Perché è immorale pagare più di un tot al fisco

tasseTratto da: Il Domenicale

La sana ricetta del principe dei conservatori contro il mito liberal del progressisticamente corretto che sogna e auspica la forte spesa pubblica, tassazioni lesive della dignità umana e uno Stato invadente oltre logica e buon gusto. Un sorso di buon vino d’annata per disintossicarsi dalle fumosità dell’Unione

di Barry M. Goldwater 

1. Imposte e tasse

Da quando siamo al mondo, tutti abbiamo sentito molto promettere, ma poco abbiamo visto in realtà, in materia di forti tasse. Dov’è l’uomo politico che non abbia promesso ai suoi elettori una lotta sino alla morte per la riduzione delle tasse e che poi non si sia messo a votare proprio per quei progetti costosi che la rendono impossibile? Ci sono alcune eccezioni da fare, ma temo che non siano molte. Così le chiacchiere sulle riduzioni di tasse hanno preso un suono sordo. La gente ascolta, ma non ci crede.

Peggio ancora: mentre il pubblico si fa sempre più cinico, l’uomo politico si sente sempre meno obbligato a prendere sul serio le proprie promesse.Sospetto che questo circolo vizioso di cinismo e di promesse mancate sia anzitutto il risultato del successo dei Liberali nell’eliminare dalla discussione i principi morali coi quali il tema della tassazione è così intimamente collegato. Siamo stati indotti a considerare le tasse come semplice problema di finanze pubbliche: di quanto danaro ha bisogno il Governo?

Siamo stati indotti a trascurare, e spesso a dimenticare del tutto, il rapporto fra le tasse e la libertà individuale.Siamo stati persuasi che il Governo ha un diritto illimitato sulle ricchezze dei cittadini e che l’unica questione sia di vedere quanta parte di questo suo diritto il Governo debba pretendere. Mi sembra che il contribuente americano abbia perduto la fiducia nel proprio diritto al suo danaro.

Nella sua resistenza alle forti tasse, egli è stato frenato dalla sensazione di essere obbligato, come cosa logica e normale, ad acconsentire a qualsiasi pretesa il Governo decida di avanzare sul suo danaro.

Mi sembra che la verità sia assai diversa. Il Governo non ha affatto un diritto illimitato ai guadagni degli individui. Uno dei principali precetti della legge naturale è il diritto dell’uomo al godimento e all’uso della sua proprietà. E i guadagni dell’uomo sono sua proprietà non meno della sua terra e della casa in cui vive. In verità, nell’èra industriale, i guadagni sono probabilmente la forma prevalente della proprietà.

È stato di moda durante gli anni recenti sminuire i “diritti di proprietà” associandoli all’avidità e al materialismo. Questo assalto ai diritti di proprietà è infatti un assalto alla libertà. È un altro esempio della incapacità moderna di concepire l’uomo integrale. Come può essere veramente libero, un uomo, se gli si negano mezzi per esercitare la libertà?

Come può essere libero, se i frutti del suo lavoro non sono a sua disposizione perché ne faccia quel che più vuole, ma vengono trattati, invece, come parte d’un fondo comune di ricchezza pubblica? La proprietà e la libertà sono inseparabili: quando il Governo, sotto forma di imposte, porta via la prima, esso invade anche l’altra.

Ecco una indicazione di come la tassazione corrente invada la nostra libertà. Un padre di famiglia che guadagna quattromilacinquecento dollari l’anno lavora, in media, ventidue giorni il mese. Imposte visibili e invisibili portano via circa il trentadue per cento dei suoi guadagni. Ciò vuol dire che un terzo del suo lavoro mensile, ossia sette giornate intere, va per le tasse.

L’americano medio, dunque, lavora un terzo del suo tempo per il Governo: un terzo di ciò che produce non è disponibile per il suo uso, ma viene confiscato e adoperato da altri che non l’hanno guadagnato. Notiamo che in questo modo gli Stati Uniti sono già “socializzati” per un terzo. Il compianto senatore Taft sottolineava spesso questo punto.

«Aumentare ancora il peso delle tasse oltre il trenta per cento che abbiamo già raggiunto», egli diceva, «significa socializzare ancor meglio di quanto non si farebbe con una confisca governativa. La stessa imposizione di tasse onerose è già una limitazione della libertà umana».

Dopo aver detto che ciascun uomo ha un diritto inalienabile alla sua proprietà, bisogna anche dire che ogni cittadino ha l’obbligo di contribuire per la sua giusta parte alle legittime funzioni del Governo. In altre parole, è innegabile che il Governo ha un certo diritto alla nostra ricchezza; il problema è di definire quel diritto in un modo che si tengano in debito conto i diritti di proprietà dell’individuo.

La quantità del giusto diritto del Governo, ossia la somma totale che potrà portare via in forma di tasse, sarà determinata dal modo in cui definiamo “le funzioni legittime del Governo”. Circa il Governo federale, la Costituzione è il giusto criterio della legittimità: i suoi poteri “legittimi”, come abbiamo veduto, sono quelli che la Costituzione gli ha assegnato. Perciò, se vogliamo aderire alla Costituzione, l’ammontare complessivo di tasse del Governo federale sarà dato dal costo dell’esercizio di quei suoi poteri delegati che i nostri rappresentanti ritengono necessari nell’interesse nazionale.

Ma viceversa, quando il Governo federale approva programmi che non sono autorizzati dai suoi poteri delegati, e tasse necessarie per pagare tali programmi eccedono il giusto diritto del Governo alla nostra ricchezza.

La precisazione del diritto del Governo è la successiva parte della definizione. Che cosa è un’“equa parte”? Mi pare che le esigenze della giustizia siano qui perfettamente chiare: il Governo ha il diritto a pretendere una uguale percentuale della ricchezza di ciascuno, e non di più. Le tasse sulla proprietà sono imposte precisamente su questa base. Anche le tasse indirette e sulle vendite si fondano sul medesimo principio, sebbene la tassa gravi sopra una transazione più che sulla proprietà.

Il principio vale ugualmente per le rendite, le eredità e i doni. L’idea che un uomo che guadagna centomila dollari l’anno debba essere obbligato a sopportare il costo del Governo col novanta per cento delle sue entrate, mentre l’uomo che guadagna diecimila dollari debba pagare il venti per cento, ripugna ai miei concetti della giustizia. Non credo che si debba punire il successo. In termini generali, ritengo sia contrario al diritto naturale alla proprietà, al quale abbiamo ora accennato (e per ciò stesso immorale), negare all’uomo, la cui fatica ha prodotto

un frutto più abbondante di quello del suo vicino, l’occasione di godere dell’abbondanza da lui creata. Quanto alla pretesa che il Governo abbia bisogno della tassa graduale sui redditi, i fatti rivelano il contrario. Il totale dei redditi percepito con tasse sulle entrate oltre il venti per cento ammonta a meno di cinque miliardi di dollari: meno di quello che il Governo federale spende attualmente nel solo settore dell’agricoltura.

La tassa graduale è una tassa confiscatoria. Il suo effetto, e in grande parte il suo scopo, è di abbassare tutti gli uomini a un livello comune. Molti di quanti sostengono la tassa graduale riconoscono francamente che il loro scopo è di ridistribuire la ricchezza della nazione. La loro mira è una società ugualitaria, obiettivo contrario sia alla Carta della Repubblica, sia alle leggi di Natura. Siamo tutti uguali davanti a Dio, ma non siamo uguali sotto nessun altro punto di vista. Mezzi artificiali per imporre l’uguaglianza tra uomini disuguali devono essere respinti se vogliamo rispettare quella Carta e onorare quelle leggi.

Per quanto riguarda le imposte, dunque, un compito nostro è di imporre la giustizia, abolire le caratteristiche graduali delle nostre leggi fiscali; e più presto ci metteremo al lavoro, meglio sarà.

L’altro problema, quello che ha il massimo influsso sulla nostra vita quotidiana, è di ridurre la mole delle imposte. E ciò ci porta alla questione delle spese governative. Si può sostenere che, finché ci sarà del denaro nel Tesoro federale, le spese non verranno mai ridotte: ma in linea pratica io sostengo che la riduzione delle spese debba precedere la riduzione delle imposte. Se noi riduciamo le imposte prima di prendere decisioni ferme e intelligenti intorno alle spese, finiremo sulla strada delle spese deficitarie e degli effetti che invariabilmente le seguono.

È nel campo delle spese che il Partito Repubblicano, durante i suoi sette anni di potere, ha maggiormente deluso. […]

Ora, sarebbe già abbastanza brutto se avessimo semplicemente mancato alla nostra promessa di ridurre le spese; il fatto è, invece, che le spese federali sono enormemente aumentate durante gli anni repubblicani. Invece d’un bilancio di sessanta miliardi di dollari, ci troviamo di fronte, nell’anno fiscale 1961, a un bilancio di circa ottanta miliardi di dollari.

Se aggiungiamo alla cifra ufficiale del bilancio gli esborsi del così detto fondo fidecommissario per la Sicurezza Sociale e per il Programma di Autostrade Federali, come bisogna fare se vogliamo ottenere un quadro realistico delle spese, le spese federali totali si aggireranno attorno ai novantacinque miliardi di dollari.

Ci dicono spesso che l’aumento delle spese federali è una semplice conseguenza dell’aumentato costo della difesa nazionale. Non è vero. Durante gli ultimi dieci anni le spese puramente interne sono aumentate da quindici miliardi e duecento milioni di dollari, nell’anno fiscale 1961, a trentasette miliardi di dollari proposti nell’anno fiscale 1961 (cifre che non comprendono i pagamenti di interessi sul debito nazionale), cioè un aumento del centoquarantatré per cento!

Ecco le cifre misurate con un criterio leggermente diverso: durante gli ultimi cinque anni della amministrazione Truman la media annua delle spese federali per scopi interni fu di diciassette miliardi e settecento milioni di dollari; durante gli ultimi cinque anni della amministrazione Eisenhower fu di trentatré miliardi e seicento milioni di dollari, con un aumento dell’ottantanove per cento.

Naturalmente, bisogna tener conto dell’aumento della popolazione; evidentemente il medesimo programma di sussidi costerà di più se vi saranno più persone a cui provvedere. Ma neppure l’aumento della popolazione basta a giustificare l’aumento delle spese. Durante il periodo di dieci anni in cui le spese federali sono aumentate del centoquarantatré per cento, la nostra popolazione si sarà accresciuta di circa il diciotto per cento. E nemmeno l’inflazione spiega la differenza.

Durante gli ultimi dieci anni, il valore del dollaro è calato circa del venti per cento. Infine, ci dicono spesso che quello che importa è la quota governativa sul totale delle spese di un paese e che di conseguenza dobbiamo tener conto dell’aumento dell’insieme della produzione nazionale. Anche qui, però, l’aumento dei prodotti nazionali, che è stato calcolato a circa il quaranta per cento durante gli ultimi dieci anni, non è paragonabile con un aumento del centoquarantatré per cento delle spese federali.

La conclusione, dunque, è inevitabile: cioè, che lontani dall’avere arrestato le spese federali e la tendenza verso lo statalismo, noi Repubblicani abbiamo continuato in questo senso.

Non voglio insinuare, si capisce, che le cose sarebbero state diverse sotto un regime democratico. Ogni anno i dirigenti nazionali democratici chiedono che il Governo federale spenda più, di quel che spende, e che i Repubblicani propongono di spendere. E quest’anno, diverse settimane prima che il Presidente Eisenhower annunciasse il suo bilancio per il 1961, il Comitato Consultivo Nazionale Democratico lanciò un manifesto in cui chiedeva prodighi aumenti di spese in quasi ogni Dicastero del Governo federale; per le sole spese interne, gli aumenti richiesti difficilmente avrebbero potuto costare meno di venti miliardi di dollari l’anno.

Intendo dire, però, che nessuno dei nostri due partiti politici ha seriamente affrontato il problema delle spese governative. Le raccomandazioni del Comitato Hoover, che potrebbero risparmiare ai contribuenti circa sette miliardi di dollari l’anno, sono state in massima parte trascurate. Eppure anche queste raccomandazioni, che trattano per lo più della prodigalità e dello spreco, non arrivano al cuore del problema.

Il vero male è che il Governo è impegnato in attività nelle quali non ha nessuna ragione di immischiarsi. Finché il Governo federale ammette di avere responsabilità in un dato campo sociale o economico, le sue spese in quel campo non possono essere notevolmente ridotte. Finché il Governo federale riconosce la responsabilità dell’educazione, per esempio, la somma di sussidi federali deve aumentare per forza, in diretta proporzione almeno col costo del mantenimento delle scuole della nazione.

L’unico modo di ridurre sostanzialmente le spese, è di eliminare le attività in cui si producono spese superflue. Bisogna che il Governo cominci a ritirarsi da una intera serie di attività che si trovano al di fuori del suo mandato costituzionale: dagli impegni di benessere sociale, dell’educazione, dell’agricoltura, delle case popolari, del rinnovamento urbano e di tutte le altre attività che possono essere molto meglio esercitate a un livello inferiore al Governo, o da istituzioni private o da individui.

Non dico che il Governo federale debba abbandonare tutti questi impegni da un giorno all’altro. Invece suggerisco che noi stabiliamo, per legge, rigidi termini per un ritiro a scaglioni. Potremmo provvedere, per esempio, per una riduzione delle spese ogni anno in tutti i campi nei quali la partecipazione federale non è desiderabile.

È soltanto attraverso questa specie di risoluti assalti al principio di Governo illimitato che il popolo americano potrà ottenere un sollievo dalle tasse opprimenti, cominciando a progredire verso la ripresa della sua libertà. E decidiamoci, a ogni costo, a ricordare l’interesse della nazione nel ridurre tasse e spese.

L’esigenza dello «sviluppo economico» di cui sentiamo parlare tanto sarà soddisfatta dal Governo non già spremendo le energie economiche della nazione, ma emancipandole. Riducendo le tasse e le spese noi non soltanto restituiremo all’individuo i mezzi con i quali può affermare la propria libertà e dignità, ma garantiremo anche alla nazione la forza economica che sarà sempre il suo ultimo baluardo contro nemici stranieri.

2. Lo Stato assistenziale

Washington – Il Presidente ha calcolato che le spese del dicastero della Sanità, Educazione e Assistenza nell’anno fiscale 1961 (compresi i pagamenti per la sicurezza sociale) supereranno i quindici miliardi di dollari. Così il risultato visibile della legislazione New Deal è di far sì che le spese federali per l’assistenza sociale siano in questo paese inferiori soltanto a quelle per la difesa nazionale.

New York Times, 18 gennaio 1960.

Sembrò per molti anni che la principale minaccia interna alla nostra libertà fosse contenuta nelle dottrine di Karl Marx. I collettivisti, quelli non – comunisti come i comunisti, avevano adottato l’obiettivo marxista di “socializzare i mezzi di produzione”. E così si credeva che la collettivizzazione, qualora vi fosse imposta, avrebbe preso la forma d’una economia fondata sulla proprietà e attività dello Stato. Dubito che questa continui ad essere la minaccia principale.

I collettivisti hanno riscontrato, sia in questo paese sia nelle altre nazioni industrializzate dell’Occidente, che la libera iniziativa ha eliminato le condizioni economiche e sociali che rendevano possibile una lotta di classi. Una produttività gigantesca, una larga distribuzione della ricchezza, un alto tenore di vita, il movimento sindacale; questi ed altri elementi hanno eliminato ogni incentivo che avrebbe potuto istigare il “proletariato” ad insorgere, pacificamente o non, arrogandosi la diretta proprietà dei beni produttivi.

Il fallimento dottrinario del marxismo è stato chiaramente riconosciuto in modo significativo dal Partito Socialista della Germania occidentale, e dalla corrente dominante del Partito Socialista della Gran Bretagna.

Nel nostro paese l’abbandono del punto di vista marxista (con l’eccezione s’intende, del Partito Comunista) è testimoniato dalla forza trascurabile del Partito Socialista e, forse con evidenza ancora maggiore, dal contenuto della letteratura dell’ala sinistra e dai programmi di organizzazioni politiche di sinistra, quali gli Americani per l’Azione Democratica.

Lo strumento di collettivizzazione che in questo momento si preferisce è lo Stato assistenziale. I collettivisti non hanno abbandonato la loro ultima meta, subordinare l’individuo allo Stato, ma hanno mutato la loro strategia. Hanno imparato che il socialismo si può ottenere con l’assistenzialismo altrettanto bene che con la nazionalizzazione. Comprendono che la proprietà privata può essere confiscata per mezzo delle imposte non meno che con la espropriazione.

Comprendono che l’individuo può essere posto alla mercé dello Stato non, soltanto facendo dello Stato il suo datore di lavoro, ma spogliandolo dei mezzi per provvedere ai suoi bisogni personali e dando allo Stato la responsabilità di accudire a quei bisogni dalla culla sino alla tomba. Inoltre, hanno scoperto, ed ecco il punto critico, che l’assistenzialismo è molto più adatto ai sistemi politici d’una società democratica.

La nazionalizzazione incontrò l’opposizione popolare, ma i collettivisti sono sicuri che lo Stato assistenziale può essere fondato col semplice espediente di comperare i voti con promesse di beneficenze federali gratuite: case “gratis”, sussidi scolastici “gratis”, ospedali “gratis”, pensioni “gratis” e cosi via… Il fatto che essi non sbaglino in questa valutazione, si può desumere dalla quota del bilancio federale già assegnata all’assistenza sociale, che è inferiore soltanto a quella per difesa nazionale (1).

Questo cambiamento strategico non mi piace. Il socialismo ottenuto attraverso l’assistenza sociale è molto più pericoloso per la libertà del socialismo ottenuto attraverso la nazionalizzazione; precisamente perché è più difficile da combattere. I mali della nazionalizzazione sono evidenti e immediati. I mali dell’assistenzialismo sono velati e tendono a essere rimandati.

La gente può capire quali conseguenze possa avere, per esempio, il trasferire la proprietà dell’industria dell’acciaio allo Stato; e si può star sicuri che si opporrà a una simile proposta. Ma se il Governo aumenta il suo contributo al programma dell’“Assistenza Pubblica”, tutt’al più borbotteremo per le eccessive spese pubbliche. L’effetto dell’assistenzialismo sullo Stato si sentirà più tardi, quando i suoi beneficiari ne saranno diventati le vittime, quando la dipendenza dal Governo si sarà trasformata in schiavitù e sarà troppo tardi per aprire il carcere.

Un elemento molto più importante è il forte richiamo che l’assistenzialismo esercita sulle emozioni di tanti elettori, e le conseguenti tentazioni che offre all’uomo politico medio. È difficile, come abbiamo veduto, difendere la causa della proprietà statale. È diverso se andiamo a impelagarci nella retorica umanitaria.

Quanto è facile arrivare agli elettori con accorate suppliche di aiutare i bisognosi! E quanto è difficile, per i Conservatori, resistere a queste esigenze senza apparire uomini incalliti e sprezzanti delle condizioni in cui si trovano i cittadini meno fortunati! Qui, forse, meglio che altrove, si vede tutto l’insuccesso della propaganda conservatrice.

Lo so, perché mi son sentito spesso porre queste domande. Non avete nessun senso dei doveri sociali?, domandano i Liberali. Non avete nessuna preoccupazione dei disoccupati? dei malati privi di cure mediche? dei bambini nelle scuole sovraffollate? Rimanete indifferente ai problemi dei vecchi e degli inabili? Siete nemico del benessere dell’umanità?

La risposta a tutte queste domande, naturalmente, è no. Però un semplice no non basta. Sono certo che il Conservatorismo è liquidato se i Conservatori non sapranno dimostrare e comunicare la differenza che passa tra il preoccuparsi di questi problemi e il credere che spetti al Governo federale risolverli.

Le conseguenze politiche a lunga scadenza dell’assistenzialismo sono abbastanza manifeste: come abbiamo veduto, lo Stato, che è capace di trattare i suoi cittadini come pupilli e dipendenti, ha assunto un potere politico ed economico illimitato e così è capace di governare non meno assolutamente d’un qualsiasi despota orientale.

Riflettiamo, però, sulle conseguenze dell’ assistenzialismo sul singolo cittadino.

Riflettete, in primo luogo, sull’effetto dell’assistenzialismo sui donatori di questi favori governativi, non soltanto su coloro che li pagano, ma sugli elettori e sui loro rappresentanti eletti i quali decidono che si debbano conferire questi benefici. Deve tornare in qualche modo a loro vantaggio il fatto che essi si sono sforzati di provvedere ai bisogni dei loro concittadini?

Debbono essi essere elogiati e ricompensati, in un certo momento, per la loro “carità”? Non credo. Mettiamo che io voti per un provvedimento che distribuisca cure mediche gratuite: non vedo quale particolare virtù morale abbia a che fare con la mia decisione di confiscare i guadagni di X per darli a Y.

Mettiamo, però, che X approvi il programma, che abbia votato per uomini sostenitori della assistenza sociale con l’idea di aiutare il suo prossimo. Certo, la bontà del suo gesto è diminuita dal fatto che egli vota non solo perché si prenda il suo danaro, ma anche quello dei suoi concittadini, i quali possono anche pensarla diversamente sui loro doveri sociali. Perché un tale uomo, invece, non elargisce ciò che ritiene la sua giusta parte di beneficenza uma na alla carità privata?

Considerate le conseguenze su chi riceve la beneficenza, per cominciare, egli ipoteca se stesso al Governo federale. In compenso di benefici che, nella maggioranza dei casi, egli paga, egli concede al Governo il massimo del potere politico, il potere di concedergli o di negargli quanto è necessario alla vita secondo l’arbitrio del Governo.

Anche più importante, però, è l’effetto esercitato su di lui: l’eliminazione di ogni senso di responsabilità per il proprio benessere e per quello della sua famiglia e dei suoi vicini. Può darsi che non si accorga immediatamente, forse mai, del male fatto così alla sua indole. In verità, questo è uno dei grandi mali dell’assistenzialismo: che trasforma l’individuo da un essere spirituale, dignitoso, industre, con fiducia in se stesso, in una creatura animale dipendente senza che se ne renda nemmeno conto.

Nello Stato assistenziale non c’è nessun modo di evitare questo danno al carattere. I programmi dell’Assistenza Sociale inevitabilmente promuovono la convinzione che il Governo debba i benefici che conferisce all’individuo, e che l’individuo abbia il diritto di riceverli. Tali programmi sono lanciati nel paese precisamente col presupposto dell’obbligo, che il Governo avrebbe, di provvedere ai bisogni dei cittadini. È possibile che il messaggio arrivi a coloro che votano per i benefici, ma non a coloro che li ricevono? Come è diversa la beneficenza privata, dove sia chi dona sia chi riceve comprende che la carità è il prodotto della volontà umanitaria del donatore, non dei diritti di chi la riceve.

È bene, dunque, che non soffochiamo i nobili impulsi dell’umanità riducendo la beneficenza a una operazione meccanica del Governo federale. Incoraggiamo, certo, i più fortunati e che possono provvedere ai bisogni di coloro che sono sfortunati e inabili. Ma facciamo questo in un modo che promuova il benessere spirituale non meno di quello materiale dei nostri concittadini, e che tuteli la loro libertà.

Che la beneficenza sia una faccenda privata. Che sia promossa da individui e da famiglie, da Chiese, ospedali privati, organizzazioni di attività religiose, da beneficenze comunali e da altre istituzioni stabilite a questo fine. A chi osservi che alle istituzioni private potrebbero mancare i fondi necessari, ricordiamo che ogni soldo non assorbito dal Governo federale è potenzialmente disponibile per usi privati, e in più libero dalle spese generali necessarie a passare il danaro attraverso le mani della burocrazia federale. In verità, le alte imposte sulle quali l’assistenza sociale incide in così grande misura, sono il principale ostacolo alla raccolta di fondi per le beneficenze private.

E per concludere, se proprio siamo convinti che l’intervento pubblico sia necessario, se ne occupino le autorità regionali e locali che non possono accumulare un vasto potere politico così contrario alle nostre libertà.

Lo Stato Assistenziale non è affatto inevitabile, come i suoi sostenitori amano tanto ripeterci. Non v’è nessun elemento caratteristico di una economia industrializzata, o dei processi democratici di Governo, che debba per forza produrre la “società tutrice” di Tocqueville. Il nostro avvenire, come già il nostro passato, sarà come lo faremo noi.

E noi riusciremo a spezzare le trame dei collettivisti contro la libertà individuale se imprimeremo nella mente di coloro che ci governano questa sola verità: che i lati materiali e spirituali dell’uomo sono connessi; che è impossibile per lo Stato assumersi la responsabilità degli uni senza invadere la natura essenziale degli altri; che se togliamo a un uomo la responsabilità personale di provvedere ai propri bisogni materiali, gli togliamo anche la volontà e la possibilità di essere libero.

Note

(1) La cifra totale è assai più alta dei quindici miliardi notati sopra, se includiamo anche le spese assistenziali, al di fuori del dicastero della Sanità, dell’Educazione e dell’Assistenza per i progetti edilizi federali, per esempio.