala. Non corrisponde cioè al vero la tesi secondo cui si sia recentemente verificata quella impressionante impennata di violenza mortale contro le donne che i mass media, con poche eccezioni, tendono a far credere.

Lo stesso quotidiano della Cei Avvenire, nel numero dello scorso 17 agosto, sembrava lanciare l’allarme: «Violenza e stalking: donne, l’estate più nera». Salvo poi però, leggendo l’articolo, scoprire come, secondo gli stessi dati diffusi dal Viminale, le donne siano vittime “solo” «del 30% dei 505 omicidi commessi in Italia nell’ultimo anno, tra il primo agosto del 2012 e il 31 luglio del 2013». Il 30%. E si parla di femminicidio. Se il tema trattato non fosse comunque tragico, con notizie date in questo modo, vi sarebbe il rischio di cadere nel ridicolo.

COSA DICONO DAVVERO I DATI

Cosa dicono davvero i numeri? Tanto per iniziare una cosa: anche se può sembrare strano, da anni – precisamente a partire dal 1991 – in Italia si registra un calo nel numero degli omicidi e dei tentati omicidi: nel 1991 vi furono 3,38 omicidi volontari ogni 100.000 abitanti, nel 2008 furono 1,02; sempre nel 1991 si verificarono 3,87 tentati omicidi ogni 100.000 abitanti, scesi a 2,24 nel 2009. Tale fenomeno — determinato in modo significativo da una trasformazione del modus operandi della criminalità organizzata — riguarda anche i cosiddetti femminicidi. A suffragarlo, secondo diversi osservatori, sono i dati Istat. Istat, cui ci siamo rivolti direttamente, per evitare i caroselli di statistiche spesso contraddittorie, benché spacciate per ufficiali, circolanti sul web.

E l’Istat ci ha cortesemente risposto. Anzitutto, segnalandoci come, in effetti, solo recentemente sia iniziata la diffusione di dati sulle caratteristiche demografiche delle vittime di reati – storicamente ci si limitava alla diffusione di quelli riguardanti gli autori noti dei reati medesimi —. E poi spiegandoci come gli omicidi volontari con donne per vittime siano in calo: 192 nel 2003, 186 nel 2004, 181 nel 2006, 172 nel 2009, 156 nel 2010, 127 nel 2012.

Intendiamoci: anche una sola donna uccisa rappresenta una tragedia terribile ed inaccettabile; ogni omicidio rimane infatti un atto di estrema gravità, senza dubbio. Tuttavia è bene chiedersi come mai del cosiddetto femminicidio si sia iniziate solo recentemente, proprio nel momento in cui meno le cifre lo richiederebbero. Accanto  al presunto allarme femminicidio, si sta facendo largo la convinzione che l’Italia non sia “un Paese per donne”. Ma è proprio così?

L’ITALIA NON È “UN PAESE PER DONNE”?

Ancora una volta occorre consultare i dati. Ebbene, quelli ufficiali delle Nazioni Unite, che prendono in esame il numero di donne assassinate negli anni 2008 e 2010, mettono in luce un fatto quanto meno sorprendente: l’Italia, col suo 23,9% di vittime femminili di omicidi, si colloca in una posizione più favorevole rispetto a tanti Paesi Svizzera (49,1%), il Belgio (41,5%), la (49%), ed in linea con gli Stati Uniti (Cfr. Unodc, Homicide Statistics, 2011).

Che l’Italia non sia un Paese dalla violenza record; è confermato anche da un confronto fra dati del 2001 e del 2008 delle donne morte per omicidio: nel 2001 l’Italia aveva una percentuale pari allo 0,5 di questi omicidi ogni 100.000 abitanti contro lo 0,6% di Germania, Francia e Svezia e addirittura l’1,8% della Finlandia; nel 2008 l’Italia ha fatto registrare un’analoga percentuale dello 0,5%, la Svezia pure col suo 0,6%, mentre la Germania è salita allo 0,8%, la Francia allo 0,9%, e la Finlandia è calata leggermente, facendo comunque registrare un preoccupante 1,3%: più del doppio del dato italiano. Quanti ritengono che il nostro non sia “un Paese per donne” farebbero dunque bene a dirci sulla base di quali evidenze empiriche lo affermino.

EDUCAZIONE ALL’AMORE

Nel frattempo non possiamo fare a meno di tornare a chiederci come mai allora si insista nel descrivere solo l’Italia come un Paese retrogrado e pericoloso per le donne. A giudicare dall’insistenza con la quale — a dispetto dei numeri — e alla luce della forzata correlazione tra donne uccise e contesto familiare, l’ipotesi più concreta sembra sia quella dell’ennesimo, ancorché indiretto, attacco alla famiglia, dipinta ancora una volta come luogo di violenza ed oppressione. E dire che è l’esatto contrario. Infatti, come attestano fior di studi, è proprio nelle situazioni di convivenza o divorzio, rispetto a quelle proprie della famiglia e del matrimonio, che le donne sono maggiormente vittime di violenza (Cfr. Am J Public Health 2013; 103,2).

Anche se il nesso non è diretto e causale, è tuttavia riscontrato come le donne conviventi con un partner senza essere formalmente sposate risultino maggiormente esposte al rischio di violenza domestica rispetto a quelle sposate (Gfr. BMC Public Health 2011;11:109). L’importanza della famiglia come argine alla violenza è riscontrata pure sul versante sociale: vi sono infatti studi che hanno quantificato come il matrimonio possa determinare, attraverso la stabilità che assicura, una riduzione del 35% dei tassi di criminalità (Cfr. Criminologo 2006; 44:465-508).

Questo significa quanto, anziché lanciare falsi allarmi, sia opportuno ripartire da una sana educazione all’affettività e alla vita di coppia orientata al matrimonio e alla fedeltà. Dobbiamo tornare ad educare i ragazzi fin da giovanissimi all’idea dell’amore come di un sentimento serio, che non ammette violenza ma solo dono di sé, non comodo individualismo ma apertura alla vita, progetti condivisi e non fuga dalle responsabilità.

E’ una strada lunga ed impegnativa, certo, ma è l’unica che meriti davvero di essere percorsa e soprattutto è la sola che, in prospettiva, possa riportare ordine nella società. Tutto il resto, se non propaganda, è quanto meno cattiva informazione.

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