Razzismo in Italia, non è emergenza ma lo può diventare

RuandaRagionpolitica.it, 11 ottobre 2008

Quando il ministro dell’Interno Roberto Maroni sostiene che non si può parlare di emergenza razzismo in Italia ha ragione, ma non del tutto. È vero che gli atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati da parte di cittadini italiani hanno carattere episodico in un contesto sociale e culturale nel complesso libero da pregiudizi e fermamente contrario a qualsiasi forma di discriminazione. Ma se si guarda alle comunità straniere formatesi nel nostro paese, la situazione cambia radicalmente.

di Anna Bono

Gran parte degli extracomunitari che approdano in Italia, siano essi immigrati regolari o clandestini, provengono da realtà sociali tradizionalmente fondate su insormontabili divisioni legate all’appartenenza carnale e alle caratteristiche biologiche.Tribù e clan in Africa, Medio Oriente e Asia e il sistema delle caste in India strutturano società nelle quali non si riconosce l’esistenza di diritti inerenti alla persona umana, e quindi universali e inalienabili, ed è lo status sociale a determinare i diritti di ciascuno: uno status che dipende soprattutto, appunto, dalla comunità di nascita e, nell’ambito di ogni comunità, dal sesso e dall’anzianità, tre fattori sui quali l’individuo non ha modo di incidere.

Caratteristica generale delle società così organizzate è la convinzione che nei confronti degli estranei non si hanno doveri di solidarietà e lealtà: vi manca il concetto di «prossimo» in ragione di una universale condizione umana. Gli «altri», per di più, sono inevitabilmente visti come rivali nell’accesso alle limitate risorse naturali e rappresentano un’intollerabile insidia per i beni scarsi e incerti da cui dipende l’esistenza di chi pratica le economie di sussistenza tipiche delle società preindustriali tribali.

Questo genere di organizzazione sociale e la cultura dalla quale ha origine favoriscono inoltre l’adozione di atteggiamenti ostili anche verso chi è considerato diverso, estraneo, per altri motivi: ad esempio, per la fede che professa. Perciò dei confini invisibili ai nostri occhi, ma evidentissimi agli occhi di chi li ha tracciati, delimitano ormai nelle nostre città i «territori tribali» occupati da differenti nazionalità ed etnie: strade, crocevia, abitazioni, attività economiche.

Non è facile dimenticare di essere un Giriama e smettere di diffidare dei Kikuyu, e viceversa, se persino le fiabe dell’infanzia raccontano quanto infidi e pericolosi sono gli «altri»; se la lotta per l’indipendenza del proprio paese è stata anche una guerra tribale per il controllo dell’apparato statale, che rischia di riesplodere a ogni appuntamento elettorale; se tuttora lignaggi e tribù combattono per impadronirsi di sorgenti e pascoli e, nelle città, di attività redditizie e degli incroci migliori per l’accattonaggio e la vendita ambulante, e di continuo giungono notizie di bestiame e raccolti razziati o persi nella fuga da un villaggio dato alle fiamme dai giovani armati di un’altra etnia.

Non tutti gli immigrati vogliono lasciarsi alle spalle tutto questo e non tutti, anche volendo, ci riescono, così come non tutti riescono a fare a meno delle istituzioni e dei valori in cui sono stati educati a credere ed essere fedeli. Tanti sono i casi di mutilazioni genitali femminili in Italia che si è resa necessaria una legge, varata alla fine del 2005 durante il precedente governo Berlusconi.

Ma è molto difficile impedire che vengano eseguite ugualmente e ancora più difficile è contrastare altre istituzioni come, ad esempio, le punizioni fisiche e la segregazione domestica. «Andate in San Salvario (un quartiere torinese fittamente popolato da immigrati di religione islamica, n.d.a.) e guardate sui tetti – diceva già anni fa lo scrittore Younis Tawkik a un pubblico incredulo – dove vedete un’antenna parabolica, lì abitano delle donne segregate che passano il tempo guardando programmi televisivi».

Proprio l’ansia di evitare qualsiasi forma di intolleranza e discriminazione nei confronti degli stranieri extracomunitari, insistendo sul fatto che basta conoscersi per capirsi, stimarsi e convivere pacificamente, induce da anni a tacere su questi aspetti fondanti delle loro società d’origine finendo per negare aiuto a chi ne è partito per liberarsi del razzismo e sottrarsi alle violenze e alle discriminazioni istituzionalizzate.