1848: una tragedia nazionale

moti 1848Il Timone n.69 gennaio 2008

Il fallimento del progetto neoguelfo, che voleva raggiungere l’unità d’Italia in collaborazione con il Papa. L’uinificazione italiana diventa così anticattolica e centralista. Una ferita che incide e rimane nel corpo della nazione

di Francesco Maria Agnoli

Le celebrazioni del bicentenario di Garibaldi hanno avuto un tono minore rispetto ai propositi, in particolare per partecipazione popolare, segno evidente del benefico affievolirsi di un mito in gran parte artificioso anche se per molti decenni penetrato a fondo nel comune sentire.

Tuttavia, il bicentenario rappresenta un’occasione per interrogarsi sul processo che portò all’unificazione italiana e, soprattutto, per chiedersi se quella via a lungo presentata come l’unica possibile per conseguirla lo fosse veramente e, in caso contrario, se quella scelta non sia stata causa di molti dei mali odierni, per colpa dei quali l’Italia in ambito europeo si colloca quasi sempre come fanalino di coda in molteplici situazioni e in tutti i settori nei quali la presenza dello Stato svolge un ruolo determinante.

Una domanda, quindi, di interesse non esclusivamente storico, ma di viva attualità, che si ripresenta con particolare evidenza nei momenti di crisi, quando diviene inevitabile chiedersi se questi non siano, e in quale misura, collegati a quello che un libro che avrebbe meritato maggior fortuna (Un popolo diviso di Giuseppe Orlandi e Antonio Achille) definisce nel sottotitolo «il paradosso di un’unità che disunì».

Nel 1929, la Civiltà Cattolica così scriveva «Cominciando da Pio IX, fino al più semplice prete del contado, l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare perentoriamente che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega nazionale italiana, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori di ogni dubbio per chi non voglia negare la luce meridiana, non si oppose all’unità, ma la voleva in modo diverso quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta gerarchia, dei cardinali e dello stesso antico partito conservatore piemontese» (La Civiltà Cattolica, 16 marzo 1929).

Incredibile a dirsi per la storiografia laica e giacobinizzante, non l’avversavano nemmeno, nonostante le polemiche con l’abate Vincenzo Gioberti (1801-1852) e l’avversione di alcuni di loro, come il padre Carlo Maria Curci (1809-1891), per il neo-guelfismo, i gesuiti, bestia nera del liberalismo piemontese e di tutto il rivoluzionarismo italico ed europeo.

Uno dei loro maggiori rappresentanti all’epoca, Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), nella sua corrispondenza con il superiore generale Joannes Philippe Roothaan (1783-1853) si dichiarava favorevole a un «liberalismo senza empietà» (lettera del 7 febbraio 1847 riportata nei Carteggi di padre Taparelli curati da Pietro Pirri sj, Torino 1932) e, trovandosi a Palermo, al momento dell’insurrezione della Sicilia contro il governo napoletano, dichiarò il regime costituzionale migliore del vecchio regalismo borbonico ed espresse l’augurio che la libertà siciliana fosse come quella degli Stati Uniti, dove «ogni religione è civilmente rispettata, niuna politicamente regnante» sicché il cattolicesimo vi è «più lieto e libero e attuoso che in certi regni cristianissimi, fedelissimi, apostolicissimi» (L. Taparelli d’Azeglio, Sulla libertà di associazione, cit. in Gabriele De Rosa, I gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del ’48, Roma 1963, p. 217).

Ma, opinione dei singoli a parte (comunque a fianco del padre Taparelli va ricordato almeno un altro gesuita, Giuseppe Romano), fino al 1848 era opinione comune, in Italia e in Europa, soprattutto dopo il disastroso fallimento dei moti mazziniani del 1843-44, che l’unità politica italiana fosse realizzabile (e auspicabile) unicamente in forma confederale, un’opinione condivisa non solo dai cattolici, ma dalla maggioranza dei laici, e che, dopo una gestazione letteraria, assunse concreta forma politica col neo-guelfismo.

Si trattava di unire in una Lega guidata dal Papa (in sostanza una confederazione) tutti gli Stati italiani secondo le linee tracciate da Gioberti nel Primato morale e civile degli Italiani. Questo libro, per il successo ottenuto e le adesioni raccolte, divenne il manifesto del neo-guelfismo, ma aveva radici fin nel Du Pape di Joseph de Maistre (1753-1821), che già traeva conseguenze politiche dal primato della Chiesa cattolica, e precedenti nel Dell’Italia dì Nicolo Tommaseo (1802-1874), pubblicato nel 1835, e nelle Cinque piaghe della Chiesa di Antonio Rosmini (1797-1855), che, pur pubblicato solo nel 1848, era stato scritto nel 1833.

Indubbiamente il progetto neo-guelfo di una confederazione, che avrebbe dovuto riprendere, perfezionandolo, il modello germanico, incontrava l’ostacolo di un Lombardo-Veneto governato dall’Austria (il problema, trascurato da Gioberti, venne affrontato da Cesare Balbo (1789-1853), proponendone la liberazione dall’Austria), e in alcuni ambienti destava perplessità l’idea di affidarne al Papa la guida, nonostante si trattasse più che altro, come maggioranza degli italiani chiaramente comprendeva, di un titolo d’onore e della garanzia che la Lega avrebbe conservato il principio ispiratore da cui era nata: la consapevolezza che la rinascita, sociale, culturale e politica dell’Italia era indissolubilmente legata alla storia della Chiesa, che aveva garantito attraverso i secoli l’italianità. Da questo punto di vista la politica di Massimo d’Azeglio (1798-1866) che, fatta l’Italia, voleva «fare gli italiani» era priva di senso, perché gli italiani erano fatti da secoli.

Le vicende della Repubblica romana del 1849 con il suo feroce anti-cattolicesimo e la politica del nuovo governo piemontese dei d’Azeglio e dei Cavour misero in crisi il progetto neo-guelfo e in particolare l’idea della supremazia del Papato, ma non completamente e non subito quello confederativo come strada maestra per l’unificazione politica. Questa prospettiva continuava a godere di un vasto consenso nazionale e internazionale e su quest’ultimo lo stesso conte di Cavour faceva tanto conto che nel 1858, per assicurarne l’appoggio alle mire espansionistiche del Piemonte, a Plombièrs ne propose a Napoleone III (1808-1873) (e poco rileva la probabile, o certa, esistenza, di una riserva mentale) una riedizione ovviamente innestandola sulla nuova situazione politica destinata ad uscire dalla guerra contro l’Austria.

Gli accordi prevedevano, difatti, accanto al Regno delle Due Sicilie, immutato nei suoi antichi confini, un Regno settentrionale, comprendente anche le Legazioni e i Ducati padani, sotto Casa Savoia, un Regno centrale, costituite da gran parte delle ex-province pontificie con sovrano Gerolamo Napoleone (1784-1860), uno Stato della Chiesa ristretto al solo Lazio. Questi quattro Stati si sarebbero confederati.

L’idea era talmente forte in Europa che, venuta meno la possibilità di attuare gli accordi di Plombièrs a seguito dell’armistizio di Villafranca, la conseguente pace di Zurigo (novembre 1859), che assegnava la Lombardia al Piemonte ma lasciava all’Austria il Veneto, prevedeva una Confederazione fra il Regno sardo, accresciuto della Lombardia, le Due Sicilie, lo Stato della Chiesa, i Ducati di Parma e Modena e il Veneto.Veniva così, se non rimosso, grandemente attenuato il principale inciampo incontrato dal progetto neo-guelfo: il Lombardo-Veneto austriaco.

La Lombardia, difatti, era stata sottratta agli Asburgo e unita al Piemonte, ed era espressamente previsto che i deputati del Veneto, pur rimasto asburgico, partecipassero a pieno titolo all’atto fondativo della Confederazione e alla formulazione del patto confederale.

A parte gli accordi di Plombières e le clausole della pace di Zurigo, che almeno uno dei contraenti non intendeva rispettare nel momento stesso in cui li sottoscriveva e che gli altri non avevano il desiderio o la forza di fare osservare, resta il problema del fallimento del progetto neoguelfo nonostante le grandi speranze suscitate e i volonterosi tentativi di metterlo in atto.

Difatti, ai primi di aprile del 1849 (Milano aveva appena vissuto le Cinque Giornate e il Regno sardo dichiarato la guerra all’Austria), Pio IX (1846-1878) diede nuovo impulso alle iniziative del novembre 1847 per la realizzazione di una Lega doganale (la stessa strada intrapresa nel 1834 con la Zollverein da 38 Stati della Confederazione tedesca), inviando un Legato straordinario a Carlo Alberto (1798-1849), che però, pur informato dell’adesione della Toscana e delle Due Sicilie, si trincerò dietro la guerra in corso per rinviare ogni decisione.

Nonostante il sospetto che il Piemonte, inorgoglito dai primi successi militari, meditasse di sostituire al progetto dell’indipendenza italiana quello dell’allargamento dei domini di Casa Savoia secondo l’antica ambizione sabauda di mangiarsi la penisola foglia a foglia come un carciofo, nell’autunno di quello stesso anno il nuovo governo pontificio, presieduto da Pellegrino Rossi (1787-1848), rinnovò la proposta.

Questa volta il Piemonte, in difficoltà sul piano militare, diede risposta positiva, ma a condizione che gli venissero assicurati il Lombardo-Veneto e i Ducati emiliani, così trasformando in certezza il dubbio sulla sua intenzione di utilizzare l’aspirazione all’unificazione come grimaldello per ingrandire se stesso a spese dell’Italia per poi un giorno dominarla.

Gli anni successivi avrebbero reso chiaro a tutti che appunto questa era la ragione del rifiuto e dell’accantonamento del progetto confederale e cattolico a favore di un centralismo monarchico-giacobino da realizzare attraverso l’alleanza, solo in apparenza contraddittoria dal momento che i nuovi governanti piemontesi, pur conservatori in economia, ne condividevano l’ideologia rivoluzionaria, con l’ala estrema del movimento unitario, che del resto assicurava alle loro ambizioni, in nome dell’odio al “papismo”, l’appoggio inglese e, di conseguenza, della massoneria internazionale.

In questo modo si passò da una unificazione politica fondata sul riconoscimento dell’indissolubile legame fra la rinascita dell’Italia e la storia della Chiesa cattolica, all’opposto di uno Stato costruito, caso unico in Europa, contro la religione praticata dalla quasi totalità dei cittadini.

Uno Stato nel quale il Bollettino della massoneria (ripreso da La Civiltà Cattolica del 5 dicembre 1881) definiva «stolto e cieco chi non vedeva e non sentiva la terribile e peculiare missione della razza italiana esser di liberar le nazioni dal giogo di Roma cattolica» e il giornale ufficioso Il Diritto (11 agosto 1863) proporre questa missione come conseguenza e giustificazione dell’unità, perché «nazionalità, unità, libertà politica sono mezzi a quel fine; mezzi che eventualmente sono grandi e solenni benefici per noi, ma che pure sono, rispetto all’umanità, null’altro che mezzi per conseguire quel fine, che a lei sta sommamente a cuore, della totale distruzione del medioevo nell’ultima sua forma, il cattolicesimo».

Bibliografia

Gabriele de Rosa, Il movimento cattolico in Italia, Laterza 1988

Giuseppe OrlandiAntonio Achille, Un popolo diviso, La parola 1988.

Renato Girelli, La questione romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, Mimep-Docete, 1997