La strada senza uscita dei Patti Civili di Solidarietà

unioni civiliAgenzia ZENIT  domenica, 19 febbraio 2006

Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

Dopo la Toscana, dopo le aperture di Emilia-Romagna e Calabria, dopo il progetto di legge annunciato dal Piemonte, anche Puglia e Umbria nelle scorse settimane si sono pronunciate a favore dei Patti Civili di Solidarietà. I famosi PaCS. Che sono divenuti in pochi anni il vero emblema dei “nuovi diritti civili”, garanzia di sicuro progressismo e di “libertà”.

È interessante la tendenza di certa parte del mondo culturale e politico a considerare “avanzato” tutto ciò che, in varia misura, si discosta dall’idea di “tradizione”, come se bastasse sostenere qualcosa di diverso rispetto al passato per ottenere un maggior bene, una prospettiva migliore. È in fondo il classico mito progressista che vede nel nuovo, nel “diverso” e nel “successivo”, semplicemente in quanto tali, il segno indiscutibile del progresso. Prescindendo quasi completamente dai contenuti.

Si tratta, a ben vedere, di un atteggiamento fondamentalmente acritico, anche se nel dibattito pubblico si gonfia spesso di un criticismo acceso, a tratti di visibile stizzosità. Così, prevedibilmente, c‚è andata di mezzo la famiglia, che in modo evidente riassume in sé tutte le “pecche” denunciate dai nuovi progressisti: è tradizionale, è un’istituzione naturale e ha sempre – almeno in Italia – un qualcosa di cattolico.

L’idea sottesa ai Pacs è più maliziosa di quanto possa a prima vista sembrare. Per molti, infatti, si tratta unicamente di prendere atto della molteplicità di coppie di fatto che esistono nel nostro paese, e di garantire alcuni servizi e diritti anche a questo tipo di unioni, soprattutto quando mostrano una certa stabilità e la volontà di assumersi determinati impegni, come acquistare una casa, mettere al mondo un bambino, prendersi cura dell‚altro in caso di malattia.

Sembra talora che si chieda unicamente un minimo di riconoscimento a questi “patti di solidarietà” che due persone possono stringere in virtù di un legame affettivo. E che, per converso, chi osteggia tali riconoscimenti sia un dogmatico oltranzista e ottuso che, incurante dei segni dei tempi, si accanisce nel discriminare ingiustamente categorie innocue e poco tutelate.

Eppure, se solo ci si ferma un istante a riflettere, ci si rende facilmente conto dell’irrazionalità di una legittimazione legale alle coppie di fatto. Intanto, per una questione banalmente semantica: se si chiamano “coppie di fatto” perché le si vuole trasformare per forza in coppie “di diritto”?

L’espressione coppie o unioni di fatto nasce in opposizione alle forme legalizzate e civilmente sancite di convivenza fra due persone di sesso diverso che si promettono amore e aiuto reciproci, assumendo i diritti e di doveri di tale condizione. In altre parole, nasce in opposizione al concetto di matrimonio, religioso o civile.

Chi sceglie la libera convivenza, come preludio o in sostituzione del matrimonio, lo fa proprio perché esclude – temporaneamente o permanentemente – la vita coniugale. Qualcuno, i più ideologizzati, la scelgono in aperta polemica con l‚istituto del matrimonio, che ritengono una semplice formalità, un modo esteriore e invadente di entrare nelle scelte più intime delle persone. Le nozze, in questo senso, sono considerate una violazione della privacy (perché devo dichiarare davanti a tutti quello che provo e le mie intenzioni verso questa persona?) e un gesto di appariscente vanità (perché devo fare tutta questa messinscena quando poi lo sanno tutti che l’amore può finire?).

È una scelta che, al di là del suo valore etico e delle coordinate culturali entro le quali si può spiegare, alcune persone fanno. E ciò si impone come un dato di fatto. Ma comporta una conseguenza logica: la libertà – intesa come mera assenza di vincoli – della convivenza si traduce inevitabilmente in una minore fiducia da parte della società rispetto alla stabilità dell‚unione, di cui dubitano anche gli stessi protagonisti, o comunque su cui non sono disposti a scommettere davvero. I conviventi decidono fondamentalmente di stare insieme “finché dura”, finché “si sta bene”, mentre quando la relazione “non funziona più” deve essere semplice e indolore la separazione.

Questa tipologia di persone non vuole affatto legalizzare in qualche modo la convivenza. Lo dimostrano i registri delle coppie di fatto aperti da varie regioni sul territorio nazionale: hanno suscitato un richiamo bassissimo, e delle poche coppie registrate la maggior parte si è già disciolta, e non ha voluto ripetere l’inutile esperimento con un altro partner.

Un articolo apparso sul quotidiano “Avvenire” presentava alcuni giorni fa alcuni dati a riguardo: ad Arezzo, il primo comune italiano che ha istituito il registro dieci anni fa, si sono iscritte inizialmente sette coppie, una delle quali ha trasformato l’unione in matrimonio, mentre altre cinque si sono dissolte. A quest’estate solo una coppia risultava iscritta (Un fallimento i registri nei Comuni, “Avvenire” 8 febbraio 2006, p. 13). Le cose non sono diverse in altre parti d’Italia dove è stata seguita questa via.

Quali sono dunque i diritti di cui verrebbero privati gli “uniti di fatto”? L’unico diritto che viene da essi invocato con forza è in qualche modo il diritto a non sposarsi, e per coloro che assumono tale prospettiva è del tutto superfluo costituire altre figure giuridiche di riconoscimento. Perché proprio questo intendono evitare: il pubblico riconoscimento.

Tutelare il matrimonio e la famiglia (fondata sul matrimonio) è un bene, che corrisponde anche ad un preciso interesse dello Stato, e per questa ragione lo Stato istituisce misure a favore delle famiglie. Tali misure sono peraltro oggi totalmente insoddisfacenti, con un chiaro riflesso sull’andamento demografico del nostro paese, che permane in un vistoso e inquietante calo.

Sul quotidiano canadese “National Post” del 18 febbraio è apparso un lungo articolo dai toni drammatici: descrive il preoccupante calo demografico del Canada che, secondo le proiezioni effettuate, nel 2015 potrebbe avere un indice di fertilità compreso fra 1,7 e 1,3 figli per donna, ampiamente sotto la percentuale del 2,1 indicata come sufficiente a garantire il rimpiazzo generazionale (A.M. Owens, A childless culture, “National Post”, 18 febbraio 2006). In Italia siamo da tempo fermi a 1,2.

Urgono dunque immediate politiche a favore del matrimonio, della famiglia e della natalità, che certamente si risolleverebbero se si adottassero misure adeguate. Ma per farlo occorre anche capire che cosa è una famiglia, quale sia il carico di gioie e di dolori che porta con sé, e quali siano dunque i problemi che deve quotidianamente affrontare per proseguire la sua importante opera sociale ed educativa.

La stragrande maggioranza delle coppie di fatto rifugge le responsabilità, le fatiche, i doveri, i vincoli del matrimonio, ed è perfettamente consapevole di questo fatto. È disposta a rinunciare anche alle gioie, alla sicurezza, ai diritti e ai riconoscimenti del matrimonio per il timore degli aspetti ritenuti negativi. E non volendo dare nulla, non può pretendere incoraggiamenti e agevolazioni. In un certo senso, si è già auto-agevolata.

Determinate agevolazioni – troppo poche, come si è detto – hanno senso precisamente perché si rivolgono alle famiglie fondate sul matrimonio, eterosessuale e monogamico. Altrimenti non hanno alcun senso sociale. Possono al massimo fornire benefici e interessi individuali. Ma non ha senso battersi per interessi privati come fossero appunto “diritti civili”.

Il riconoscimento di specifici diritti a chi si sposa, invece, è più che ovvio. La società deve molto alle famiglie fondate sul matrimonio; anzi, la sua stessa vita è legata alla loro sopravvivenza. Chi si unisce in un legame matrimoniale, infatti, è generalmente disposto a mettere al mondo dei figli e ad educarli fino a quando avranno preso il loro posto nella società. Le famiglie insomma alimentano la società e costituiscono le sue stesse fondamenta.

Il tipo di mutuo aiuto che i membri della famiglia assumono gli uni verso gli altri implica una struttura dinamica in cui è possibile per le nuove generazioni apprendere il valore del lavoro, i fondamenti dell‚economia, il senso della progettualità, e molte altre cose. In altre parole, rappresenta il luogo ideale in cui si acquisiscono naturalmente le virtù necessarie ad una sana convivenza civile.

Né vale obiettare che al giorno d’oggi le famiglie sono deboli, si dividono, si trasformano in luoghi violenti e addirittura patogeni, in cui si consumano azioni aberranti. Queste osservazioni richiamano unicamente il bisogno di formare e rafforzare le famiglie, di aiutarle a crescere, ma non ne modificano l‚essenza e la fondamentale missione. La famiglia fondata sul matrimonio, pur traballante e piena di storture, continua a rappresentare il luogo proprio in cui ogni essere umano dovrebbe – e vorrebbe – nascere e crescere.

Se dunque questa è la situazione delle famiglie, che “servono” alla società civile, perché questa morbosa insistenza sul rafforzamento dei PaCS, fino al punto da equipararli a veri e propri nuclei famigliari, al di là degli stessi desideri dei “conviventi”? E‚ sempre più chiaro che vi sono al fondo intenzioni più profonde, di radicale fraintendimento e di suicidario attacco all’idea di famiglia.

Lo dimostra una sorprendente caratteristica dei PaCS, ovvero il riconoscimento del “ripudio”. Per ripudio si intende l‚allontanamento di un coniuge in una sorta di “divorzio unilaterale”. Ebbene, secondo il progetto della regione Umbria “l’unione di fatto è sciolta anche per volontà di un solo contraente”. Come osserva Assuntina Morresi, “davanti a un ufficiale di stato civile, senza testimoni stavolta, è sufficiente che si presenti, di nuovo, anche uno solo dei due per dichiarare la propria decisione. L’unione è sciolta. Un divorzio breve per un quasi matrimonio” (A. Morresi, Pacs, l’Umbria tenta la fuga in avanti, “Avvenire”, 8 febbraio 2006, p. 13).

Molto acutamente, l’arcivescovo di Perugia, S.E. Mons. Giuseppe Chiaretti, e prima di lui l’arcivescovo di Lecce, S.E. Mons. Cosmo Francesco Ruppi, hanno parlato di un insidioso cavallo di Troia, per far passare ciò che la società non vuole. Ovvero il riconoscimento delle coppie omosessuali e l’equiparazione del loro legame al matrimonio. In nessuna legge o progetto di legge regionale sui PaCS, infatti, si escludono mai le unioni “gay”.

Ufficialmente per evitare “ogni discriminazione”. Ma senza tenere conto che, in realtà, le differenze esistono: esistono in natura, esistono nelle scelte individuali, esistono nel cuore degli uomini. Non si può non tenerne conto, e agire nell’indifferenza più completa. Occorre ovviamente combattere le ingiuste discriminazioni, e tuttavia, come si è visto, non pare che una unione “libera” possa mai avere le stesse caratteristiche e la stessa forma giuridica di un matrimonio, nemmeno quando sia eterosessuale e dunque più simile ad una struttura familiare naturale e “socialmente utile”. Nelle unioni fra omosessuali la lontananza è ancora maggiore, e costituisce uno stravolgimento totale del matrimonio stesso.

Il messaggio dei PaCS è dunque chiaro, e la gente lo deve sapere: considerare indifferentemente ogni tipo di unione, anche fra persone dello stesso sesso, equivale ad affermare che non esiste più alcun matrimonio. La metodologia dei PaCS è quella di configurare uno sconfinato e contorto viluppo di “unioni”, le più improbabili, al semplice scopo di indebolire e vanificare la forza e la tenacia delle famiglie, quelle vere, reali, quelle su cui la gente comune ancora sa di poter contare per potere continuare a guardare con fiducia all’avvenire. ZI06021906