Nozze gay, primo sì. Negli Usa vince la tecnocrazia

corte usaLa Nuova Bussola quotidiana, 27 giugno 2015

di Massimo Introvigne

Con la maggioranza di un solo giudice – cinque contro quattro – il 26 giugno la Corte Suprema di Washington ha dichiarato che tutti gli Stati degli Stati Uniti sono obbligati a introdurre il «matrimonio» omosessuale. I giuristi americani analizzeranno nei promossi giorni la sentenza e le possibilità di resistenza di qualche Stato, che sembrano limitatissime. Ma fin da ora si possono formulare cinque commenti di carattere generale.

Primo. Non era mai capitato nella storia degli Stati Uniti che un presidente scendesse in campo per «consigliare» energicamente ai giudici della Corte Suprema come votare. L’indipendenza delle supreme toghe di Washington è sacra. Il presidente Obama lo ha fatto, esprimendo apertamente le sue preferenze in modo perfino tracotante, così come Hillary Clinton, che si sente già l’erede designata per le prossime elezioni. Questo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che le lobby LGBT sono così potenti da far svanire come neve al sole qualunque principio e anche qualunque forma di correttezza istituzionale. Tanto i grandi media sono tutti dalla parte del «matrimonio» gay: e nessuno ha criticato il presidente.

Secondo. Si legge che cinque giudici hanno cambiato la nozione costituzionale del matrimonio e della famiglia negli Stati Uniti. Per la verità è stato uno solo. Tutti sapevano che quattro giudici progressisti erano a favore del «matrimonio» omosessuale e quattro giudici conservatori contrari. E che tutto dipendeva da un singolo giudice, Anthony Kennedy, un ottantenne – compirà gli ottanta l’anno prossimo – bizzoso e imprevedibile, che ha votato con i progressisti. Un uomo solo ha rovesciato la storia e la Costituzione di un’intera grande nazione.

Si tratta di un libero pensatore, di un laicista arrabbiato? Al contrario: Kennedy è un cattolico che si vanta di essere stato un chierichetto modello e che fu nominato giudice della Corte Suprema dal presidente Ronald Reagan, che ne apprezzava le idee conservatrici. In materia di aborto e di droga ha votato con i conservatori. Ma con gli anni è diventato sempre più imprevedibile, e su questioni che riguardano gli omosessuali si è sempre schierato con i progressisti. Per la prima volta nella sua storia, la Corte Suprema aveva una maggioranza di cinque cattolici su nove. A loro onore, quattro giudici cattolici su cinque hanno votato contro il «matrimonio» omosessuale. Il quinto era Kennedy.

Chi ha seguito le vicende americane sa che non si può imputare nulla in questa materia ai vescovi cattolici. Si sono sempre pronunciati in modo chiarissimo. E, dopo il passaggio da Papa Benedetto XVI a Papa Francesco, hanno interpretato il messaggio del nuovo Pontefice sull’autonomia dei singoli episcopati intensificando la loro opposizione e passando dai documenti all’intervento diretto nelle aule giudiziarie, insieme ad altre comunità religiose, partecipando a una causa promossa dagli Stati dello Utah e dell’Oklahoma, particolarmente ostili al «matrimonio» omosessuale.

Tutto bene, dunque, per i vescovi di oggi. Ci si può chiedere però se un uomo come Kennedy non risenta del clima che predominava nel mondo cattolico degli Stati Uniti negli anni della sua maturazione come giurista e come intellettuale, improntato a un ampio «lassez faire» in campo morale. Peraltro, non si può neppure speculare troppo su quella che, alla fine, è stata la scelta personale di un singolo giudice. Gli auguriamo lunga vita – si ritirasse ora, Obama nominerebbe un giudice peggiore – ma, considerata l’anagrafe, presto risponderà delle sue scelte di fronte a tutt’altro tribunale.

Terzo. È comune nel diritto americano che le decisioni della Corte Suprema siano combattute e che cinque giudici votino contro altri quattro. Chi vota contro la maggioranza motiva la sua decisione con una «dissenting opinion» scritta, che è resa pubblica. Di solito, però, le opinioni contrarie sono redatte con grande cortesia. I giudici della Corte Suprema passano gran parte del loro tempo insieme. Alcuni vivono negli appartamenti della Corte, sono vicini e colleghi in alcuni casi da trent’anni.

Questa volta i dissidenti hanno scritto parole di fuoco, aprendo una lacerazione nella Corte e nel Paese che impiegherà anni a rimarginarsi. In un’opinione firmata da tutti e quattro gli oppositori, con alla testa il presidente della Corte Suprema, anche lui cattolico, John Roberts, hanno scritto che «si è trattato di un atto di imperio, non di una sentenza fondata sul diritto». Se siete a favore, si legge nel documento, «celebrate la sentenza di oggi. Ma per favore non celebrate la Costituzione, non ha niente a che fare con essa».

 

Ancora più dure le parole dei singoli giudici, che hanno redatto anche opinioni di dissenso individuali. Il giudice Samuel Alito ha scritto che «la decisione di oggi usurpa il diritto costituzionale del popolo di decidere se mantenere e modificare la nozione tradizionale del matrimonio. Tutti gli americani, comunque la pensino sul punto, dovrebbero preoccuparsi delle implicazioni della sentenza e del potere straordinario che conferisce a una maggioranza dei membri della Corte».

Il giudice Anthony Scalia ha scritto che la sentenza minaccia la democrazia, sovverte la Costituzione, maltratta il diritto in un modo tale che se l’avesse firmata, scrive, «dovrei nascondere la mia testa in un sacco» e che, più che sul «ragionamento legale», sembra fondarsi su sciocchezze romantiche «del tipo che si leggono nei bigliettini nascosti nei dolci della fortuna cinesi».

Al di là del sarcasmo amaro di Scalia, i giudici hanno, per la seconda volta nella storia degli Stati Uniti, cambiato la Costituzione in modo radicale. Lo fecero una prima volta nel 1973 con la sentenza «Roe versus Wade» in cui, introducendo l’aborto, modificarono la nozione costituzionale di diritto alla vita, escludendo i bambini non nati. Nessun Parlamento americano ha mai votato una legge sull’aborto. L’hanno introdotta i giudici, che ora modificano anche le nozioni costituzionali di matrimonio e famiglia. E tutto questo dopo che, in trenta Stati su trentadue dove si erano celebrati referendum, gli elettori americani avevano detto «no» al matrimonio omosessuale. Le schede di quei referendum sono ora carta straccia.

Benedetto XVI lo aveva scritto con molta chiarezza nella «Caritas in veritate»: non c’è solo la tecnocrazia degli scienziati. Quando i giudici si affermano detentori di un sapere superiore, in nome del quale «correggono» le decisioni sbagliate di elettori giudicati retrogradi e ignoranti, la democrazia è sostituita dalla tecnocrazia. Anche chi non apprezza altri passaggi dell’enciclica «Laudato si’» di Papa Francesco dovrebbe ringraziare il Pontefice per avere ripreso e rilanciato la dottrina di Benedetto XVI sulla tecnocrazia.

Francesco si rende conto che solo nel quadro di questa dottrina è possibile dare un solito fondamento magisteriale alla sua critica delle «colonizzazioni ideologiche» del gender, che altrimenti qualcuno in Europa potrebbe ridurre a esternazioni estemporanee tipiche di una certa mentalità sudamericana. Anzi, l’enciclica «Laudato si’» fonda in modo teologico la critica della tecnocrazia nel pensiero di Romano Guardini, maestro sia di Benedetto XVI sia di Papa Francesco.

Quarto. Nel giorno della decisione della Corte Suprema, Papa Francesco ha ricevuto la Conferenza Internazionale Cattolica delle Guide, cui ha detto che «siamo in un mondo in cui si diffondono le ideologie più contrarie al disegno di Dio sulla famiglia e sul matrimonio». Non solo ideologie contrarie ma «le ideologie più contrarie». Le più contrarie nella storia: parole che fanno eco, anche qui, a quelle di Benedetto XVI quando definì la teoria del gender la maggiore sfida per la Chiesa e per la società.

Sullo sfondo si sentono rumori molto sospetti. Con una «excusatio non petita» i consiglieri del presidente Obama assicurano che la libertà religiosa non è in pericolo e che le Chiese e comunità religiose non saranno costrette dai giudici a «sposare» persone dello stesso sesso. Lo precisano, perché sanno bene che gli attivisti LGBT, con poca prudenza ma con il pregio della chiarezza, annunciano già che questa è la prossima battaglia: obbligare le Chiese a celebrare «matrimoni» gay.

Nel mese di aprile è morto il cardinale Francis George, che fu arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti. Ha detto che moriva nel suo letto, ma che il suo successore sarebbe morto in prigione e il suo ulteriore successore su un patibolo. Forse aboliranno la pena di morte, ma la prigione per chi si rifiuta di celebrare matrimoni gay è già stata minacciata ieri dalle voci più estreme, o forse solo più sincere, della lobby LGBT.

Quinto. Come in Irlanda, anche negli Stati Uniti la battaglia non è stata persa in un giorno e non c’entra solo il giudice Kennedy. Si è cominciato a perderla quando, Stato dopo Stato, ben prima del «matrimonio» sono state riconosciute forme di unione civile che assomigliavano tanto al regime matrimoniale. Poi sono state ammesse anche le adozioni. «Purché non si chiamino matrimonio»: così qualche «moderato» giustificava la sua non opposizione. Ma, una volta introdotta una forma identica al matrimonio, la strada è tracciata e la sorte è segnata. Un proverbio americano dice che se un animale cammina come un’anatra e starnazza come un’anatra tanto vale chiamarlo anatra.

Questa, alla fine, è la lezione per l’Italia. Sentiamo strane voci per cui alcuni parlamentari «cattolici», forse benedetti da qualche ecclesiastico, voterebbero la legge Cirinnà purché con una clausola che precisi in modo solenne che non si tratta di matrimonio ma solo del riconoscimento di una «formazione sociale» diversa. Anche il caso americano dimostra che i nomi contano poco.

Posso scrivere sulla bottiglia «champagne» ma se dentro c’è della gazzosa non si trasforma miracolosamente in Dom Perignon. Con qualunque clausola cosmetica a uso degli ingenui, la legge Cirinnà è un’anatra che cammina come il matrimonio e dà i diritti del matrimonio, adozioni comprese. Dopo un po’ la chiameranno anatra, cioè matrimonio. Ma non subito. Prima, perché l’anatra spicchi il volo, chiederanno a qualcuno di fare la figura del pollo.