Transgender pentiti per il cambio di sesso

Abstract: Transgender pentiti per il cambio di sesso in forte aumento; con le loro storie stanno sbriciolando la narrazione Lgbt. Purtroppo chi si sottopone alle gravi menomazioni che comporta il cambio chirurgico di sesso non potrà più avere una vita normale, con gravi ripercussioni psicologiche che gli ideologi del gender si guardano bene dal rappresentare 

Il Timone n. 227 Maggio 2023

Il grande esperimento è smascherato

La stampa mainstream è presa in contropiede dal dilagare dei “trans pentiti”, che con le loro storie stanno sbriciolando la narrazione Lgbt. Analisi di un fenomeno scomodo

di Giuliano Guzzo

«La detransizione sarà presto più comune della transizione». La giornalista e studiosa canadese Debra Soh è lapidaria. Per l’autrice del libro The end of gender quella del “cambio di sesso” tra i minori in primis, è una bomba a orologeria destinata a brillare col ritorno all’identità biologica di tantissimi prima affascinati e poi delusi dalla transizione a un altro genere.

Non è un pensiero isolato. Michael S. Irwing, della Harward Medical School, ha firmato un articolo sul Journal of clinical endocrinology & metabolism in cui è esplicito: «C’è motivo di ritenere che il numero di quanti abbandonano la transizione possa aumentare». Lo scorso dicembre, tre giorni prima di Natale, la Reuters ha pubblicato un lungo reportage a firma Robin Respaut, dove si afferma che i detransitioner – così vengono chiamati i transgender “pentiti” – sono cruciali per la scienza».

A gennaio anche la rivista The Atlantic si è occupata del tema, invitando a «prendere sul serio» le persone che «invertono la loro transizione di genere comprendere la loro esperienza è fondamentale». Gli autori dell’articolo, Leo Valdes e Kinnon MacKinnon – studioso al di sopra di ogni sospetto, essendo due accademici trans -, pur opponendosi alle limitazioni delle opzioni di trattamento per la disforia di genere, hanno scritto che «i sostenitori dei diritti trans e i media mainstream dovrebbero smetterla di minimizzare la realtà della detransizione».

Su Twitter perfino il pornodivo trans Bach Angel – pseudonimo di Jake Miller – è sbottato contro i genitori che, accecati dall’ideologia, appoggiano con entusiasmo la transizione di genere: «Se una madre di un bambino che sta “cambiando sesso” dice che per lei “è divertente ed eccitante”, ciò la dice lunga su tutto quanto. Da quando la disforia di genere è divertente ed eccitante?». Se i detransitioners sono in aumento – e tra gli stessi trans si sta aprendo un dibattito -, significa una cosa: un dogma caro al mondo Lgbt, quello del “cambio di sesso”, sta vacillando. Va bene, ma quanti sono i pentiti della transizione? Per decenni si è pensato fossero casi di rarità Infinitesimale. Oggi sappiamo che le cose non stanno così.

Casi in aumento

Secondo Walt Heyer, intervenuto in apertura di questo Primo piano, i detransitioners ammontano addirittura al 20% dell’insieme dei trans. Gli studi al momento si fermano però a una forbice che va dal 2 fino all’8%, percentuale quest’ultima rilevata dal Report of the 2015 U.S. transgender survey, la più ampia indagine sul tema basata su un campione di quasi 28.000 soggetti.

Anche questa però è una rilevazione datata, dato che l’interruzione nell’assunzione dei bloccanti della pubertà è un fenomeno di cui si occupa seriamente da non più di cinque o sei anni; nel frattempo, i casi potrebbero essere aumentati di molto. Non sono però semplici da intercettare, anche perché i pentiti della transizione vengono spesso bullizzati dalla comunità Lgbt, che li tratta come traditori della causa.

Da uno studio pubblicato su Archives of sexual behavior sappiamo che sono meno di un quarto – il 24% per l’esattezza – i detransitioner che decidono di informare della loro scelta i medici. Molti, semplicemente, spariscono: non si fanno più vedere e basta. Il che alimenta in alcuni il sospetto che, in realtà, molti transgender interrompano l’iter di “cambio di sesso” non perchè delusi ma per esempio per effetti collaterali nei farmaci assunti.

In realtà, non è affatto così: sette detransitioner  su dieci affermano che alla base del loro tentativo di riavvolgere il nastro della loro identità, per così dire, c’è la consapevolezza che la disforia di genere per la quale sono stati avviati ai trattamenti interrotti era correlata ad altri problemi. Da questo punto di vista, restano emblematiche le risultanze di un’indagine pubblicata sulla rivista Human system, attraverso la quale – considerando 79 giovani di ambedue i sessi inviati a una gender clinic -si è scoperto come costoro, oltre a provenire spesso da famiglie divise, sperimentano in oltre il 62% dei casi ansia o depressione, in oltre il 40% delle situazioni alti livelli di disagio, ideazione suicidaria e autolesionismo e in oltre il 35% dei casi disturbi comportamentali.

Dubbi pure dal New York Times

Non serve insomma un luminare per capire che avviare al “cambio di sesso” ragazzini con simili disagi sia da irresponsabili. Eppure è ciò che avviene sempre più spesso senza – attenzione – nessuna certezza di quali possano essere i benefici per i giovani pazienti. Il fatto è talmente grave da essere ormai stato notato anche dalla stampa liberal e progressista.

Nel novembre scorso, per dire, il New York Times ha pubblicato un servizio  di Megan Twohey e Christina Jewett, che fin dal titolo suonava come una denuncia verso i farmaci dati ai minori interessati al “cambio di sesso”: They paused puberty, buti s there a cost? (Essi bloccano la pubertà ma a che prezzo?). Sconvolgenti, in quel pezzo, le parole di Sheri Berembaum, che all’università Penn State  dirige un laboratorio specializzato su questi temi ma che, interpellata su quali possono essere gli effetti sul cervello dei minori  dei bloccanti la pubertà ha risposto: «Non lo sappiamo».

Che qualcosa non tornasse , il New York Times lo aveva lasciato intendere anche in un altro servizio pubblicato il 26 settembre scorso a firma di Azeen Gorayshi, che, a proposito di uno studio su 136 pazienti di età compresa tra i 13 e i 25 anni, metà dei quali aveva subito un intervento chirurgico importante e apparentemente migliorativo della loro condizione, aveva evidenziato una cosa: «la maggior parte dei pazienti è stata intervistata meno di due anni dopo l’intervento chirurgico e quasi il 30% non ha potuto essere contattato o ha rifiutato di partecipare».

Neppure la stampa liberal può dunque ora nascondere come sia in corso un colossale esperimento sulla pelle dei bambini.

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