Il buon selvaggio è un mito. Quello cattivo era la realtà

cannibaliIl Giornale.it 17 agosto 2016

Schiavisti, torturatori e cannibali. Dalle Americhe all’Africa i “nativi” furono peggiori dei colonizzatori

Camillo Langone

Come si chiama la piattaforma digitale del Movimento Cinque Stelle? Rousseau. E quale mito il filosofo svizzero-francese è riuscito a radicare nella mente porosa degli europei moderni? Il buon selvaggio.

Quindi Incontri coi selvaggi di Jean Talon (Quodlibet, pagg. 204, euro 15) non è solo una piacevole lettura, è anche un libro involontariamente politico. L’autore (bolognese, a dispetto del nome) fa parte del giro Celati-Cavazzoni e racconta secoli di contatti fra l’uomo bianco e gli indigeni con lo svagato distacco tipico di quell’ambiente letterario, senza prendere posizione, senza tesi da dimostrare. Eppure dopo pochi capitoli diventa inevitabile tifare per l’esploratore, che magari è un pazzo, un uomo animato da manie di grandezza, da sogni insensati, ma che immancabilmente si imbatte in un soggetto peggiore di lui: il Cattivo Selvaggio.

Ovvio che le avventure siano quasi sempre disavventure. Nelle prime pagine, dedicate allo spagnolo del sedicesimo secolo Cabeza de Vaca, nome da protagonista di film di Herzog, troviamo aztechi che compiono sacrifici umani, indiani dei Caraibi che dopo aver catturato i bianchi li affogano in mare, indiani del Nordamerica che dopo aver catturato i bianchi li riducono in schiavitù trasformandoli in bestie da soma…

Son forse meglio gli indigeni africani? Ma per carità. All’inizio dell’Ottocento il francese René Caillié si mise in testa l’assurda idea di raggiungere Timbuctù, la leggendaria porta del Sahara, e mal gliene incolse. L’unico modo era spacciarsi per arabo (e il razzismo sarebbe un’invenzione occidentale?) oltre che (c’era bisogno di dirlo?) per musulmano. Lo spericolato e purtroppo per lui disarmato esploratore si prestò al travestimento ma non fu sufficiente, visto che fra Senegal e Mauritania i bambini dei villaggi lo accoglievano con lanci di pietre gridando: «Venite a vedere il cristiano!».

Rispettare un ramadan rigidissimo è un problema ovunque, figuriamoci nel deserto: «A un certo punto il caldo e la sete si fanno così insopportabili che viene consentito sciacquarsi la faccia e la bocca con un po’ d’acqua, a condizione ovviamente di non ingerirne. Durante queste operazioni Caillié è osservato con particolare attenzione, sa benissimo che qualora fosse colto a ingerire un solo sorso d’acqua sarebbe massacrato seduta stante».

Fa un certo effetto leggere queste righe nel tempo in cui da tutti i pulpiti, specie ecclesiastici ma non solo, si parla di islam religione di pace, Corano libro di pace, Maometto uomo di pace, musulmani popolo di pace… La violenza che si respira nel capitolo sul disgraziato Caillié non sembra avere motivazioni che non siano religiose. Oggi ci sono preti sedicenti cattolici secondo i quali il terrorismo islamico è motivato dalle passate umiliazioni coloniali ma, a prescindere dalla stomachevole giustificazione della vendetta da parte di coloro che dovrebbero insegnare a porgere l’altra guancia, e non a tirare l’altra bomba, l’esploratore francese arrivò nell’odierno Mali mezzo secolo prima della colonizzazione: in molte località non avevano mai visto un europeo, pertanto l’ostilità verso lo straniero non aveva motivazioni storiche, ma era già scritta nei codici di quelle popolazioni.

Si noti infine che i mauri, i nomadi berberi a cui piaceva seviziare Caillié, di mestiere facevano i mercanti di schiavi: africani che schiavizzavano altri africani, tutto un contesto di brutalità e sopraffazione in cui il colonialismo non c’entrava niente, l’Europa non c’entrava niente.

E i sudamericani? L’esploratore inglese che nel 1741 visitò i fuegini, gli antichi abitanti della Terra del Fuoco, vide «un uomo uccidere il figlio, colpevole di aver lasciato cadere una cesta piena di ricci in mare, scaraventandolo contro le rocce di una scogliera». Un perfetto esemplare di Cattivo Selvaggio.

Il navigatore Robert FitzRoy quasi un secolo dopo non rilevò miglioramenti, anzi scoprì che quando l’arcipelago veniva colpito dalla carestia, e probabilmente succedeva spesso, gli indigeni, affamati, prima dei cani uccidevano e mangiavano la donna più anziana della famiglia. Spiegandolo così all’europeo perplesso: «Perché i cani catturano le lontre, mentre le vecchie no».

Che i tropici siano tristi lo sappiamo almeno dai libri di Lévi-Strauss, ma questi selvaggi esageravano. Quelle che Talon con sprezzatura definisce «storie minori in gran parte ricavate dalla letteratura etnografica» sono invece tragicomiche smentite del mito di Rousseau che, lungi dall’essere un’impolverata idea filosofica del diciottesimo secolo, è ancora vivissimo e capace di alimentare le ideologie dominanti del ventunesimo secolo, dal grillismo all’ecologismo fino all’immigrazionismo.