La ribellione delle masse

radical_chicCorriere della Sera, 3 maggio 2008

di Ernesto Galli della Loggia

«Arrogante», «oligarchico », «lontano dalle masse e vicino ai salotti»: si sprecano le analisi che rimproverano al Partito democratico di aver perso le elezioni a causa del suo essersi sempre più rinchiuso nei recinti della «casta», smarrendo il contatto con la realtà italiana e alienandosi parti rilevanti del proprio elettorato, specie popolare.

Comunque stiano le cose, di sicuro esse sono apparse così agli occhi di molti e qualche buon motivo, allora, deve pure esserci. Ma va cercato non già nell’ultimo paio di anni, nel tratto più o meno sbrigativo di questo o quel leader, nelle candidature più o meno paracadutate dall’alto, nelle mises un po’ troppo sul «semplice ma raffinato» di Barbara Pollastrini o di Giovanna Melandri, bensì in quello che è successo in Italia almeno negli ultimi due decenni.

A cominciare dall’epoca di Mani Pulite e subito dopo, allorché parti via via crescenti dell’establishment italiano, per scampare al naufragio dei suoi tradizionali referenti politici — la Democrazia Cristiana, il Partito socialista e quello Repubblicano — corsero a rifugiarsi sotto le ali ospitali dei postcomunisti.

Il furbo dirigente Rai, la giovane industriale in sintonia con i tempi, il navigato notabile meridionale, il pm in carriera, il banchiere di peso, il direttore generale desideroso di non perdere il posto, tutti andarono inevitabilmente «a sinistra», per non dire di buona metà e forse più dell’intero gruppo dirigente democristiano. Tutti sicuri che lì era il nuovo baricentro del potere: lì le nuove combinazioni decisive, le assegnazioni di incarichi, i riconoscimenti ambiti.

Fuori dalla «sinistra» (o da quella sua versione allargata che da lì a poco sarebbe stato l’Ulivo), della classe dirigente italiana non rimase praticamente che ben poco. E quel poco, per giunta, mantenne quasi sempre il più assoluto silenzio: accrescendo così ancor di più la visibilità pubblica dell’altra parte, quella della grande trasmigrazione a sinistra. Il cui adeguato involucro ideologico fu subito approntato: l’ideologia della «difesa della Costituzione», opportunamente messa a punto e diffusa proprio allora dall’ex sinistra democristiana con il potente ausilio strategico del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

A tutto ciò il Pds e poi i Diesse aprirono, anzi spalancarono, le braccia. Essi videro probabilmente in questa generale corsa verso di loro delle classi dirigenti italiane l’annuncio inaspettato di una qualche raggiunta egemonia. Non si accorsero che era invece la premessa del proprio snaturamento. Della propria mutazione da partito popolare a partito di «quelli che contano ». Ancora peggio: di quelli sicuri che saranno sempre loro a contare.

Ma se le cose hanno potuto svolgersi in questo modo è perché già il Partito comunista — di cui il Pds e poi i Diesse hanno rappresentato una sorta di aggiornamento, sempre più aggiornato se si vuole ma sempre legato per mille fili alla matrice originaria — già il Partito comunista, dicevo, non era mai stato in realtà un partito popolare nel vero senso della parola. Il Pci fu sempre altra cosa, infatti, rispetto ai grandi partiti socialdemocratici europei, per esempio al Labour britannico o alla Spd tedesca.

Partiti dove forte si è mantenuto, anche negli usi e nei rituali, un tradizionale sostrato culturale e antropologico schiettamente popolaresco, e perfino plebeo, espresso adeguatamente fino a tempi recenti da figure di capi tratti per l’appunto dai ceti popolari e dai suoi mestieri, con i gusti e i modelli espressivi relativi. Nel Pci no.

Nel Pci Palmiro Togliatti tradusse l’antica diffidenza leninista per la spontaneità delle classi subalterne e insieme la lezione egemonica gramsciana in una direzione opposta: cercare di fare largo spazio nel partito, e specie tra i massimi dirigenti, a persone di buona cultura, ancor meglio se di buona famiglia, sostanzialmente a intellettuali borghesi.

Al «Migliore» non sarebbe mai venuto in mente, tanto per dire, che un capocellula di Mirafiori contasse quanto un professore della Normale. Caratteristica già del Pci, insomma, fu un forte elitismo sprezzante di tutto ciò che sapesse di «piccolo-borghese», pur se innestato su una penetrante attenzione al sentire delle «masse» considerate sempre, però, alla luce di un pedagogico paternalismo disciplinatore.

Da qui il grande fascino che, anche nei tempi della più aspra conflittualità, i comunisti hanno di continuo esercitato sulla borghesia italiana: precisamente per la loro capacità di presentarsi come un partito fatto apposta per dirigere, per governare, luogo vocazionale del potere, di un potere capace di mettere insieme l’alto e il basso della società.

Ma la formula di successo del vecchio Pci, la sua miscela singolare di alto e basso in tanto potevano reggere finché il partito era obbligatoriamente lontano dal potere. Quando dopo il ’94 le cose sono cambiate, la formula allora non ha più tenuto, l’alto e il basso sono progressivamente andati ognuno per conto suo, e del paternalismo pedagogico le masse, alla fine, non hanno saputo più che cosa farsene.

(A.C. Valdera)