Testamento biologico: perchè una legge è inutile

testamento_bioPer Rassegna Stampa

Una legge sul cosiddetto testamento biologico è inopportuna perchè non vi è alcuna lacuna nel nostro ordinamento da colmare, ma sarebbe anche controproducente, perche’ creerebbe più problemi di quanti ne potrebbe risolvere complicando un impianto legislativo già sufficientemente chiaro in materia

Aldo Ciappi

Presidente Unione Giuristi Cattolici Italiani di Pisa

Senza voler sottovalutare affatto l’allarme suscitato, è bene chiarire in primo luogo che la pur gravissima e per certi versi “eversiva” decisione della prima sezione civile della Cassazione sul caso di Eluana Englaro (sentenza n. 21747/2007) non avrebbe, per sé stessa, alcuna autorità vincolante all’infuori del caso preso in esame.La funzione di indirizzo giurisprudenziale cogente per i giudici di merito circa l’interpretazione di una certa norma di legge è svolta, è vero, dallo stesso supremo organo giudiziario ma ciò si ha solo quando esso si pronuncia a sezioni unite (e, dunque, non è questo il caso).

Sarebbe perfettamente legittimo per qualsiasi giudice di merito discostarsi pertanto dalla massima indicata dalla detta sentenza. Peraltro, i presupposti in punto di fatto (l’inequivocabile manifestazione di volontà traducibile dallo stile di vita del soggetto e la certezza dell’irreversibilità dello stato vegetativo in cui versa) che stanno alla base di questa decisione, in sede di ricorso promosso dalla Procura contro il decreto della Corte di Appello di Milano debbono essere in concreto riverificati.

Detto ciò deve chiarirsi inoltre che ad opporsi decisamente al contenuto della decisione della Cassazione in commento è uno specifico articolo del codice penale (art. 579 – omicidio del consenziente) che ribadisce il principio (da considerarsi di rango costituzionale) di indisponibilità della vita personale, che, in questo caso, mi pare sia stato palesemente violato.

La sentenza in discorso deve ritenersi dunque “aberrante” perché tenta di fornire un’ interpretazione abrogante di tale norma che nel nostro ordinamento è inammissibile; così violando senz’altro un altro principio costituzionale, quello dell’ indipendenza dei poteri istituzionali. Da qui il relativo conflitto sollevato dal Parlamento che mi parrebbe fondato.

La Cassazione “interpreta” le leggi ma non può in alcun modo abolire di fatto una norma vigente né crearne di nuove.

Pertanto, sulla base di tale pacifica premessa, non sembrerebbe così “necessario” un intervento legislativo in materia di direttive anticipate di trattamento (d.a.t.) non essendovi in senso proprio una lacuna giuridica.

Vi è da dire, peraltro, che l’ introduzione di una legge ad hoc finirebbe, con molta probabilità, col creare assai più problemi di quanti si presuma con essa di risolvere (le buone leggi debbono contenere espressioni di natura generale, chiare e concise, come insegnano i maestri del diritto).

E’ più che lecito inoltre dubitare che un Parlamento (espressione di sensibilità del tutto eterogenee sul punto) sia in grado al giorno d’oggi di approvare un testo di legge il cui tenore (riprendendo il principio contenuto dell’art. 579 c.p. cit.) potrebbe essere, più o meno, il seguente:

“Nessun soggetto può esigere da chiunque, anche se versi in stato di malattia terminale, l’applicazione su di sé di tecniche o la somministrazione di sostanze atte a provocargli intenzionalmente la morte anticipandola, oppure la sospensione su di sé di quei trattamenti applicati che ne garantiscono la sussistenza vitale e che se, interrotti, ne provocherebbero la morte
”.

“Tali richieste, in caso di sopraggiunta incapacità di intendere e volere del soggetto, non possono altresì essere avanzate dal suo legale rappresentante o, in assenza, dalla persona da egli indicata o i suoi più stretti congiunti, neppure dietro presentazione di un’ espressa dichiarazione del soggetto stesso. resa anteriormente nelle piene facoltà mentali”.

Ma anche in tale, invero assai improbabile, evenienza resta il fatto che questa disposizione poco o nulla aggiungerebbe al citato articolo 579 del c.p.. di cui sarebbe solo una mera specificazione.

Se le cose stanno così, dobbiamo sinceramente chiederci se sia prudente o meno, per i sostenitori della dignità e inviolabilità della vita umana in ogni suo stadio, avventurarsi nell’iter procedurale di una legge che, nella migliore delle ipotesi, risulterebbe comunque di relativa utilità, mentre si finirebbe senz’altro per fornire l’occasione (tanto agognata!) agli agit-prop della morte “dolce” di scalzare, con qualche passaggio apparentemente innocuo inserito nella legge emananda, il quadro normativo vigente.

Pertanto, pur condividendo le perplessità di molto autorevoli commentatori, riguardo alla possibilità, rebus sic stantibus, di contenere l’avanzata di una, ritenuta ormai prevalente, giurisprudenza formatasi intorno al concetto di “consenso informato” alla luce delle disposizioni vigenti (Convenzione di Oviedo, Codice Deontologia Medica…), osservo che tale istituto (al più) impone al medico di tener conto della decisione del paziente (da ritenersi valida solo se resa nell’imminenza dell’intervento o, comunque, in costanza delle condizioni patologiche per cui l’intervento è suggerito, in maniera puntuale e ben consapevole) di rifiutare un determinato trattamento sanitario.

La questione, si badi bene, è per lo più teorica perché in pratica il malato si batte per la vita e non per la morte; le migliaia di cause fatte ai medici per presunta o vera negligenza lo dimostrano.

Ma, come il buonsenso prima che la scienza medica e l’autorevole parere del Comitato Nazionale di Bioetica risalente del 30 settembre 2005 insegna, l’alimentazione e la disidratazione non possono mai qualificarsi come “trattamenti sanitari” in senso tecnico; per cui sospenderli equivale, secondo le leggi attuali, a provocare la morte di una persona anche se ciò avvenisse con il suo consenso.

Pertanto nel caso di Eluana non si rientrerebbe in una delle ipotesi in cui, in nome dell’art. 32 Cost. c. 2, dovrebbe richiedersi il consenso informato.

Dunque, il vero problema di fondo non è l’assenza di norme bensì la distorta applicazione giurisprudenziale della disposizione da ultimo citata.

Ciò vuol quantomeno senz’altro dire che anche i magistrati sono figli della cultura (relativista) di questo tempo e che, in assonanza con i dis-valori propri di essa, interpretano alcune leggi (in particolare l’art. 32 Cost.) in maniera distorta dalla loro effettiva ratio. E ciò senza considerare i non pochi “politicizzati” che hanno scelto di “militare” in questo settore della società per concorrere, con i loro provvedimenti, nel lucido disegno da tempo in atto di una graduale sovversione dei valori cui l’ordinamento giuridico ancora in gran parte è ispirato.

Ma finché ci sarà una norma che punisce l’omicidio del consenziente qualsiasi magistrato, per quanto relativista militante, dovrà ogni volta affannarsi non poco per aggirarla, equivocando, consapevolmente o meno, come nel caso di specie, sul significato di accanimento terapeutico o sulla irreversibilità della condizione.

E’ un po’ come è accaduto, mutatis mutandis ovviamente, con il reato di offesa al comune sentimento del pudore. Una norma disapplicata ma che ancora resiste; ed è bene che resista foss’anche come mera affermazione di un principio di diritto che vale in sé, contro quell’orientamento legislativo strisciante per cui la norma giuridica dovrebbe limitarsi a ratificare l’evoluzione del costume.

La Cassazione, oltre che al potere legislativo, deve sottostare anche al giudizio della Corte Costituzionale in materia di legittimità delle leggi e, ad oggi, ogni sentenza deve ancora fare i conti con norme come l’art. 579 c.p. pienamente legittima e tutt’altro che abrogata o abrogabile; come invece probabilmente finirebbe per esserlo, almeno parzialmente, nel caso di un intervento legislativo in materia di d.a.t.

Sul caso di Eluana, per di più, l’ imprescindibile suo consenso a morire è stato ricavato in via presuntiva dai giudici della Corte di Appello di Milano (sulla scia della scandalosa massima della Cassazione) da un asserito suo “stile di vita” (!?) anteriore all’incidente; roba da far venire i brividi!

Rimango pertanto fermamente convinto che, qualora venisse introdotta una qualsiasi legge per regolamentare i casi come quello di Eluana o, più in generale, sulle direttive anticipate di trattamento, ineluttabilmente (per le fortissime pressioni esercitate dalla potente lobby pro eutanasia) il quadro normativo tuttora vigente verrebbe scalfito e alla “creativa” prassi giudiziaria (illegittima nel nostro ordinamento) si sostituirebbe una leggina attraverso cui tale prassi troverebbe piena legittimazione.