Rosetta e Giovanni Gheddo

Piero  Gheddo

ROSETTA E GIOVANNI GHEDDO

Sposi secondo il cuore di Dio

Pubblicazione per l’ inizio  della causa di beatificazione  dei Servi di Dio Rosetta e Giovanni

Tronzano (Vercelli) – 18 febbraio 2006

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L’AFFASCINANTE AVVENTURA DI ROSETTA E GIOVANNI

Il più bel ricordo che ho di mamma Rosetta (morta che avevo cinque anni e mezzo), è quando alla sera inginocchiati con lei davanti alla bella immagine di Maria che c’era in camera da letto, noi bambini dicevamo le “preghiere della buona notte”; se papà Giovanni era in casa, anche lui pregava con noi. Noi tre fratelli Piero, Franco e Mario, siamo cresciuti in una famiglia che ci ha trasmesso non solo la fede, ma l’amore alla preghiera e il senso profondo della Provvidenza, come ripeteva spesso papà Giovanni: “Siamo sempre nelle mani di Dio”. Questo ci ha dato sicurezza, serenità e gioia di vivere pur nelle prove e nelle sofferenze.

Ricordo ancora (sono ricordi di un bambino di cinque anni!) che la mamma ci educava ad essere generosi con gli altri. Quando i parenti ci portavano dei regalini e ricevevamo i “doni di Gesù Bambino” a Natale o della Befana all’Epifania, mamma Rosetta diceva: “Metà la dividete fra voi e l’altra metà la portiamo ai bambini della famiglia…” che era più povera di noi; poi salivamo la scala esterna della loro abitazione ed eravamo accolti con gioia da quegli altri bambini nostri amichetti.

Un fatto che abbiamo spesso ricordato noi tre fratelli: l’educazione pratica che si riceve nell’infanzia non si dimentica e orienta la vita molto più di tanti discorsi e raccomandazioni. Ecco perché la famiglia “è il pilastro fondamentale della società italiana” ha detto il presidente Ciampi. Celebrando a Tronzano la mia prima Santa Messa il 28 giugno 1953, il vecchio parroco Don Giovanni Ravetti mi ha detto: “Oggi il Signore ha esaudito la preghiera che tuo papà e tua mamma hanno fatto quando si sono sposati nel 1928: che il Signore concedesse loro la grazia di avere almeno un figlio sacerdote o una figlia suora”. Dopo 52 anni di sacerdozio, posso dire che fare il prete è bello e ancora ringrazio il Signore di aver avuto Rosetta e Giovanni come genitori!

Rosetta era “una insegnante nata” 

Rosetta Franzi nasce il 3 dicembre 1902 in una famiglia profondamente religiosa. Il padre Francesco era stato nel seminario diocesano e poi dai salesiani a Torino. Voleva diventare sacerdote, ma durante gli anni di liceo, come unico figlio maschio, dovette tornare a casa per l’improvvisa morte del padre e sposò a Crova (Vercelli) Maria Roviera, anche lei donna religiosissima e dedicata ai poveri, agli ammalati. Hanno quattro figlie: Fiorenza (1900), Rosetta (1902), Piera (1907) ed Emma (1913), l’unica ancora viva che porta bene i suoi 93 anni a Bianzè (Vercelli).

Rosetta studia e diventa maestra elementare ma papà Francesco, che guadagnava bene facendo il mediatore di terreni, di granaglie e di animali, non le permette di insegnare: “A mia moglie e alle mie figlie ci penso io, diceva, se tu lavori rubi il posto a un’altra”. Ma Rosetta è “un’insegnante nata” e a Crova riprende l’asilo infantile fondato all’inizio del 1900 da una sua cugina ormai anziana: si impegna a “tirar su i bambini, figli di contadini che non erano mai andati a scuola” e porta a Crova novità che non avevano mai visto: teatrini e recite, danze, ginnastica, sfilate al passo; educa i bambini a cantare ed è ancora ricordata perché al pomeriggio insegnava a giovani e adulti analfabeti a scrivere e far di conto come in prima elementare. Tutto in modo gratuito.

A Crova c’erano le prime quattro classi elementari e Rosetta si prestava volentieri a sostituire le insegnanti ammalate. Aveva una grande pazienza e dolcezza: “Era dolce ma decisa, sapeva convincere anche i ragazzi più duri e svogliati; in un paese povero e di contadini come Crova a quel tempo, lei stimolava a studiare, a leggere”.

Rosetta, militante dell’Azione cattolica, andava a Messa tutti i giorni, era catechista della parrocchia e insegnava i canti sacri, dirigeva le donne nelle processioni attraverso il paese. Tutte le sere i Franzi recitavano il Rosario in famiglia, diretto da papà Francesco, che cantava le litanie: aveva una bella voce e cantava anche in chiesa; poi leggeva il giornale e lo commentava alle sue donne: i Franzi erano l’unica famiglia che riceveva un quotidiano a Crova (il giorno dopo lo portavano al parroco).

La sorella Emma testimonia che Rosetta faceva novene per ottenere grazie, accompagnandole con fioretti, ad esempio andando a piedi tutti i giorni a Messa nella cappella del Tabalino a tre chilometri da Crova, mortificandosi nel cibo. A 26 anni Rosetta si fidanza con Giovanni Gheddo, geometra del vicino paese di Tronzano.

Era una intelligente e bella ragazza, aveva avuto altri pretendenti fra i quali il barone Mazzonis di Torino, che aveva conosciuto in casa della sorella Fiorenza, sposata con Arturo Lancia, cugino di Vincenzo fondatore della ditta omonima e direttore generale dell’azienda. Aveva accettato due-tre volte il suo invito ad andare con lui al Teatro Regio per l’Opera. Mazzonis la corteggiava e le aveva fatto discorsi di matrimonio che Rosetta non gradiva: il Signore la riservava per un uomo come papà Giovanni, semplice e molto religioso come lei.

Papà Giovanni nella prima guerra mondiale

Giovanni nasce da Pietro Gheddo e Anna Campasso (l’indimenticabile “nonna Neta”) il 22 aprile 1900 a Viancino (frazione di Crova) e pochi anni dopo la famiglia si trasferisce a Tronzano, dove Pietro prende in gestione un negozietto con annessa rivendita di sale e tabacchi. Aveva fatto tutta la vita il “fattore”, gestendo la cascina Cercassa di Viancino, per conto del proprietario conte Baudi di Selve che abitava a Torino. In quella cascina lavorava già suo padre, il mio trisnonno Giuseppe, dal 1840 circa. Ma all’inizio del 1900 il giovane proprietario pretende che Pietro Gheddo versi una cauzione per continuare in quel lavoro.

Nonno Pietro aveva avuto dalla moglie Anna dieci figli e non aveva nulla da parte. Interviene il parroco di Viancino dicendo al proprietario che la prova dell’onestà del Gheddo sta nel fatto che la sua famiglia, dopo più di mezzo secolo di lavoro nella Cercassa, è rimasta povera. Ma il giovane conte è irremovibile e licenzia nonno Pietro, il quale prende in gestione una trattoria e nel 1907 si trasferisce a Tronzano dove già c’era una sua sorella.

La famiglia Gheddo si sposta da Viancino a Tronzano per un motivo che oggi, dopo meno di un secolo, può sembrare incredibile. Nel 1907 c’erano i primi traballanti aerei e uno di questi atterra in un campo vicino a Viancino. I viancinesi corrono a vedere. Il pilota sta bene ma ha bisogno del bagno e va in paese con tutta la gente dietro. A Viancino gli dicono che nessuna delle case ha un gabinetto, nemmeno l’unica trattoria.

Allora il pilota scrive un rapporto al Prefetto di Vercelli, lamentandosi dell’arretratezza di quel paesino e il Prefetto firma un decreto col quale impone a Pietro Gheddo (mio nonno!) di costruire un gabinetto nella trattoria, per dare un tono di modernità al paese. Il nonno ha venduto la casa per 8.000 lire! Allora, avere il gabinetto in casa era impensabile e il nonno diceva di non voler spendere soldi per un qualcosa che non serviva  a nessuno!

Pochi anni dopo, il giovane conte Baudi di Selve capisce l’errore che ha fatto e offre alla famiglia Gheddo di far studiare a sue spese due dei loro dieci figli. I due in età giusta sono la zia Adelaide (nata nel 1897) che diventa maestra elementare e incomincia a insegnare nel 1914 (a 17 anni), con il mensile di Lire 67,08 centesimi; e papà Giovanni che diventa geometra. Ma nell’ultimo anno di studio, 1918, infuria la prima guerra mondiale e dopo la ritirata di Caporetto (ottobre-novembre 1917) vengono richiamati alle armi anche i giovani nati nel 1900.

Papà riceve il diploma di geometra senza esami finali ed è mandato a custodire una polveriera “in zona di guerra”. Era un sott’ufficiale di 18 anni, i soldati erano tutti più anziani di lui e tornavano dalla prima linea stanchi, ammalati, depressi. Papà non aveva nulla da fare, se non sorvegliare che si mantenesse ordine e disciplina.

Di notte faceva la ronda per controllare che tutto fosse a posto. Una notte si accorge che due soldati di guardia dormono. Pensa: se li denunzio, questi poveri diavoli vanno come minimo in prigione, ma possono anche essere condannati alla fucilazione. Allora prende una manciata di ghiaia e la lancia contro la porta dietro a cui dormivano i due. Si svegliano, poi è arrivato lui e li ha trovati svegli. Se capivano che non li aveva denunziati, era pericoloso per lui: poteva finire in corte marziale.

Nel novembre 1918, terminata la guerra, papà Giovanni entra nella Regia Accademia Militare di Torino per frequentare il corso allievi ufficiali che finisce nell’aprile 1919: nominato sottotenente, è inviato in “zona armistizio” e collocato in congedo illimitato il 31 agosto 1922. Ma a Tronzano non poteva ancora aprire uno studio di geometra: gli mancava qualsiasi esperienza professionale. Allora va dal geometra Felice Mezzano a Castellamonte (Ivrea) a fare pratica: una quarantina di chilometri in bicicletta il lunedì, tornando al sabato a Tronzano.

Nel 1925 si dedica alla sua professione e apre un ufficio nella casa della nonna Neta, di zia Gina e di zia Adelaide con le quali viveva. Il lavoro scarseggiava e lui non era ancora conosciuto, ma il 30 maggio 1926 è eletto segretario del “Distretto irriguo di Tronzano Vercellese”, con 13 voti a favore, contro i 3 ottenuti da un altro geometra. L’8 marzo 1927 è eletto anche cassiere, con 14 voti su 16 e nel settembre 1927 si fidanza con Rosetta Franzi.  

Fidanzati secondo la tradizione

Non è facile per noi immaginare come Rosetta e Giovanni si sono incontrati e fidanzati, quando tra loro è scoccata la scintilla dell’attrazione e dell’amore: come hanno coltivato questo amore prima del matrimonio? Allora i fidanzati non potevano incontrarsi da soli, si parlavano alla presenza dei genitori o di un famigliare adulto, si davano del lei, si scrivevano biglietti e letterine, si salutavano da lontano con la mano. La severa educazione cattolica ricevuta in famiglia, in parrocchia e nell’Azione cattolica, li portava a una riservatezza e un intimo pudore che oggi ci sembrano persino esagerati. Ma siamo in errore: fra Rosetta e Giovanni è nato un matrimonio d’amore esemplare, meraviglioso.

“Erano una coppia straordinaria” ricorda chi li ha conosciuti. Zia Emma racconta come Giovanni ha conosciuto Rosetta: “Giovanni passava da Crova in bicicletta per andare nelle cascine e vedeva questa maestrina che andava a Messa e all’asilo, gli piaceva e si è informato su chi era. Avrebbe voluto parlarle, ma non sapeva come fare.

Allora è andato ad aspettare il papà Francesco a San Germano, dove arrivava in treno da Vercelli e poi veniva a Crova in bicicletta. Giovanni l’ha avvicinato e gli ha detto che avrebbe voluto parlare con Rosetta. Papà Francesco l’ha invitato ad andare a trovarli a Crova e poi ha parlato con Rosetta, chiedendole se Giovanni le piaceva. Rosetta non se l’aspettava, si è messa a piangere e ha detto: “Ma io non ho mai pensato di sposarmi”.

Il papà le ha detto che Giovanni era un bel partito, sia come professionista che come uomo e come famiglia. E Rosetta ha detto: “Mah, fammelo conoscere”. Così Giovanni è andato e si è presentato a Rosetta, sempre alla presenza di papà Francesco, perché allora non potevano stare da soli. Durante il fidanzamento, Giovanni e Rosetta si parlavano seduti sul sofà alla presenza della nonna Maria.

Forse i due si incontravano anche fuori casa, di nascosto? Zia Emma è sicura di no, “la nostra educazione religiosa e morale non lo permetteva” dice convinta. Eppure, cara mamma Rosetta e caro papà Giovanni, vi siete conosciuti e amati davvero, siete cresciuti volendovi bene fino a sposarvi giurandovi fedeltà per tutta la vita, con piena intesa in tutto; avete fondato una bella famiglia di cui noi figli abbiamo goduto l’atmosfera di amore, di gioia, di serenità.

Certo, oggi non si può concludere: torniamo a quei tempi! Ma il vostro fidanzamento, come quello di tantissimi altri genitori di quel tempo, è anche oggi esemplare, almeno nello spirito col quale avete affrontato l’avventura del matrimonio: con l’amore sincero e unico (cioè per tutta la vita), la preghiera e la fiducia in Dio, l’obbedienza alla sua legge, prima e dopo il matrimonio!

Papà ha affittato un appartamento di quattro stanze in via Roma a Tronzano, in cui siamo nati e cresciuti noi tre fratelli. Però in paese si diceva che quella casa, appartenuta ad un avvocato massone che si era ucciso poco tempo prima, era invasa dagli spiriti e di notte si sentiva camminare sul pavimento delle stanze, che era in “parquet” (palchetto) di legno. Non ci voleva andare nessuno e alcuni che erano andati, ne erano scappati. All’inizio Rosetta aveva paura, poi hanno chiamato il prete che ha benedetto la casa e non si sono più sentiti rumori strani.

Giovanni spiega a Rosetta chi è il geometra

Nel tempo del fidanzamento, Giovanni manda a Rosetta un dattiloscritto: “La professione del perito agrimensore (geometra)”, con una dedica: “Alla mia carissima Rosa perché legga e poi bruci”. Data: “16 settembre 1927”, meno di un anno prima del matrimonio. Caro papà, ma perché mai volevi che la tua cara Rosetta bruciasse questo testo così bello? Meno male che la mamma ha avuto più buon senso di te e ci ha conservato questo meraviglioso documento del suo fidanzato, che poi è giunto quasi miracolosamente fino a noi!

E’ commovente pensare che papà Giovanni abbia pensato di presentare la sua professione alla fidanzata, maestra elementare, con la quale sapeva di poter condividere, oltre all’amore, la fede e pensava di poter fondare con lei una famiglia cristiana, secondo il cuore di Dio. Ce la mette tutta, il caro papà Giovanni, per esaltare la sua professione e naturalmente anche se stesso: parlando del geometra in modo impersonale, parla dei suoi studi, delle sue prime esperienze, sentimenti, prospettive di vita. Ecco perché dice a Rosetta: “leggi e brucia”; anzi, “legga e bruci” perché allora i fidanzati si davano del lei! Caro paparino innamorato, come sei simpatico in questo tuo atteggiamento!

Il testo è interessante per due motivi. Giovanni presenta la professione di geometra come un servizio importante alla gente, che gli permetterà di mantenere la famiglia, anche se al momento guadagna ancora poco. Rosetta è insegnante elementare, la sua competenza e passione sono le lettere, la letteratura, la poesia. Lui invece è un matematico, un “agrimensore”, volgarmente detto geometra. Ha “il bernoccolo della matematica” e sa che “con l’esperienza personale acquisterà fiducia nel proprio valore e ciò gli guadagnerà la stima e la fiducia dei clienti”.

Secondo motivo: Giovanni dice che anche facendo il geometra ha molte possibilità di testimoniare la sua fede in Gesù Cristo e l’onestà che la fede gli ispira, favorendo gli umili, i poveri; e racconta a Rosetta alcuni esempi della sua vita da scapolo che dimostrano questo. Nella sua professione, scrive che pensava a come “essere sempre gradito a Dio” e a “fare del bene” e precisa che vuol salire “la faticosa scala della perfezione”! Papà, sei straordinario, in poche pagine toccanti, riveli tutto te stesso, come giovane d’Azione cattolica. Volevi affermare il tuo orientamento fondamentale, spendere la vita per Dio e il bene del prossimo!

A 27 anni avevi un “progetto di vita” ben preciso e cercavi una donna che ti fosse compagna nell’amore e nel cammino di fede. Come poteva Rosetta non volerti bene? Rosetta e Giovanni si sposano a Crova il 16 giugno 1928 e chiedono a Dio la grazia di avere molti figli e che almeno uno dei quali diventasse sacerdote o suora; a parenti e amici dicevano di volere 12 figli!

Papà in quel momento guadagnava poco, la mamma non aveva mai percepito uno stipendio. E allora? Non importa, il loro era veramente un matrimonio di amore e volevano vivere secondo la legge di Dio; e poi avevano un’assoluta fede nella Provvidenza: da qui veniva a mamma e papà quella fiducia, serenità e coraggio che, umanamente parlando secondo la mentalità del nostro tempo, non erano giustificati.

Il viaggio di nozze lo fanno a Napoli, ma prima passano tre giorni nel Santuario della Madonna d’Oropa, veneratissima a Tronzano e Crova. Papà diceva che io ero “figlio della Madonna d’Oropa”, mentre mamma Rosetta ha raccontato a sua mamma Maria che, di comune accordo, la prima notte di nozze l’avevano passata dormendo separati per offrire il loro amore a Dio e chiedere la sua benedizione.

La notizia, che mi ha raccontato zia Adelaide quand’ero già sacerdote, mi è stata confermata dalla zia Emma, la quale aveva sentito da sua mamma che già prima del matrimonio i due fidanzati avevano fatto questo “voto”, pregando assieme per avere la forza di adempierlo.

Solo sei anni di matrimonio (1928-1934)

Rosetta e Giovanni sono stati assieme a Tronzano poco più di sei anni: dal luglio 1928 al 26 ottobre 1936, quando Rosetta muore di polmonite e per il parto prematuro di due gemelli. Come sono stati i sei anni di matrimonio? Erano una coppia del tutto normale, una vita ordinaria con una grande fede e amore al prossimo, che suscitava l’ammirazione di tutti.

Molti i testimoni interrogati a Tronzano e fra i parenti sul loro matrimonio (si veda il volume “Questi santi genitori”). Ricordano che si volevano veramente bene e non hanno mai avuto notizia di bisticci o divisioni fra Rosetta e Giovanni.  Nonna Neta ci ha detto più volte che papà ha sopportato con grande forza la croce di rimanere vedovo a 34 anni con tre bambini piccoli e non ha voluto sposarsi di nuovo, sebbene non gli mancassero le occasioni. “Ma, diceva, era talmente innamorato di vostra madre, che le è rimasto fedele anche dopo la sua morte prematura”.

Noi tre fratelli siamo stati allevati dalla nonna e dalla zia Adelaide: la prima ci faceva da mamma, la seconda aveva un carattere forte e spesso, specie dopo il 1940 quando il papà è andato in guerra, ha preso idealmente il suo posto. Mamma Rosetta è ricordata a Tronzano da alcune testimoni, che hanno parlato della sua generosità verso i poveri.

La signora Vittoria Stellone (nata nel 1920) frequentava la casa di mamma Rosetta e giocava con noi bambini in cortile. Mi ha detto: “Ricordo che a volte, mentre ero con tua mamma in casa, battevano alla porta e io andavo ad aprire. C’era un uomo anziano, povero, stracciato. Tua mamma lo portava in casa e gli dava un aiuto o da mangiare, non andava mai via a mani vuote.

C’erano di quelli che venivano sempre. Ricordo uno di Crova, che forse la conosceva di quando era ragazza e veniva spesso. Era buona con tutti. Io so che faceva tanta elemosina, a volte era due o tre poveri di seguito e lei riceveva e aiutava tutti”.

La signora Libera Bosco (nata nel 1917) mi ha detto che “Rosetta è stata per me un modello di donna e di mamma che avrei voluto essere anch’io. Tua mamma è stata l’inizio della mia vita spirituale. C’erano anche le suore, i miei familiari, don Ravetti e altri; ma nessuno ha avuto nella mia vita un influsso più grande di Rosetta Gheddo. Mi ha inculcato la fiducia nel Sacro Cuore, diceva spesso: ‘Affidati al Sacro Cuore’. Poi sono diventata zelatrice dell’Apostolato della Preghiera… Tua mamma mi ha orientata da adolescente e non l’ho mai dimenticata… Era bella, gentile, serena e poi era buona, buona, buona, aveva una bontà fuori del normale e uno spirito profondamente religioso che colpiva… Aiutava tutti quelli che le chiedevano qualcosa. Nessuno andava da lei senza ricevere un aiuto. Io prego tua mamma perché ripeto che è stata all’inizio della mia vita spirituale e certamente dal cielo mi protegge”.

Mamma Rosetta era catechista in parrocchia, attiva nell’Azione cattolica, tutte le mattine andava a Messa con papà Giovanni, per quanto le permettevano le continue gravidanze e i figli piccoli. A Tronzano c’era a quel tempo una “ragazza madre” convivente con un uomo che non era suo marito.

La signora Giulia Bolognini diceva al fratello Mario che “a Tronzano c’era un po’ di ostracismo nei suoi confronti, non tutti parlavano con questa ragazza… Mamma Rosetta ha incominciato a frequentarla e a parlare con lei come con qualsiasi altra persona, l’ha aiutata… Io ho imparato che l’amore al prossimo va al di là delle questioni morali: io ti voglio bene, a prescindere dalla situazione in cui ti trovi. Rosetta ha testimoniato a me e a tantissime altre persone cosa vuol dire amare il nostro prossimo”.

A Tronzano papà Giovanni è ricordato come cristiano autentico, “geometra dei poveri” e conciliatore (o “paciere”) quando c’era una lite. Martino Pasteris (classe 1930) testimonia che suo papà e suo zio hanno fortemente bisticciato per dividersi i terreni lasciati dal padre. Hanno chiamato papà Giovanni, il quale ha studiato la situazione, poi ha convocato le due famiglie, presenti anche i figli, e è riuscito a sistemare le cose.

Martino ricorda: “Tuo papà non era uno che gridava o sbraitava. Era sempre calmo e sereno, però aveva l’autorità morale e professionale per essere ascoltato e seguito. Metteva sempre in risalto i valori morali e spirituali: l’unità della famiglia, la fiducia nell’aiuto della Provvidenza. Partiva da quello e poi scendeva ai problemi concreti. A noi ha detto: ‘Matocc (ragazzi), ci sono dei valori che non sono solo quelli materiali. Voi discutete di terre, di soldi, ma c’è anche la famiglia e la pace in famiglia. Ricordatevi che qui avete due belle famiglie, siete qui con le vostre mogli e i vostri figli. Cosa volete di più? Dovete aver fiducia nella Provvidenza. Io ho perso la moglie e ho tre figli piccoli, non ho nessuna proprietà ma solo il mio lavoro: eppure vado bene, la Provvidenza mi aiuta. Voi bisticciate per pochi  metri di terra quando la cosa più importante è di volervi bene. Ricordatevi che sopra di noi c’è il Padre che sta nei Cieli e che un giorno ci chiamerà tutti: è a Lui che dobbiamo pensare e obbedire’. Mia mamma era molto religiosa e metteva immagini sacre e crocifissi dappertutto e in sala ce n’era uno grande. Il geometra Gheddo si è girato verso quel Crocifisso e ha detto: ‘Guardate, Gesù è morto per noi per portare la pace e perché ci vogliamo bene’”.

Martino aggiunge che papà Giovanni ha poi proposto una soluzione che i due fratelli hanno accettato. “In seguito mio padre diceva in famiglia: ‘Ma sapete che il geometra Gheddo è proprio un santo?’. Io posso assicurarti che mio papà e mio zio hanno smesso di litigare. Una cosa incredibile, perché ricordo che prima litigavano per tutto, erano sempre l’uno contro l’altro. Da allora sono andati d’accordo e nella mia famiglia abbiamo spesso ricordato quel giorno. Il geometra Gheddo ha faticato molto prima di giungere ad una conclusione. Quando gli hanno chiesto cosa voleva come compenso, ha detto una cifra molto bassa, che ha stupito mio padre e mio zio, ma lui diceva che bastava così, perché voleva essere onesto e giusto. Mio padre poi diceva, anche anni dopo: ‘Ma pensa, con tutto il lavoro che ha fatto, ha chiesto una stupidaggine’. E aggiungeva che se avesse preso qualsiasi altro professionista, avrebbe chiesto molto di più”.

Morte improvvisa di mamma Rosetta (1934)

Mamma Rosetta muore a 31 anni. Soffriva molto ma aveva il volto sorridente. Le sue ultime parole: “Non preoccupatevi, è la fine. Io vado in Paradiso. Sia fatta la volontà di Dio”. Una donna realizzata nonostante le sofferenze e la tristezza di dover lasciare il marito e i figli piccoli. Cara mamma, sei volata davvero in Paradiso.

E’ la bella immagine che abbiamo di te noi tuoi figli, che ti ricordiamo così poco quando eri su questa terra. In quel momento nessuno ti ha vista volare in Cielo, ma tutta la tua vita è una premessa che ha quell’unica, logica conseguenza. “Ciascuno di noi raccoglie quello che ha seminato. Chi semina nell’egoismo, raccoglie morte. Chi vive nello Spirito di Dio, raccoglie vita eterna” (Lettera ai Galati, 6, 7-8).

Senza la fede nella vita eterna, la morte è il fatto più crudele che si possa immaginare, più incomprensibile, imbarazzante, assurdo. A tutto c’è rimedio, ma la morte è l’atto finale inevitabile, a cui non si può rimediare. Ecco perché il mondo rimuove il pensiero della morte e quando si partecipa ad un funerale non si sa più come comportarsi, cosa dire, cosa fare: si aspetta solo che tutto finisca. Gli antichi latini dicevano: “Talis vita finis ita”: “come uno ha vissuto, così muore”, perché la morte rivela chiaramente le profondità nascoste della persona, è, come dire, il bilancio, l’espressione finale di un’esistenza.

La fede in Dio e in Cristo rendono la morte serena, anche se dolorosa: non è la fine di tutto, ma l’inizio di una vita nuova, apre le porte del Cielo, della vita eterna; non un momento di disperazione e di tristezza, ma anzi di gioia perché sappiamo che Dio Padre misericordioso ci aspetta. Il 26 ottobre 1934 Rosetta Franzi muore di polmonite e di parto con i due gemelli di cinque mesi: le mancava poco più d’un mese per compiere i 32 anni e lasciava papà Giovanni con noi tre orfani, Piero, Francesco e Mario, di 5, 4 e 3 anni.

La zia Emma ricorda che eravamo tutti e tre al funerale, tenendoci per mano e facevamo tenerezza. Mario aveva solo tre anni e veniva dietro al feretro della mamma trotterellando o portato in braccio dal papà e dalle zie. Papà Giovanni era distrutto dal dolore: aveva avuto la gioia di vivere con Rosetta poco più di sei anni e adesso si ritrovava, a 34 anni, solo con tre bambini piccoli da allevare.

I progetti comuni di vita maturati assieme nell’amore e la speranza di avere dodici figli erano già sfumati! Povero papà, in quei giorni il Signore ha duramente provato la tua fede. Non riusciremo mai a capire lo strazio del cuore e della mente che hai provato, potevi perdere la fede o il ben dell’intelletto: i grandi dolori possono generare l’alienazione mentale, la pazzia.

Il Signore, Padre sempre amoroso, ti ha sostenuto, non ha permesso che un dolore così struggente ti distruggesse. Anzi, quando prendo in mano il ricordino che hai preparato per mamma Rosetta in occasione della sua scomparsa, non riesco a trattenere le lacrime.

Ecco il breve saluto alla tua adorata moglie e compagna di gioie e dolori della vita:  “Alla pia memoria di Rosetta Gheddo nata Franzi, passata dall’esilio alla patria terrena in età di 31 anni – Tronzano vercellese, 26 novembre 1934.  “Riposa in pace, Rosetta dilettissima, nella pace di quel Gesù che hai tanto amato e servito fedelmente, tra dolori e afflizioni, nella tua breve vita terrena. “Prega per me, perché nell’adempimento di tutti i miei doveri, prima gravi, ora gravissimi, mi conceda il buon Dio serenità, fortezza, costanza. “Veglia dal Cielo sui nostri bambini, “poveri orfanelli”, perché la tua mancanza corporale non abbia ad essere in nessun modo di danno alla loro cristiana educazione.

 “Noi intanto – nell’attesa di quel sospirato giorno che ci ricongiungerà per sempre a te nei gaudi eterni – ripetiamo con fede: “Sia fatta la santa Tua volontà, o Signore, non la nostra”.

E poi la citazione molto bella da Giobbe (1, 21): “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Come è piaciuto a Lui, così è avvenuto.  Sia benedetto il nome del Signore”. Papà Giovanni è rimasto con un grande vuoto nell’animo, ma con una forza nuova, che veniva da Dio e gli permetteva di affrontare con serenità i suoi “gravissimi doveri”. Che grande cosa la fede, caro papà! E’ un sentimento che non si vede, non si tocca, non cambia le tragedie umane, ma dà una forza interna sovrumana, invincibile, che fa ritrovare la calma e la gioia di vivere anche in situazioni che sembrano, e a volte sono, incomprensibili, intollerabili, umanamente insopportabili.   

“Rosetta era un angelo, cantiamo la Messa degli Angeli”

A Tronzano c’è ancora chi ricorda con commozione il funerale di mamma Rosetta. La signora Eleonora Bertecco nata nel 1921, ha partecipato al funerale con la nonna ed è rimasta “colpita per l’immensità della gente, tutto il paese era venuto. E mi impressionavano i pianti di quelli che l’avevano conosciuta e per quello che dicevano, che tua mamma era veramente una santa, una persona da ricordare, da pregare, un esempio per tutti. Sono stati funerali eccezionali, una cosa incredibile. Oltre che per la bontà sua e della famiglia, anche la perdita dei due gemellini commuoveva”.

Zia Emma dice che “a Tronzano un funerale così partecipato non s’era mai visto” e aggiunge un fatto che testimonia la fama di santità di sua sorella subito dopo la morte: “Il pievano (parroco) di Crova, uno o due giorni dopo il funerale di Rosetta a Tronzano, ha celebrato la Messa di suffragio e piangevano tutti, ma ce l’avevano su con tuo papà che voleva troppi figli uno dietro l’altro.

Don Giuseppe Oglietti si è presentato all’altare con i paramenti bianchi e ha detto: ‘Io sono stato il suo confessore prima e dopo il matrimonio e l’ho confessata poco prima che morisse. Rosetta era un angelo ed è già in Paradiso. Non celebro la Messa per i defunti, ma cantiamo la Messa degli Angeli’. Che Rosetta fosse una santa lo dicevano tutti, sia a Crova che a Tronzano: sempre serena, paziente, amorevole e caritatevole con tutti, non parlava mai male di nessuno”.

L’insegnante Catterina Barberis è nata a Crova nel 1923. Ricorda anche lei la Messa in suffragio di Rosetta: “Quando è morta nel 1934, a Crova il parroco, don Oglietti, uomo severo, ha celebrato in bianco la Messa degli Angeli per il suffragio della mamma, dicendo, a noi che eravamo in chiesa, che sua mamma era in Paradiso perché era un angelo”. Oggi siamo abituati a una “liturgia creativa”; allora, per un prete all’antica come don Oglietti, il fatto era straordinario. Come straordinaria, trent’anni dopo la morte (26 aprile 1964), la riesumazione della salma di Rosetta nel cimitero di Tronzano. Erano presenti le zie Adelaide, Fiorenza e Piera con i suoi due figli, Carlo e Anna.

Quest’ultima testimonia: “Quando sono scesa nella tomba e ho visto il volto e il corpo di Rosetta, mi sono emozionata. Era bella, serena, sembrava dormisse o che fosse morta poco prima, ed erano passati trent’anni. Aveva il vestito del suo matrimonio, di colore avorio, delle belle scarpe nere; i capelli erano belli, neri, raccolti dietro come nelle sue foto. Il giorno prima, il becchino aveva già aperto l’entrata sotterranea nella tomba e le casse da riesumare, quelle del nonno Pietro morto nel 1924 e della zia Rosetta morta nel 1934: la cassa di Rosetta però era già aperta, sfondata, forse per l’umidità e i gas che si erano creati, tant’è vero che il coperchio era finito sul naso di tua mamma senza rovinarlo. Il becchino diceva che il volto di Rosetta, appena aperto il loculo che era chiuso col cemento, aveva una luce sfolgorante. I resti del nonno vennero messi in una cassettina, la cassa di Rosetta l’hanno chiusa e spostata al centro della tomba, perchè in quel lato si dovevano fare delle riparazioni per l’umidità”.  

“Troppi figli di seguito hanno indebolito Rosetta”

Sulla prematura scomparsa di mamma Rosetta c’è un’ombra che è bene rimuovere. Le sorelle di Rosetta e altri hanno detto che “troppi figli di seguito l’hanno indebolita”. Papà e mamma, venivano da famiglie con numerosa prole e quando sono nato io dicevano con orgoglio: “Questo è il primo di dodici!”. L’educazione cristiana del loro tempo era che i coniugi cristiani si vogliono bene per generare molti figli di Dio e creare una bella famiglia fondata sull’amore. Per due sposi d’Azione cattolica, una delle più alte finalità del loro matrimonio era di avere molti figli ed educarli cristianamente.

In sei anni di matrimonio mamma Rosetta ha avuto tre bambini, poi due aborti spontanei e infine il parto gemellare che (con la polmonite) l’ha portata alla tomba. Il ritmo era di uno l’anno e la mamma, dicevano le sorelle e i medici, era “sana ma delicata”: una donna fine, sensibile, gentile, non il tipo contadino di donna forte, robusta, da lavori pesanti, com’era abbastanza comune a quel tempo nei nostri villaggi di campagna. Le sorelle di Rosetta hanno detto e ripetuto che negli ultimi tempi del matrimonio la nostra mamma era indebolita e piangeva spesso: “Piange perché troppo debole” dicevano.

Chiedo a zia Emma se quello di mamma e papà è stato un matrimonio felice. Erano contenti di essersi sposati? Hanno avuti motivi di dissenso? La zia risponde: “Sì, si volevano bene, erano felici. Rosetta certo ha sofferto con quelle gravidanze, ma non è stato un matrimonio di sofferenza per la vostra mamma, è stato un matrimonio felice: si volevano proprio bene e condividevano ideali e affetti, pregavano assieme ed erano due cattolici esemplari.I due gemelli di Rosetta erano prematuri di cinque mesi e non sono sopravvissuti. Gli ultimi anni di tua mamma sono stati difficili. Era contenta di aver sposato Giovanni, si volevano bene, ma quei parti continui la indebolivano e la facevano soffrire”.

Mamma Rosetta è morta a Tronzano la notte del 26 ottobre 1936, assistita dalla sorella Fiorenza e dalla mamma Maria. Papà Giovanni era presente. Zia Emma ricorda commossa che era addolorato, piangente, ogni tanto si sedeva accanto al letto di Rosetta e parlavano fra di loro. Zia Fiorenza aveva sentito che papà Giovanni le diceva: “Guarda, Rosetta, se vivi faremo in un’altra maniera, perché tutti questi figli ti hanno indebolita”. E lei ha ripetuto parecchie volte: “Giovanni, faremo sempre la volontà di Dio”. Era il suo ritornello: fare la volontà di Dio.  

Papà non sapeva farsi pagare

Dopo la morte di mamma Rosetta, il papà con noi tre figli piccoli siamo andati ad abitare nella nuova casa con nonna Neta, zia Adelaide e zia Gina (sorella maggiore handicappata nelle gambe) sul corso Vittorio Emanuele II, la via principale del paese dove papà ha riaperto il suo studio. Mario ricorda che la nostra famiglia, nell’Italia povera di quel tempo, era di condizione economica medio-bassa.

Allora non esistevano le pensioni di anzianità e nella casa in affitto entravano lo stipendio di insegnante della zia Adelaide (1897-1985) e i guadagni di papà Giovanni col suo studio di geometra e come segretario della distribuzione delle acque nel distretto irriguo Ovest Sesia: ma il distretto irriguo pagava pochissimo, forse solo le spese vive, perché il segretario, visitando agricoltori e case coloniche, aveva  mille possibilità di trovare lavori come geometra.

Questo era vero, ma il fratello Mario ricorda:  “Spesso la zia Ade esprimeva giudizi positivi sul papà, sul suo carattere, la sua bontà, la capacità professionale, la laboriosità che lo portava sovente a disegnare o far di conto fino a tarda notte; però aggiungeva anche giudizi che lei riteneva negativi, quali il suo emettere parcelle che non corrispondevano nè al tempo impiegato per quel lavoro, nè alla sua professionalità, ma solo al suo rigore morale. Indi, proseguiva la zia con rammarico, parcelle scarse a cui corrispondeva sempre la più assoluta incapacità di farsi pagare.

La zia riferiva che, emessa la parcella, per il papà il lavoro era concluso: chi pagava subito, ‘Deo gratias’; chi pagava con ritardo (anche di anni), “pazienza”; e chi non pagava affatto? La zia sosteneva che papà seraficamente commentava: ‘Si vede che non ne ha la possibilità’”. Mario ricorda pure, sulla base di quanto diceva zia Adelaide, che papà era “segretario dell’asilo infantile e della casa di riposo degli anziani, tenuti dalle suore della Carità di Sant’Antida Thouret: ma lavorava come volontario e percepiva zero”.

La povertà della nostra famiglia (portavamo vestiti e calze rattoppati fino all’estremo limite, la carne solo la domenica, non c’erano dolci né torte) non era per nulla un ostacolo alla gioia e all’educazione umana e cristiana, anzi forse favoriva la nostra crescita equilibrata ed ottimista. Siamo stati educati al senso del risparmio, a non buttare via niente, ad accontentarci e a gioire del poco che avevamo.

Alla domenica papà ci dava il “pret”, la mancia di 20 centesimi di lira, che in estate ci permetteva di comperare un un piccolo gelato con due ostie rotonde, oppure tre caramelle. Che festa quel gelato, da leccare e gustare lentamente! E prima di acquistarlo discutevamo: io lo prendo al cioccolato, io alla vaniglia, io alla fragola… Risalendo con la memoria ai miei anni di bambino e ragazzino, ricordo l’atmosfera di fede, di amore, di gioia e di unità familiare che ci circondava.

Anche dopo la scomparsa della mamma (nel 1934) e poi quella del papà (nel 1942), noi tre orfani non abbiamo sofferto molto, perché siamo cresciuti in una famiglia unita e animata dalla fede e dalla vita cristiana. Ricordo i racconti della nonna Anna e della zia Gina (sorella maggiore di papà, anchilosata nelle gambe, ma poteva camminare) sulla vita di Gesù e della Madonna e le vite dei santi; ricordo la rettitudine, il senso del dovere e la severità ma anche la bontà di zia Adelaide (quando sono diventato sacerdote mi ha detto: “Tu sei prete e hai una missione, ma anche noi insegnanti abbiamo una missione: non basta insegnare, dobbiamo educare i ragazzi ad essere buoni cittadini”); ricordo papà che ci portava a Messa prima ogni mattino come chierichetti (alle ore 6!) e alla “Messa grande” ogni domenica.

Pregare assieme mantiene la famiglia unita

Commovente, a ripensarci, il ricordo del Rosario e delle preghiere della sera dopo cena in famiglia: eravamo tutti lì riuniti attorno al tavolo a pregare assieme, gli affetti religiosi rafforzavano l’unità della famiglia. La nostra vita di ragazzi era riscaldata e illuminata dalle celebrazioni sacre e processioni per le vie del paese, dalla frequenza quotidiana alla chiesa e all’oratorio.

Infine, non posso dimenticare i grandi sacerdoti che abbiamo avuto in paese e l’Azione cattolica che ci guidava ad un metodo di vita fondato sulla fede e impegnava noi ragazzi (e anche me giovane seminarista) alla preghiera, a fare sacrifici per poter capire la volontà di Dio e la strada che segnava a ciascuno di noi. Com’era papà Giovanni dopo la morte di mamma Rosetta? Per noi suoi figli era di sostegno e grande esempio in tutto.

Quante volte abbiamo ricordato assieme i “buoni esempi” di papà (vedi il volume “Questi santi genitori”). L’amore ai poveri ad esempio, la bontà e generosità verso tutti, l’atteggiamento ottimista e pieno di speranza che aveva in tutte le difficoltà. Era un papà che stava spesso con noi, giocava con noi, dopo la cena e il Rosario, prima che andassimo a letto e lui riprendesse a lavorare, ci interrogava sulla nostra giornata, voleva vedere i nostri quaderni.

Mario ricorda che “una domenica, alla Messa grande il parroco dal pulpito mette in guardia i fedeli poichè girano per il paese pastori protestanti che devono essere evitati e non, come ha fatto il geometra Gheddo, che li ha fatti accomodare nel suo ufficio e ascoltati. Parole di biasimo del parroco, pronunciate in pubblico, che avevano ferito la nostra cara zia presente alla Messa. L’auspicata unità dei cristiani era ancora di là da venire ma il nostro papà aveva il senso dell’accoglienza, del rispetto e della fraternità”.

Lo stesso parroco, mons. Giovanni Ravetti, molti anni dopo quando già ero sacerdote, mi raccontava che a Tronzano un uomo era stato ferito a coltellate in un litigio aperto fra due famiglie ed erano intervenuti i Carabinieri. Per un paese piccolo e tranquillo come Tronzano era un fatto straordinario, ne parlavano tutti. Il parroco aveva indetto un’ora di adorazione nella chiesa parrocchiale, per chiedere a Dio il perdono e la grazia della riconciliazione e della pace.

Papà Giovanni era già intervenuto in quelle due famiglie in lotta, era riconosciuto come “conciliatore” e “uomo di pace”. Prima di quell’ora di adorazione va a trovare il parroco don Ravetti, gli spiega i motivi dell’odio tra le due famiglie e aggiunge: “Non basta la preghiera, ci vuole anche il digiuno. Lei inviti i fedeli a rinunziare alla cena come offerta a Dio per ottenere la pace in paese, non solo nel caso presente, ma in tanti altri casi”. Mons. Ravetti mi diceva di essere rimasto edificato dalla sua proposta.

Mario ricorda l’abitudine alla mortificazione che aveva papà, a quel tempo educazione comune nelle famiglie cristiane e nell’Azione cattolica: “Papà non beveva vino, senza essere del tutto astemio, perché in alcune circostanze eccezionali beveva. La zia Adelaide mi diceva che non beveva vino per mortificazione. Così come alla sera, estate o inverno, sempre, mangiava solo una scodella di caffelatte e un po’ di pane. E la zia asseriva, perché glielo aveva detto il papà, che lo faceva per spirito di mortificazione, perché papà diceva che solo i forti sono in grado di resistere alle tentazioni; ed essere forti vuol dire fare dell’allenamento e il suo allenamento era anche questo (poi certo anche altre mortificazioni che non sappiamo e non sapremo mai)”.

Libera Bosco ricorda: “Giovanni Gheddo era chiamato ‘il geometra dei poveri’ perché aiutava tutti quelli che avevano bisogno. Non solo, ma se veniva richiesto di un lavoro dai più poveri lo faceva gratis, non voleva niente”. La signora Maria Elisabetta Costa vedova Santhià (nata nel 1917) dice che quando suo papà è morto di cancro, la mamma con le due figlie minorenni era in miseria: aveva speso tutto per curare il marito e lei era pure ammalata. Ha venduto la casa che avevano, abbastanza grande, prendendone una più piccola, che però era da riparare e sistemare, facendo un muro di cinta.

Papà Giovanni ha proposto di costruire il muro al di là del fosso demaniale, che bisognava far scorrere in un grosso tubo di cemento e ricoprire, per non perdere parte della proprietà. Ma la mamma di Maria Elisabetta non aveva soldi e papà le diceva: “Non importa, signora Costa, i soldi io li aspetto fin che potrà pagarmi, non si preoccupi, ma è uno sbaglio perdere la proprietà. E suo papà diceva che quella proposta non l’avrebbe fatta a gente facoltosa, ma con chi era povero era disposto ad aspettare il pagamento a tempo indefinito, ad aiutare. Mia mamma poi non ha accettato perché in casa non avevamo niente. Suo papà era un uomo generoso, faceva proprio gli interessi delle famiglie che lo chiamavano. A suo papà e sua mamma tutti volevano bene. Per noi ragazze era come un papà”.

Mandato in Russia per punire il suo anti-fascismo

Papà Giovanni è vissuto nel tempo del fascismo. Come si comportava di fronte al regime? In sintesi, la risposta l’ha data Mario, testimone privilegiato di quei tempi perché è vissuto con la nonna Anna e la zia Adelaide fin che questa è morta nel 1985. “Papà era chiaramente contrario al fascismo, dice Mario, anche perché uomo d’Azione cattolica. Non voleva che noi bambini mettessimo la divisa di Figlio della lupa o di Balilla, ma la zia Adelaide ce l’ha fatta mettere per non crearci dei complessi con i compagni. Metteva sempre il distintivo dell’Azione cattolica che allora era visto come fumo negli occhi e non ha mai voluto iscriversi al Partito Fascista: anche questo non era visto bene, per una personalità come lui molto in vista a Tronzano. Papà Giovanni partecipava sempre alle festività e alle processioni religiose del paese, ma non ai cortei civili. Al tempo del fascismo si facevano tanti cortei e sfilate con la banda musicale: in prima fila c’erano gli ufficiali in congedo dalla prima guerra mondiale (pochissimi a Tronzano), fra i quali papà, che era invitato ma non ci andava e il suo dissenso dava fastidio”.

Francesco Ansermino (classe 1932) mi ha testimoniato che suo padre era muratore e socialista, non si era mai iscritto al Partito Fascista e l’avevano licenziato da una ditta che impiegava muratori. Si arrangiava da solo con qualche lavoretto, ma nessuno gli dava lavoro perché era segnato a dito come “sovversivo”. Ansermino aggiunge: “Mio padre diceva sempre che negli anni trenta a Tronzano gli uomini in età di lavoro non iscritti al Partito si potevano contare sulle dita di una mano o due. Non iscriversi al Partito era da uomini coraggiosi perché voleva dire non trovare lavoro. Tuo papà lavorava perché libero professionista, godeva di una grande autorità morale ed era chiamato a portare la pace nelle famiglie. Mio papà parlava molto bene di lui, che visitava spesso nel suo ufficio perché gli procurava del lavoro come muratore. In paese a quel tempo, quando tuo papà è andato in guerra in Russia, si diceva che era per punizione di non aver voluto iscriversi al Fascio”.

Giovanni Gheddo infatti, come padre vedovo di tre figli minorenni non avrebbe dovuto per legge essere richiamato alle armi e soprattutto non andare in guerra! Tanto più che aveva più di quarant’anni, a quel tempo un’età già rispettabile, e soffriva di vari malanni. Interessante la testimonianza della signora Carla Boffetta (classe 1914), che serviva nella mensa per i poveri del Comune ed è diventata “fiduciaria delle giovani fasciste”: “Una volta è venuto da Vercelli il federale fascista e ha radunato quelli che lavoravano in Municipio e quelli che appartenevano al Fascio, tra cui anch’io. Lo posso giurare che ha detto: ‘Bisogna guardarsi dai preti e dall’Azione cattolica’. Io che ero dell’Azione cattolica ho capito che andava a finire male: mi sono consultata con mia mamma e poi mi sono ritirata con qualche scusa”.

Chiedo a Carla se queste parole le ha sentite da altri o era presente. Risponde: “No, ero presente, le ricordo bene e mi avevano scioccata. Suo papà, se era conosciuto come anti-fascista e non voleva portare il distintivo né iscriversi al Fascio, è possibile e probabile che l’abbiano mandato in Russia per punizione. Allora chi comandava faceva quel che voleva. Ricordo un personaggio del regime nel nostro paese, che in un comizio pubblico ha detto e gridato: “Io voglio, posso e comando”.

Papà Giovanni, capitano di artiglieria nella Divisione Cosseria, è stato mandato in Urss per il “Piano Barbarossa”, la folle avventura bellica di Hitler contro l’Urss iniziata nel giugno 1941 e terminata nell’estate 1943. L’Italia mussoliniana vi partecipa, nonostante il parere contrario dei generali e dei comandi militari, con due corpi di spedizione (CSIR e ARMIR), dalla fine luglio 1941 al marzo 1943, col bilancio totale di circa 280.000 uomini impiegati, di cui 90-100.000 fra morti in battaglia e prigionieri non più tornati a casa (per non parlare dei mutilati).   

Le lettere di papà dalla Russia

Il capitano Giovanni Gheddo, partito per la Russia il 10 luglio 1942, è giunto sul fronte lungo il fiume Don verso l’inizio di agosto e morto (con tutta probabilità) il 17 dicembre 1942. Il 15 dicembre i russi attaccano proprio dov’erano le due Divisioni di fanteria Cosseria e Ravenna, obbligando ad una ritirata precipitosa e disastrosa le forze dell’Asse, composte da tedeschi, italiani, romeni, ungheresi, bulgari, ecc.

Dove c’erano due Divisioni italiane, i russi attaccano con 10 Divisioni di fanteria, 13 Brigate corazzate, 3 Brigate di fanteria motorizzata e 2 reggimenti corazzati. Avevano decine di carri armati, le divisioni italiane nemmeno uno e nessuna arma anticarro efficace. Ho documentato questa folle guerra nel volume “Il testamento del capitano” (San Paolo 2003), pubblicando le lettere di papà Giovanni dal fronte e testimonianze di “Quelli che c’erano”.

La posta dei militari era censurata e papà non parla mai della guerra né di battaglie né della situazione militare, se non con cenni molto vaghi. Scriveva alla famiglia un giorno sì e l’altro no: non poche lettere sono andate disperse. Leggendo la sua corrispondenza si vede che il povero papà voleva rassicurare i suoi bambini e i suoi cari, ma era anche ottimista e fiducioso per natura.

Parla del freddo, al massimo 17-22 sottozero (secondo altri testimoni arrivava a meno 30 e 40!), però afferma che è un clima secco e si sta bene; dice che vorrebbe mandarci un po’ del suo pane, della carne, del cioccolato che hanno alla mensa; racconta di visite ai villaggi russi ed è commovente quando descrive la miseria di quella poverissima gente: “Ho attraversato tutta l’Ucraina e non ho visto una donna vestita come l’ultima delle nostre contadine alla domenica”; quando descrive bambini e adulti che stendono le mani e chiedono pane!

Appena può, papà distribuisce qualcosa da mangiare, una volta manda dal suo attendente il suo pranzo ad una famiglia (lui digiuna perché non sta bene) e ogni giorno distribuisce quanto riceve dalla mensa che lui non consuma: “Avanzo sempre del pane per queste povere persone del luogo, che essendo in miseria non avevano certo bisogno della guerra!”.

Entrano in contatto con i villaggi ucraini e la buona gente del popolo: si intenerisce a vedere questo popolo cordiale, ma tanto povero da far pietà. Non sa capacitarsi di come in un paese così potenzialmente ricchissimo ci sia quella miseria e si faccia la fame! “Qui c’è veramente miseria nera: manca il pane alla popolazione indigena che vive, il 99% e più, in misere casupole di legno con tetto di paglia. Manca il pane in un paese sconfinato, ricchissimo di terreni veramente fertili, ma purtroppo per la maggior parte incolti. Questa povera gente aveva certo bisogno di cambiare regime, ma non di una guerra. Per grazia di Dio e col suo aiuto, io cerco di fare un poco di bene, dando un po’ di pane a questa povera gente”.

“Nel paese dove siamo ora, dice in altra lettera, ogni casa ha una sola entrata: entra la mucca e gira a sinistra, entrano le persone e girano a desra. Miseria nera!”. Nelle sue lettere papà Giovanni parla della famiglia lontana, dei bambini, del suo lavoro d’ufficio che continua zia Adelaide, descrive la visita che ha fatto ad una chiesa ortodossa, ascoltandovi la Messa, “in un rito diverso dal nostro”; e poi la Messa nel giorno di San Francesco (4 ottobre). Non è preoccupato per sé ma per i suoi bambini, la mamma e le sorelle: chiede se il maiale ingrassa bene o no e dà consigli: ingrassatelo con patate… E al fratello Paolo: “Il vostro maiale diventa grosso?”. Si stupisce che il fratello Giuseppe a Torino è diminuito di dieci chili: “Ma a Torino si fa la fame?”.

Papà è rimasto con i feriti intrasportabili

Le bellissime lettere dall’Urss di papà Giovanni sono la più toccante testimonianza del suo spirito cristiano. Prega molto ed è sempre illuminato e sostenuto dalla fiducia assoluta nella Provvidenza di Dio. Al “Padre nostro che sei nei cieli”, tu caro papà, ci credevi davvero! Spiegaci come si fa ad avere una fede così forte, serena, calda, incrollabile, che ti ha confortato fino all’ultimo… Il giorno 4 dicembre 1942 tu scrivi le ultime tre lettere (quelle che abbiamo conservato).

Pochi giorni dopo scoppia il finimondo: “Io non sono in pericolo… Quanto all’avvenire è nelle mani di Dio che è un buon Padre e dobbiamo avere la massima fiducia nella Divina Provvidenza… Anch’io prego per voi, vi ho sempre nel cuore e voglio ritornare proprio per voi, per la nonna e per le zie. Per me personalmente m’importerebbe poco, ma come ho detto e ripeto prego Iddio che mi faccia ritornare sano e salvo per voi. E spero fermamente di essere esaudito poiché non chiedo nulla per me, né tanto meno per egoismo”.

Caro papà, forse sentivi che la tua vita volgeva al termine nel gelo spaventoso di quel dicembre 1942! Ma il dire che “personalmente per me m’importerebbe poco” (di tornare o non tornare), significa che eri già pronto al sacrificio supremo. Speravi di essere esaudito nella tua preghiera di rivedere i tuoi bambini e la famiglia, ma eri anche disposto a tutto. “L’avvenire è nelle mani di Dio”!

Il 15 dicembre 1942 scatta l’offensiva sovietica, un cuneo di carri blindati e di fanteria d’assalto proprio contro le Divisioni Cosseria e Ravenna! Il fronte è spezzato, l‘Alto Comando militare dà l’ordine di ritirarsi il 17 dicembre. Papà Giovanni rimane sul posto e probabilmente muore quel giorno stesso. Su questo fatto abbiamo due testimoni oculari: Mino Pretti di Vercelli e Ivo Ciancetti di Udine. L’avvocato Mino Pretti, sottotenente della Cosseria nella compagnia che comandava mio padre, è scampato all’eccidio e tornato in Italia è venuto a Tronzano a ringraziare la nostra famiglia perché papà Giovanni gli aveva salvato la vita.

Ho sentito diverse volte raccontare la storia dalla zia Adelaide. Mario era presente e testimonia: “Quando è tornata dalla Russia la Divisione Cosseria, è venuto a trovarci a Tronzano Mino Pretti, giovane avvocato, e ha raccontato che il 17 dicembre 1942 papà Giovanni ha voluto restare con i feriti intrasportabili e ha mandato via lui con i militari sani: così hanno potuto salvarsi, mentre papà è stato preso dai russi o ucciso in quella circostanza.

Pretti diceva che era suo dovere rimanere, ma papà gli ha detto: ‘Tu sei giovane, salvati, rimango io’. La zia Adelaide ha chiesto a Pretti: in che data è successo questo? E Pretti ha risposto: il 17 dicembre 1942. La zia si è segnata la data sul calendario, questo lo ricordo bene”. Un gesto che ricorda quello eroico compiuto ad Auschwitz da san Massimiliano Kolbe, che ha scelto di essere ucciso al posto di un padre di famiglia condannato a morte. Io posso dire che ho sentito lo stesso racconto diverse volte dalla zia Adelaide, sostanzialmente come lo riferisce Mario.

Nel mio ricordo papà avrebbe detto a Pretti: “Tu sei giovane, devi ancora fare la tua vita. Io la mia vita l’ho già fatta e i miei bambini sono in buone mani. Va, salvati, con i feriti rimango io”. L’avvocato Mino Pretti è morto nel 1981, è stato sindaco di Vercelli due volte per la Democrazia cristiana (fra il 1949 e il 1970).

“Ha deciso lui di fermarsi tra i feriti”

Il secondo testimone è il dottor Ivo Ciancetti di Udine (morto il 26 agosto 2003), che il 25 gennaio 2003 mi ha scritto un lunga lettera (vedi “Il testamento del capitano”). Ciancetti era tenente del reparto trasmissioni della Divisione “Cosseria”, capo centro collegamenti, responsabile dei collegamenti radio della divisione.

“In tale veste ero aggregato, con il mio plotone, presso il Comando Divisione, che a partire dal mese di settembre del 1942 era situato a Krasnj, piccolo centro costituito praticamente da due file di isbe ai lati della strada. A partire dal 14 dicembre iniziò l’offensiva russa. Dalla mia posizione di capo centro trasmissioni ero a conoscenza della drammaticità della situazione, in quanto potevo ascoltare tutti gli scambi di comunicazioni tra i vari comandi. La notte fra il 16 ed il 17 venne dato l’ordine di ritirata, e quindi tutti i reparti che si trovavano a Krasnj (sanità, sussistenza, ecc.) dovevano portarsi a Mitrofanovka. A me invece il capo di Stato Maggiore della Divisione ordinò di rimanere a Krasnj in attesa di un reparto tedesco (il 318° Reggimento) che avrebbe dovuto prendere posizione e a cui avrei dovuto consegnare le linee e gli impianti telefonici esistenti”.

“Durante la notte diedi l’ordine ai miei uomini di alternarsi sotto i due camion a nostra disposizione per il trasporto delle apparecchiature, per scaldare con le lampade a benzina i cardani. Se così non avessimo fatto sarebbe stato impossibile far partire i camion, a causa del terribile gelo di quella notte. Sul far del mattino diedi l’ordine di caricare sui camion tutto il materiale e di portarsi a Mitrofanovka, dove li avrei raggiunti, non appena arrivato il reparto tedesco”.

“Pochi giorni prima della ritirata era stato montato un tendone che dava ospitalità ai soldati feriti intrasportabili, vicino all’isba dove dormivo e dove avevo le apparecchiature di trasmissione. A vegliare quei poveri soldati moribondi  (potevano essere una trentina), il 17 dicembre era rimasto solo padre Pio Chiesa, cappellano militare che io conoscevo bene (francescano di Montà d’Alba, anche lui non tornato dall’Urss, n.d.r.). All’alba, lungo la strada transitavano a gruppi alcuni reparti che si stavano ritirando. Nella mattinata transitarono anche reparti di artiglieria della nostra divisione e fra questi il gruppo comandato dal maggiore Mario Marchesani, che conoscevo bene in quanto nato e cresciuto vicino a me a Verona. Assieme a lui c’era anche un capitano e oggi sono in grado di affermare che era Giovanni Gheddo. Tale certezza mi deriva innanzitutto in quanto ricordo la fisionomia di quell’ufficiale che ho riconosciuto nelle foto pubblicate nel Suo libro “Il testamento del capitano”. Il suo viso non mi era nuovo perché per alcuni mesi i nostri reparti erano stati assieme a Bordighera e nelle passeggiate sul lungomare ci eravamo incontrati molte volte e salutati”.

“Inoltre conoscevo bene i vari  reparti di artiglieria che erano dislocati in settori vicini al Comando Divisione. So che il gruppo comandato dal maggiore Marchesani era composto da due batterie: la quarta comandata dal capitano Zanantoni (che avevo avuto modo di conoscere) e la quinta comandata dal capitano Gheddo. Vidi che il capitano Gheddo era fisicamente molto provato e questo non mi stupiva: sapevo infatti che quel reparto era da almeno tre giorni privo di rancio caldo, si erano cibati di sole scatolette, in pratica carne ghiacciata”.

“Posso affermare con certezza che il capitano Gheddo si fermò a Krasnj, contrariamente al maggiore Marchesani. Egli infatti, dietro mio invito, si recò nella mia isba (l’unica ancora riscaldata) dove mangiò del minestrone caldo che il cuoco  mi aveva lasciato prima di ritirarsi.  Con questo cuoco, che si chiamava Freschi ed era originario di Parma, mi sono ritrovato verso la fine degli anni Settanta a Siena ad un raduno di reduci e abbiamo potuto ricordare questo episodio.  Certamente il capitano Gheddo allo scopo di riposarsi e riprendere le forze, si fermò per qualche ora nell’isba, alimentandone il fuoco. Io quella mattina rimasi sempre all’esterno perché mi interessava ritrovare i miei radiotelegrafisti per indirizzarli alla mia compagnia. In tal senso avevo avuto precisi ordini da parte del mio comandante capitano Diana. Non ricordo (ma ritengo di non averlo mai saputo) cosa fece suo padre quando rinfrancato uscì dalla mia isba, ma penso che unitamente a padre Chiesa si sia recato a pregare a lungo nel tendone dei moribondi”.

Testimonianza preziosa, questa di Ivo Ciancetti. Ringrazio il Signore di avercela procurata e grazie anche a sua figlia Maria Pia e al genero Roberto Volpetti. A questa testimonianza diretta e scritta, bisogna aggiungere un particolare interessante che è contenuto nella lettera (Email) speditami da Roberto Volpetti il 5 gennaio 2003: “La vicenda del suo caro papà è stata l’argomento di discussione in queste vacanze natalizie. Infatti mio suocero Ivo Ciancetti ha riconosciuto con ragionevole certezza in Giovanni Gheddo il capitano con cui si trovò il 17 dicembre nell’ospedale da campo destinato ai feriti intrasportabili, e posto nelle vicinanze del luogo dove era insediato il Comando Divisione. Tutti ormai si erano ritirati, ad eccezione di questo capitano e di padre Pio Chiesa, nonché dei poveri soldati moribondi”.