Karl Rahner, maestro del Concilio, di Martini e della coscienza relativa

Karl_Rahner

Karl Rahner

Il Foglio giugno 2009

Dietro l’opposizione intra-ecclesiale all’insegnamento di B-XVI c’è il pensiero di un altro influente gesuita

di Roberto de Mattei

Il nome di Karl Rahner è un passaggio obbligato per chi voglia entrare nel cuore del dibattito intraecclesiale dei nostri giorni. Come perito conciliare del cardinale Franz König il gesuita tedesco svolse, dietro le quinte, un ruolo cruciale nel Vaticano II, fino a essere definito dall’allora decano della Gregoriana, Juan Alfaro, “il massimo ispiratore del Concilio”.

Di certo ha dominato il postconcilio come conferenziere di grido e scrittore dalla alluvionale produzione, pronto a intervenire disinvoltamente su tutti i problemi del momento: i suoi titoli sono oltre quattromila, le sue opere, tradotte e diffuse in tutto il mondo, continuano a esercitare una larga influenza sul mondo cattolico contemporaneo.

Sembra giunta però l’ora di “uscire da Rahner”, come implicitamente auspicato da Benedetto XVI nell’ormai storico discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sulle “ermeneutiche” del Concilio Vaticano II. Lo “spirito del Concilio” a cui si richiamano gli ermeneuti della “discontinuità” ha infatti la sua fonte nel Geist in Welt di Rahner, quello “Spirito nel mondo” che è il titolo del suo primo importante libro, pubblicato nel 1939. Se in questo volume Rahner delinea la sua concezione filosofica della conoscenza, nel successivo, “Uditori della parola” (Hörer des Wortes), pubblicato nel 1941, espone la sua visione propriamente teologica.

Le tesi di questi due libri e dei successivi, già lucidamente criticate dal padre Cornelio Fabro (“La svolta antropologica di Karl Rahner”, 1974), sono ora oggetto di un importante volume, a cura di padre Serafino M. Lanzetta, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Firenze nel novembre 2007, con la partecipazione di eccellenti studiosi, provenienti da diverse parti del mondo: Ignacio Andereggen, Alessandro Apollonio, Giovanni Cavalcoli, Peter M. Fehlner, Joaquín Ferrer Arellano, Brunero Gherardini, Manfred Hauke, Antonio Livi, H. Christian Schmidbaur, Paolo M. Siano, (“Karl Rahner. Un’analisi critica. Le figure, le opere e la recensione. Teologia di Karl Rahner, 1904-1984”. Cantagalli).

Oggetto della scienza teologica, per Rahner, non è Dio, di cui non può essere dimostrata l’esistenza, ma l’uomo, che costituisce l’unica esperienza di cui abbiamo l’immediata certezza. Non si può dunque parlare di Dio al di fuori del processo conoscitivo dell’uomo. Dio, più precisamente, esiste “autocomunicandosi” all’uomo che lo interpella. Rahner afferma che nessuna risposta va al di là dell’orizzonte che la domanda ha già precedentemente delimitato. L’orizzonte di Dio è misurato dall’uomo che, delimitando nella sua domanda la risposta divina, diviene la misura stessa della Rivelazione di Dio. Rahner non dice che l’uomo è necessario a Dio perché Dio possa esistere, ma poiché senza l’uomo Dio non può essere conosciuto, la conoscenza umana diviene la chiave di quella che egli definisce la “svolta antropologica” della teologia. Rahner si richiama spesso a san Tommaso d’Aquino, ma di fatto riduce la metafisica ad antropologia e la antropologia a gnoseologia ed ermeneutica.

La “teologia trascendentale” di Rahner appare, in questa prospettiva, come uno spregiudicato tentativo di liberarsi della tradizionale metafisica tomista, in nome dello stesso san Tommaso. Ciò naturalmente può avvenire solo a condizione di falsificare il pensiero dell’Aquinate. Fabro non esita a definire Rahner “deformator thomisticus radicalis”, a tutti i livelli: dei testi, dei contesti e dei principi. L’esito è un “trasbordo” dal realismo metafisico di Tommaso all’immanentismo di Kant, di Hegel e soprattutto di Heidegger, acclamato dal gesuita tedesco come il suo “unico maestro”.

Rahner accetta il punto di partenza cartesiano dell’io come auto-coscienza. L’uomo, spogliato della sua corporeità, è innanzitutto coscienza, puro spirito, immerso nel mondo. Come per Cartesio e per Hegel, anche per Rahner è il conoscere che fonda l’essere, ma la conoscenza ha il suo fondamento nella libertà, perché “nella misura in cui un essere diventa libero, nella medesima misura esso è conoscente”. La coscienza coincide con la volontà dell’uomo e la volontà dell’uomo è l’attuarsi dell’Io. L’Io a sua volta non è sottomesso a nulla che lo possa condizionare, perché il suo fondamento sta proprio nella sua incondizionatezza e dunque nell’assenza di ogni oggettiva limitazione esterna.

La conseguenza della riduzione dell’uomo ad auto-coscienza è la dissoluzione della morale. La libertà prevale sulla conoscenza perché, come afferma Heidegger, dietro il cogito cartesiano irrompe la libertà. L’uomo è coscienza che si auto-conosce e libertà che si auto-realizza. Per Rahner, come per il suo maestro, l’uomo conosce e vive il vero facendosi libero. Il valore morale dell’azione non ha una radice oggettiva, ma è fondato sulla libertà del soggetto.

Forzando il n. 16 della “Lumen Gentium”, in cui si parla della possibilità di salvezza di coloro che “non sono giunti a una conoscenza esplicita di Dio”, Rahner afferma che la salvezza non è un problema, perché è assicurata a tutti, senza limiti di spazio, di tempo e di cultura. La chiesa è una comunità vasta come il mondo, che include i “cristiani anonimi”, i quali, benché possano dirsi non-cattolici, o addirittura atei, hanno la fede implicita. Chiunque infatti “accetta la propria umanità, costui, pur non sapendolo, dice di sì a Cristo, perché in lui ha accettato l’uomo”.

Tutti, dunque, anche gli atei, in quanto atei, si salvano se seguono la propria coscienza. Qualsiasi uomo, quando conosce se stesso, anche nel male che compie, se si accetta come tale, allora è auto-redento ed ha fede. E quanto più conosce e accetta la propria “esperienza trascendentale” tanto più ha fede. Questo, osserva giustamente il padre Andereggen, significa che ha più fede un individuo che si sia psicanalizzato freudianamente durante dieci anni, piuttosto che un religioso che preghi (p. 35). Il cardinale Franz König, uomo di punta del progressismo conciliare, fu il grande “sdoganatore” di Rahner, in odore di eresia fino agli anni Sessanta.

Tra i numerosi e illustri discepoli del gesuita, bisogna ricordare l’ex presidente della Conferenza episcopale tedesca Karl Lehmann e, in Italia, il cardinale Carlo Maria Martini. Le ultime interviste-confessioni di Martini, con Georg Sporschill (“Conversazioni notturne a Gerusalemme”, Mondadori) e con don Luigi Verzé (“Siamo tutti nella stessa barca”, Edizioni San Raffaele), sono di impronta rahneriana, per l’universalismo salvifico e la “morale debole”.

Martini, come Rahner, ritiene che la missione della chiesa sia aprire le porte della salvezza a tutti, compresi coloro che si discostano dalla fede e dalla morale cattolica. Lo stesso Martini, istituì a Milano una “cattedra dei non credenti”, per ascoltare il loro contributo alla salvezza del mondo. Il successore di san Carlo Borromeo, rinunciava così al compito di portare Cristo a chi non crede, per affidare ad atei dichiarati come Umberto Eco la missione di “evangelizzare” i fedeli della diocesi ambrosiana.

Non è eccessivo affermare che Rahner è il padre del relativismo teologico contemporaneo. A confermarlo è la sua più intima confidente, Luise Rinser, che l’11 maggio 1965 gli scriveva: “Sai qual è la maggior difficoltà che mi viene da parte tua? Che sei un relativista. Da quando ho imparato a pensare come te non oso affermare nulla con sicurezza” (“Gratwanderung”, Kösel). Qualche anno dopo la stessa Rinser avrebbe solidarizzato con i terroristi Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Rahner, da parte sua, il 16 marzo 1984, poco prima di morire, scrisse una lettera in difesa della teologia della liberazione che chiamava i cattolici alle armi in America Latina.

La lettura del libro curato dal padre Lanzetta conferma nell’idea che Karl Rahner, per lo spregiudicato uso delle sue indubbie capacità intellettuali, fu soprattutto un grande avventuriero della teologia. Il giovane Ratzinger subì il fascino della sua personalità, ma intravide presto le conseguenze devastanti del suo pensiero e, sotto un certo aspetto, dedicò tutta la sua successiva opera intellettuale a confutarne le tesi. Oggi il nome di Rahner rappresenta la bandiera teologica di chi si oppone al pensiero antirelativista di Benedetto XVI-Ratzinger. L’analisi critica merita di essere portata fino in fondo

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Inserto del Il Foglio del 17 giugno 2009

C’è un Papa che riannoda i fili di fede, ragione e identità.  E c’era un filosofo che era tutto il contrario

Karl Rahner è uno dei maestri della cultura e dello spirito conciliare. Il cardinale Tettamanzi ne ricorda lo spirito. qui cerchiamo di capire perché ancora fa discutere

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Roberto de Mattei è una persona amabile, uno studioso serio, viene dalla destra cattolica, ha un legame forte e militante con la tradizione, senza le asperità e certi ideologismi dei tradizionalisti più radicali, e anima un centro di cultura intitolato alla gloriosa battaglia di Lepanto contro il Turco e una rivista dall’inequivocabile titolo giovanpaolino e ratzingeriano: Radici cristiane.

Il professore scrive per noi da qualche tempo, e l’ultimo suo articolo, chiaro e forte nell’impostazione, era dedicato al teologo Karl Rahner (1904-1984), alla necessità di liberarsi dal suo magistero. Ora, per la cura di Andrea Monda, ospitiamo un risposta molto critica di Giorgia Salatiello, studiosa di filosofia e docente alla Pontificia Università Gregoriana; e una meno univoca ma altrettanto chiara di monsignor Giuseppe Lorizio, studioso del teologo e abate Antonio Rosmini. Chiude la discussione, con un altro brillante esercizio di stile polemico, lo stesso De Mattei.

E’ bene annotare che non si tratta di un dibattito specialistico. Il linguaggio è inevitabilmente quello della teologia, con gli accorgimenti della divulgazione di temi così complicati sulle colonne di un quotidiano, ma la sostanza della discussione riguarda il nostro tempo, il nostro modo di essere, le grandi idee che ci accompagnano dalla seconda metà del Novecento.

Da quando un Concilio ecumenico, un secolo circa dopo la rottura fra chiesa cattolica e modernità (il Sillabo di Pio IX), si presentò come una rigenerazione spirituale del cattolicesimo, una nuova Pentecoste, e aprì le porte a grandi bellezze e a notevoli brutture, sottraendo sì la chiesa alla statica e alle inerzie del duello con e contro il mondo, salvo i concordati e le alleanze di potere, ma gettandola anche in una sconfortante confusione e banalizzazione di certe sue altezze, di certa sua potenza e autorità cultuale, dottrinale e culturale.

Per dirla in breve, e grossolanamente, Karl Rahner, la cui opera non si può comprimere in una rapida scheda perché consta di un impressionante numero di dotti volumi teologici, da Uditori della parola (1941) al Corso fondamentale sulla fede (1976), alcuni dei quali a quattro mani con Joseph Ratzinger (prima di una separazione innescata dal diverso giudizio sulla ricezione del Concilio), è uno dei maestri della cultura e dello spirito conciliare, e il suo influsso sulla Gaudium et spes (tra i grandi documenti del Concilio) non potrebbe essere sottovalutato.

Decisive alcune sue idee, maturate in un rapporto innovativo con la tradizione e in un commercio intenso ed eterodosso con l’esistenzialismo del filosofo Heidegger, qualificate dagli specialisti come “svolta antropologica”. In particolare, fece furore e sollevò reazioni sconcertate l’idea del “cristiano anonimo”, insomma dell’uomo naturaliter cristiano che non deve stare troppo a badare alla mediazione di Cristo per la grazia e la salvezza in quanto la sua natura è già dall’inizio predisposizione, per così dire, alla grazia.

“Meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo”, predica sempre l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, citando Ignazio di Antiochia, in polemica con noi laici devoti che ci limitiamo con Benedetto Croce a spiegare “perché non possiamo non dirci cristiani”. Ecco l’anonimato cristiano, la fede che ingurgita il pensiero e l’identità. Se Ratzingerha passato il suo tempo e speso le sue energie a riannodare i fili della ragione dentro l’esperienza di fede e la sequela di Cristo che sono la missione della chiesa, ponendo un problema di identità culturale e di radici dei cristiani che sono terreno d’incontro con l’uomo moderno secolarizzato, Rahner ha sempre intellettualmente e spiritualmente navigato nella opposta direzione di uno scioglimento dei cristiani nell’anonimato universalmente salvifico del mondo.

Un pensiero gravido di conseguenze per il nostro modo di essere, che vale la pena discutere e conoscere, con sforzi che eccedono i poteri di comunicazione di un foglio quotidiano. Ma che valgono la pena di essere fatti.

(Giuliano Ferrara)

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Per “uscire da Rahner” bisogna prima entrarvi. La risposta della filosofa Salatiello alla ricostruzione di De Mattei

di Andrea Monda

Su Rahner l’analisi critica merita di essere portata fino in fondo”, questo è l’unico punto della riflessione di Roberto De Mattei (apparsa il 30 maggio su questo giornale e visibile sul sito www.ilfoglio.it, ndr) con cui concorda la professoressa Giorgia Salatiello, docente di Filosofia della religione presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana ed esperta di Rahner: sulla scrivania nel suo studio campeggia, molto liso dal molto uso e pieno di sottolineature di diversi colori, il classico di Rahner “Uditori della parola”.

“Già il titolo di questo famoso saggio rappresenta una smentita alle tesi illustrate da De Mattei” afferma la Salatiello, “le quali si basano sul fatto che Dio si autocomunica in risposta all’uomo che lo interpella.

Bè, allora non si dovrebbe intitolare uditori ma interpellanti; ma per il cattolicesimo, e per Rahner, non è l’uomo che interpella Dio ma è Dio che interpella l’uomo che è solo uditore della parola e, dotato di un’apertura infinita che non delimita i contenuti della Rivelazione, non può nemmeno porre limiti alla libera iniziativa divina”.

Con precisione teutonica la professoressa della Gregoriana procede a rispondere, punto per punto, alla ricostruzione di Rahner realizzata da De Mattei, il più delle volte facendosi aiutare dalle parole dello stesso Rahner il quale “proprio nei primi due capitoli del suo capolavoro afferma che Dio può essere conosciuto filosoficamente dalla teologia naturale, che è il vertice dell’ontologia generale, e che il credente conosce Dio con la teologia positiva (auditus fidei) da cui scaturisce la teologia sistematica. Quindi non è vero che Dio non può essere conosciuto dall’uomo, come lascia intendere De Mattei”.

Per la Salatiello, filosofa, poi non è Heidegger il vero maestro di Rahner che “afferma esplicitamente nei ‘Nuovi Saggi’ che il suo unico maestro è Tommaso, a cui si accosta attraverso Maréchal, tomista aperto al pensiero trascendentale. Dell’Aquinate il teologo tedesco riprende tra l’altro anche il tema della reditio completa, il fatto cioè che l’uomo è l’unico essere finito materiale che ritorna continuamente su di sé e si possiede autonomamente.

Questo lo porta ad affermare che l’auto-coscienza è dunque fondata (e non fondante come sostiene De Mattei) sul grado di possesso dell’essere”. Per la Salatiello quindi la “svolta antropologica” di Rahner, equivocata anche da Cornelio Fabro, non mira a sostituire l’uomo a Dio ma ad affrontare il discorso su Dio partendo dall’unico esistente che è in grado di farlo, cioè l’uomo.

“Un gatto non può porsi il problema di Dio,” osserva la professoressa della Gregoriana, “e Rahner, in piena coerenza con il realismo di Tommaso, sottolinea l’indisgiungibile unità di spirito e materia nell’uomo, che rende ragione del fatto che l’uomo è spirito finito, e mai e poi mai puro spirito. Qualunque conoscenza intellettuale ha il suo inizio nella recettività della conoscenza sensibile, quella corporeità di cui, dice De Mattei, l’uomo sarebbe spogliato”.

Precisata la questione ontologica, ne consegue che anche la questione etica ha bisogno di un ri-equilibrio per evitare di affermare che Rahner procede alla dissoluzione della morale, come fa De Mattei; al contrario, sostiene la Salatiello, “la comprensione del valore morale di un’azione, secondo Rahner, è indissolubilmente legata alla classica dottrina tomista dell’unità dei trascendentali (ens unum verum et bonum convertuntur) e non c’è quindi alcuna possibilità di contrapporre la libertà, che tende al bene, alla conoscenza del vero.

Il bene quindi è manifestativo dell’essere”. Insomma, tutto può dirsi di Rahner ma non che sia il padre del relativismo teologico: “In Rahner non vi è in modo assoluto alcuna presenza di affermazioni relativiste anche per la sua ferma convinzione dell’assoluta unicità della verità; pur riconoscendo che anche in altri percorsi, diversi dal cattolicesimo, vi possano essere germi di verità partecipati dall’unica verità (in piena conformità con la dichiarazione Dominus Jesus del 2000), quindi non germi di una vaga verità, ma germi di verità cioè partecipati dall’unica verità”. Non regge, infine nemmeno la tesi di De Mattei sulla famosa formula rahneriana dei “cristiani anonimi”, per cui la salvezza sarebbe assicurata a tutti.

“L’accesso alla salvezza” taglia corto la professoressa della Gregoriana, “che ha il suo unico mediatore in Gesù Cristo, è aperto a tutti gli uomini per la universale volontà salvifica di Dio, ovvero per il dono della grazia che raggiunge tutti. Rahner stesso non ritiene indispensabile l’uso dell’espressione cristiani anonimi ma ritiene importante assicurarne il contenuto, peraltro in piena consonanza con l’enciclica Redemptoris Missio del 1990”.

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Per il teologo Lorizio si può e si deve “uscire” non da Rahner, bensì dal rahnerismo, come ha fatto B-XVI

Se la professoressa Salatiello dice semplicemente “no” alla ricostruzione della figura teologica di Karl Rahner realizzata da Roberto De Mattei, di diverso avviso è mons. Giuseppe Lorizio, anch’egli non convinto di quella ricostruzione. In altre parole si può criticare pure Rahner, e soprattutto il “rahnerismo”, ma lo si può fare solo con maggiore calma, precisione e profondità. Giuseppe Lorizio, pugliese, classe ’52, riveste tra gli altri incarichi quello di professore ordinario di Teologia fondamentale alla Lateranense, si è addottorato in Gregoriana con tesi su Rosmini e sul teologo di Rovereto ritorna spesso nella sua riflessione intorno a Rahner.

Si può meglio comprendere infatti la famosa “svolta antropologica” di Rahner se si passa per Rosmini: “Rahner raccoglie una istanza fondamentale, che era già stata fatta propria dal beato Antonio Rosmini, il quale ne “Il rinnovamento della filosofia in Italia” scriveva: “La scuola teologica partì dalla meditazione di Dio: io partii semplicemente dalla meditazione dell’uomo, e mi trovai nondimeno pervenuto alle conclusioni medesime”.

Né dobbiamo dimenticare a questo proposito la lezione di Maurice Blondel e del suo metodo dell’immanenza, che accoglie ed elabora la stessa istanza alla fine del XIX secolo e nei primi decenni del XX. Sia Rosmini che Blondel non hanno avuto vita facile nella teologia cattolica”.

La vita “difficile” Rahner però un po’ se l’è andata a cercare, secondo Lorizio, perché “se l’istanza è certamente condivisibile, bisogna tuttavia onestamente riconoscere che il pensiero teologico di Rahner – e non mi riferisco alla scolastica rahneriana – presta decisamente il fianco alle critiche e risulta discutibile. Volendo andare al nocciolo della questione, si tratta di prendere le distanze – come giustamente fa De Mattei – dalla pura e semplice assimilazione umanistica della fede cristiana. Il cristianesimo non si può né si deve ridurre a un umanesimo.

Ci aveva già pensato Erasmo da Rotterdam – che oggi ritorna nelle riflessioni di Fr. Lenoir sul Cristo filosofo – a compiere un’operazione del genere, che di fatto vanifica la specificità della fede stessa e la dissolve nella rete delle strutture antropologiche. Strutture che nella riflessione rahneriana risultano estremamente formali (penso in particolare a ‘Uditori della Parola’).

Qui certo l’uomo viene pensato come luogo di accoglienza della Rivelazione, ma tale ascolto riguarda una ‘eventuale’ Parola di Dio, mettendo in ombra l’evento già accaduto e che non possiamo mettere fra parentesi, se vogliamo pensare correttamente in teologia. Quella di Rahner è insomma una storicità priva della carne e del sangue propri della storia. Il senso della critica che gli rivolge un altro maestro della teologia del Novecento quale H. U. von Balthasar risiede proprio nella rivendicazione dell’irruzione del soprannaturale nella storia e nella sua tensione drammatica con l’umano, che la teologia rahneriana tende a vanificare”.

Anche l’altra formula famosa di Rahner, quella del “cristianesimo anonimo”, ha creato non pochi problemi, secondo Lorizio, a causa della sua ambiguità: “Se si tratta dei ‘semi del Verbo’ presenti in tutte le culture e le religioni, ci aveva già pensato Giustino nel II secolo a rilevarne il senso e al tempo stesso la radicale frammentarietà. Forse Rahner la intendeva così, ma, esprimendola in questi termini, non aiuta certo a cogliere l’assoluta necessità della fede per la salvezza.

Mi piace a questo proposito evocare quanto dice lo starets Giovanni al grande imperatore- anticristo nel racconto di Solovev, quando questi chiede ai cristiani cosa sta loro a cuore: ‘Che tu proclami che Cristo è il Signore…’, infatti è nel suo ‘nome’ che sono salvate tutte le genti.

L’anonimato non ci appartiene come credenti in Cristo e la missione della chiesa consiste nel far sì che ‘nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi’ all’adorazione del Dio unico e vero, in modo che la drammatica domanda ‘il Figlio dell’uomo quando tornerà, troverà la fede sulla terra?’ abbia risposta positiva”.

Dal punto di vista della storia della teologia, senz’altro Rahner è stato e resta, dice Lorizio, uno dei giganti del Novecento proprio per quello spirito d’avventura che in lui viene criticato, ma che invece “non si può né si deve considerare necessariamente pernicioso per la teologia, la quale, come tutte le ‘scienze’, ha bisogno di pionieri che, anche a prezzo di incomprensioni e possibili derive, sappiano aprire strade nuove, a patto che restino radicati nell’unica Parola che salva.

Nel contesto in cui la teologia di Rahner si è espressa è innegabile che essa ha saputo cogliere una istanza decisiva per la riflessione che nasce dalla fede e di essa si nutre: l’attenzione all’umano e alle sue strutture costitutive, sulle quali si innesta la grazia, che – come diceva Tommaso d’Aquino – non distrugge, ma perfeziona (= perficit) la natura, redimendola.

E questa operazione teologica Rahner l’ha compiuta in rapporto critico con il modello neo-scolastico, imperante nella teologia preconciliare, tentando di superarne l’estrinsecismo, ossia quella tendenza a considerare la Rivelazione (e quindi la grazia) come semplicemente sovrapposta alla natura. Il dibattito teologico – anche attuale – è chiamato a interrogarsi sulla riuscita di questa operazione e sui suoi limiti.

Un avvertimento tuttavia necessario a questo riguardo: spesso le polemiche nascono fra esponenti delle diverse ‘scolastiche’ che si generano a partire dalla lezione dei maestri, che risulta sempre molto più complessa rispetto a quella dei loro epigoni, i quali tendono ad estremizzarne, banalizzandole, le posizioni. Ad esempio, quando De Mattei fa di Rahner un pensatore appiattito su Cartesio, Kant, Hegel e Heidegger, non rende ragione al teologo tedesco; ricordo invece, proprio sul cogito cartesiano, una splendida risposta di Rahner che così ribaltava l’assunto: Cogitor ergo sum, sono pensato, dunque sono.

Oppure, quando De Mattei cita il discorso sull’ermeneutica del Concilio che il Papa ha rivolto alla Curia romana, bè, in quel discorso non viene mai citato Rahner anche perché non ce n’era bisogno. Il Concilio è evento estremamente complesso e non ha un solo punto di riferimento teologico, tanto è vero che alcuni suoi testi sono stati accusati di ‘compromesso’ fra i diversi punti di vista presenti tra i Padri e i teologi che hanno partecipato.

Quella ‘ermeneutica della riforma’ che Papa Ratzinger ha proposto come chiave di lettura più appropriata e coerente del Vaticano II dice anche l’assoluta fedeltà alla dottrina conciliare di questo Pontefice, che pure vi ha partecipato come teologo al seguito del cardinale di Colonia Joseph Frings.

Del resto l’accettazione di tale dottrina conciliare è conditio sine qua non perché i tradizionalisti – al di là della rimozione della scomunica – rientrino pienamente nella chiesa cattolica. Ecco, sono proprio i lefebvriani che non amano Rahner; anzi, lo definiscono, con la solita virulenza, un vero e proprio Anticristo”. Un’ultima questione, anche questa complessa al punto giusto da non poter essere liquidata con poche battute, è proprio il rapporto tra Rahner e Ratzinger. I due hanno scritto diversi libri insieme e il secondo, una volta diventato Papa, ha di recente nominato due vescovi di scuola rahneriana (Ignazio Sanna e Luis Francisco Ladaria).

Secondo Lorizio “De Mattei non ha torto quando esprime, anche se forse in maniera troppo virulenta, la necessità di uscire dal rahnerismo, ossia di superare questo orizzonte di pensiero, che è ormai alle nostre spalle. Ma questo superamento può avvenire solo nella forma di un oltrepassamento che sia in grado di attraversare i testi e i contenuti delle grandi figure del pensiero sia filosofico che teologico, che non si possono semplicemente ignorare o bypassare in maniera disinvolta e sostanzialmente ideologica. Il Ratzinger teologo ha ben intravisto i rischi del rahnerismo e ne ha preso le distanze. A questo riguardo è fondamentale quanto lo stesso Papa dichiara in quel luogo della sua biografia, ripreso giustamente dal cardinal Ruini: “Io, al contrario (di Rahner), proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico”.

Dunque diremmo che siamo di fronte a due prospettive: una – quella rahneriana – prevalentemente formale- speculativa, l’altra – quella ratzingeriana – di carattere storico-positivo, col fondamentale riferimento ai Padri della chiesa e alla liturgia. Scuole di pensiero differenti che nulla hanno a che vedere con la nomina dei vescovi. Non credo che saremmo molto entusiasti di un Papa che chiamasse all’episcopato solo persone appartenenti alla propria cordata teologica. Anche in questo si manifesta – a dispetto della sua equivoca fama giornalistica – la grande apertura dell’attuale Pontefice e il suo profondo rispetto per posizioni diverse dalla propria”. (an.mon.)

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Ecco perché il teologo tedesco è il maestro dell’ambiguità che grava sul pensiero cattolico da quarant’anni

di Roberto de Mattei

Che cosa significa “uscire da Rahner”? Significa innanzitutto uscire dalla cappa di ambiguità che grava sul pensiero cattolico da oltre quarant’anni. Di questa ambiguità Rahner fu maestro, tanto che se gli si dovesse attribuire un titolo, come si usa tra i teologi, potrebbe ben essere definito “doctor ambiguitatis”.

La prima prova di questa ambiguità è data proprio dalla pluralità di interpretazioni possibili del suo pensiero su una stessa pagina di giornale. Il Rahner “tomista” proposto dalla professoressa Salatiello è certamente un Rahner inesistente, che non ha nulla a che fare con quello conosciuto dagli studiosi della sua opera, che ne sottolineano tutti la “discontinuità” con la grande tradizione della Scolastica e il rapporto invece di dipendenza dal pensiero moderno.

Decisiva fu l’influenza di Heidegger, che Rahner salutò pubblicamente con “il rispetto di uno scolaro davanti al grande maestro” (R. Wisser (ed), Martin Heidegger im Gespräch, Friburgo i.B.m 1979, p. 49). Il che nulla toglie alla sua filiazione dal gesuita belga Joseph Maréchal che, malauguratamente per lui, costituì l’anello di congiunzione non con san Tommaso, ma con Kant e con Cartesio. E’ da questo filone immanentista che proviene la fondamentale tesi rahneriana dell’identità tra l’essere e il conoscere.

Per san Tommaso l’essere precede la conoscenza, mentre per Rahner, che si esprime con linguaggio heideggeriano, “conoscere è l’essere-con-sé dell’essere e questo essere con sé è l’essere dell’essente”: è questa la tesi fondamentale di “Spirito del mondo”, un’opera che deve essere letta prima di “Uditori della parola”, per comprendere la natura della “antropologia trascendentale” di Rahner.

Per la Salatiello la “svolta antropologica” di Rahner mira ad affrontare Dio partendo dall’unico esistente che è in grado di farlo, cioè l’uomo. Ma essendoci unità tra essere e conoscenza, tra soggetto conoscente e cosa conosciuta, Dio diventa l’esistente presente nell’uomo, non realmente distinto da esso, in una prospettiva panteista confermata dalla equivoca formula della “autocomunicazione” o “autopartecipazione” divina.

Si può nello sviluppo logico del ragionamento partire dalla “meditazione dell’uomo” invece che dalla “meditazione di Dio”, come voleva Rosmini e ripropone mons. Lorizio, ma a condizione di sottolineare la finitezza e la limitatezza della condizione umana, ferita dal peccato. Per Rahner invece, la grazia non è necessaria alla natura umana per sanarla dal peccato, ma per costituire ciò a cui la “apertura infinita” dell’uomo è strutturalmente ordinata, la sua unità-identità con Dio.

Attraverso Heidegger, si svela sullo sfondo la presenza potente di Hegel, la cui dialettica costituisce il fondamento della anfibologia semantica e concettuale di Rahner. La teologia è la scienza che analizzando e confrontando con i princìpi della ragione i dati della Rivelazione (Scrittura e Tradizione, interpretate dal Magistero della chiesa) tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio, arrivando a formulare conclusioni teologiche.

Per Rahner, al contrario, l’essenza della teologia è di vanificare tutte le conclusioni teologiche raggiunte dal pensiero della chiesa nel corso dei secoli. Ogni formula dogmatica, ogni certezza metafisica e morale, ogni culto e devozione della chiesa, viene problematizzato e ridotto a “mistero”, di cui propriamente non si può neppure parlare. “Gli enunciati teologici – afferma – sono coerenti a se stessi solo in un processo di auto superamento radicale”.

La teologia è “reductio in mysterium”, come dice il titolo di un suo saggio, e più precisamente “in unum mysterium”, quello della “autopartecipazione divina”. Nel febbraio 1984, poco prima della morte, Rahner tenne una conferenza sulle “Esperienze di un teologo cattolico” che è un po’ il suo testamento spirituale. In questo ultimo testo, egli spiega che “non si può affermare niente di Dio in maniera legittima, se non a condizione di aggiungervi una negazione e di mantenere la scomoda oscillazione tra il sì e il no come il vero e unico punto saldo della nostra conoscenza”. Il teologo che parla di Dio, del mondo, dell’uomo, deve esprimersi attraverso affermazioni e negazioni, nella consapevolezza che proprio in questa continua oscillazione consiste la vera conoscenza.

“Che cosa significa oggettivamente, ad esempio, che il Figlio dell’uomo ritornerà sulle nubi del cielo, che egli si dona veramente a noi nelle specie del’eucarestia con la sua carne e il suo sangue, che il Papa è infallibile quando parla ex cathedra, che esiste un inferno eterno (…)?”. Si tratta di affermazioni che vanno inquadrate all’interno di una tensione dialettica tra il sì e il no, tra il possibile e l’impossibile, perché in ultima analisi il mistero divino è inconoscibile all’uomo. “Il teologo – continua Rahner – è veramente tale soltanto lì dove non pensa tranquillamente di parlare con chiarezza e in modo trasparente, bensì estende l’oscillazione analoga tra il sì e il no sull’abisso di incomprensibilità di Dio e nello stesso tempo la sperimenta e la testimonia con gioia”.

L’influsso di Hegel è evidente, ma a differenza della dialettica hegeliana, che si conclude in una sintesi, quella di Rahner si presenta come una dialettica aperta, che fa dell’ambivalenza la principale caratteristica del suo pensiero. Questo atteggiamento è più pericoloso di un’eresia formalmente professata, perché mina i fondamenti della fede cattolica alla radice, attraverso l’assunzione di un relativismo dissolutore. Anche quando Rahner “opta” per la verità, la tratta però come una tesi altrettanto possibile dell’errore, che viene da lui dignificato, anche se non accolto.

Il passo per assumerlo è breve e il fatto che a compierlo sia Hans Küng, piuttosto che Karl Rahner, non diminuisce le responsabilità di quest’ultimo. Mons. Lorizio non è un’apologeta di Rahner come la professoressa Salatiello, ma è più rahneriano di quanto non pensi, quando cerca la convivenza dialettica delle correnti o “cordate” teologiche all’interno della chiesa, senza comprendere che qui non si tratta delle tradizionali differenze tra “scuole” unite da una medesima fede, ma di un’aspra battaglia tra teologie incompatibili, in un momento della storia della chiesa in cui non c’è più spazio per la politica del compromesso e del “buonismo” ecclesiale

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