L’islam in Europa

Cristianità n.422 25 Agosto 2023 

di Silvia Scaranari,

1. La presenza islamica in Europa oggi è molto complessa e variegata, frutto di dinamiche diverse che si sono dipanate negli ultimi 50-60 anni e che continuano a modificarsi in relazione a una situazione mondiale in pieno fermento. Non è certamente possibile disegnare un quadro esaustivo della situazione, ma si può tentare una ricostruzione sommaria dei fatti.

L’arrivo di persone di religione musulmana ha avuto un suo primo momento negli anni 1960, quando il grande boom economico europeo richiamava manodopera. In quel momento l’immigrazione avveniva soprattutto dai Paesi che avevano un rapporto ex-coloniale con le nazioni europee — Algeria, Tunisia, Marocco per la Francia, Africa Nera per il Regno Unito, Turchia per la Germania, la quale, pur non essendone la madrepatria, aveva intessuto con essa legami politici nella prima metà del Novecento — e, in qualche misura, con un ordinato rapporto fra Stati. In Italia l’immigrazione era quasi assente e, dove c’era, era di giovani che ambivano a una formazione universitaria nei nostri atenei più prestigiosi.

Negli anni 1970 l’inizio di una crisi economica pose uno stop all’immigrazione di manodopera, ma non fermò la presenza dell’islam, che, anzi, crebbe in virtù dei ricongiungimenti familiari. Questo fenomeno rappresentava una vera rottura con il passato: oltre a determinare una crescita numerica, modificava massicciamente il modus vivendi delle comunità. I lavoratori, in gran parte single, accettavano di vivere la propria pratica religiosa in modo individuale e privato, ma poi, con la presenza di mogli e soprattutto di figli, cominciarono a sentire la necessità di luoghi in cui celebrare collettivamente il proprio credo e, soprattutto, formare i propri familiari. Crebbe la richiesta di luoghi di culto, di alimenti conformi alle norme coraniche, di spazi di sepoltura appropriati, di negozi di abbigliamento tradizionale, di cure sanitarie separate fra maschi e femmine e così via.

Dal 1990 la crescente crisi economica, i disordini politici e sociali, le guerre che hanno coinvolto i Paesi di origine hanno generato un nuovo forte flusso migratorio, questa volta non più regolamentato ma convulso e caotico, che ha coinvolto Stati anche molto lontani dall’Europa, come il Bangladesh, il Pakistan, lo Sri Lanka.

Ciò ha determinato la compresenza di una pluralità di etnie mai vista prima e anche una pluralità di appartenenze confessionali, perché l’islam, pur avendo un credo largamente condiviso, presenta al suo interno un ventaglio di posizioni molto variegato.

2. Per tentare di capire si può cercare di descrivere il mondo musulmano europeo «a grandi linee».

In primo luogo, si può parlare di islam per provenienza geografica. L’islam ha un modo di presentarsi e di vivere il proprio credo in maniera differente in base all’area geografica, nonché alla tradizione storico-sociale ed economica su cui si è innestato. Gli immigrati hanno prima di tutto cercato di raggrupparsi per appartenenze e di riprodurre in Europa le abitudini dei luoghi di provenienza. Si può a ragione dire che il caso italiano della giovane pakistana Saman Abbas (2002-2021) — uccisa probabilmente dai familiari per aver rifiutato un matrimonio combinato — è proprio espressione di questo attaccamento alle tradizioni d’origine.

In ampia parte l’islam nazionale si identifica anche con l’islam giuridico, l’aggregazione in base alle diverse scuole giuridiche — quattro ortodosse solo nel sunnismo, altre nello sciismo e interpretazioni a sé stanti nell’ambito africano e indiano —, che in parte riprende la provenienza geografica: malikiti in Nord Africa, hanbaliti nella Penisola Arabica, sufismo in Turchia ma anche nell’Africa Settentrionale, in Asia Minore e nel subcontinente indiano, a loro volta divisi da legami a maestri spirituali diversi.

Un terzo ambito può essere l’islam degli Stati: Stati islamici che prendono iniziative e cercano di coagulare fra loro i fedeli emigrati, favorendo una serie di attività, come la costruzione di moschee, l’istituzione di fondazioni culturali e di banche, la creazione di scuole coraniche, e così via. In alcuni casi si tratta degli Stati di origine degli immigrati — Marocco, Egitto, Turchia —, in altri invece di Stati che hanno deciso di svolgere attività «missionaria» in Europa — Arabia Saudita, Qatar — e che fanno parte della Lega del Mondo Islamico. Prodotto di questa rete di Stati è la moschea di Roma, la cui prima pietra fu posta l’11 dicembre 1984 alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini (1896-1990), del ministro degli Esteri Giulio Andreotti (1919-2013), del sindaco di Roma Ugo Vetere (1924-2013) e di don Marcello Zago (1932-2001), segretario del Segretariato per i Non Cristiani, in rappresentanza del Vaticano. Il progetto, affidato all’architetto Paolo Portoghesi (1931-2023) e realizzato su un terreno donato dal Comune di Roma già nel 1974, fu voluto e in gran parte finanziato dal re dell’Arabia Saudita, Fahd (1921-2005), con una cordata di altri ventiquattro Paesi arabi. 

Iniziative analoghe, con fondi provenienti da Paesi musulmani, si sono realizzate un po’ in tutta Europa. Per citarne alcune, la grande moschea di Colonia, la più grande della Germania, finanziata dalla Turchia e inaugurata alla presenza del presidente Recep Tayyip Erdogan e della cancelliera Angela Merkel nel 2018. Nel 2021 la stessa moschea ha chiesto e ottenuto dalla municipalità il permesso di rivolgere con altoparlanti l’adhan, il richiamo alla preghiera del muezzin, esteso poi a tutte le moschee riconosciute. Sempre in Germania sta facendo molto discutere il progetto di un maxi-centro islamico a Francoforte sul Meno, per il quale si starebbe impegnando la Deutsche Muslimische Gemeinschaft (DMG), riconducibile ai Fratelli Musulmani secondo l’Ufficio per la Protezione della Costituzione, i servizi segreti tedeschi. Il Centro Islamico di Francoforte (IZF) avrebbe presentato su Facebook il modello di un nuovo gigantesco complesso edilizio, la cui costruzione dipenderebbe da una raccolta fondi nella quale avrebbe una parte significativa l’emirato del Qatar, considerato nel Regno Unito il più importante sponsor dell’islamismo (1).

Altro caso è la Moschea della Città Bianca, meglio nota come The Egyptian House a Londra, in gran parte edificata grazie a fondi egiziani. Sempre a Londra, fra le decine di moschee, la più grande al momento è quella di East London, autorizzata al richiamo dell’adhan.

E non si può dimenticare l’imponente operazione dell’Arabia Saudita, che alla fine del secolo scorso ha lanciato il progetto di costruire duemila moschee solo in Albania. A Marsiglia la costruzione della Grande Moschea, mai conclusa, che avrebbe dovuto ospitare fino a 14.000 fedeli, era stata progettata grazie a fondi del Qatar, mentre per la moschea di Lione si trattava di fondi personali del re saudita Fahd. La grande moschea di Siviglia è finanziata dagli Emirati Arabi Uniti, mentre il Kuwait finanzia le moschee di Reuss e di Torredembarra, sempre in Spagna, e il Qatar controlla il Centro islamico della Catalogna.

Ultimo fra tanti, a Strasburgo, cuore dell’Unione Europea, è in costruzione una moschea che avrà minareti alti 44 metri e ventotto cupole. Il complesso, di diecimila metri quadrati, includerà uno spazio di preghiera per tremila fedeli, diverse sale conferenze, una biblioteca, una sala per insegnanti, un ristorante e alcuni negozi, più un parcheggio. Sarà la moschea Eyyub Sultan, ampliamento di una già esistente, che così diventerà la più grande dell’Europa occidentale, spesata da una rete di Stati islamici, fra cui Qatar e Turchia, ma anche con un fondo di 2,5 milioni di euro elargiti dalla locale amministrazione.

Su questo finanziamento è intervenuto il ministero degli Interni, perché nella costruzione e nella gestione della moschea è coinvolta la confederazione islamica Millî Görüş, considerata molto vicina al presidente turco Erdoğan, che si è rifiutata di firmare la Carta dei Princìpi per l’Islam di Francia — testo proposto dal presidente della Repubblica Emmanuel Macron per stabilire una formale adesione ai princìpi della Repubblica — e che entra ed esce dalle blacklist degli Stati Uniti d’America.

Quando intervengono, gli Stati vogliono evitare una perdita d’identità da parte dei loro concittadini emigrati. Mentre in Europa si parla spesso di integrazione e molti immaginano un graduale assorbimento da parte della «europeità» — senza poi saperla definire e riempire di contenuti —, dall’altra parte si cerca di favorire il permanere del legame. In questa prospettiva si possono leggere le molte iniziative volte alla nascita non solo di moschee, ma anche di centri culturali, accademie di studio, corsi universitari, progetti culturali, centri sportivi, scuole.

Accanto al crescere dell’immigrazione, su cui si dovrà prima o poi aprire un tavolo di discussione seria fra gli Stati europei e smettere di ridurre il fenomeno al puro livello umanitario, è cresciuto il coinvolgimento degli Stati di origine. Da un primo necessario interessamento per i propri cittadini emigrati — come si è detto, l’inizio del fenomeno è stato regolato e monitorato con fitte relazioni bilaterali — si è passati a una vera e propria sponsorizzazione dell’islam a tutti i livelli.

Accanto alla macroscopica esposizione del Qatar nell’acquisto della squadra di calcio francese del Paris Saint-Germain, su cui ha investito più di 1,5 miliardi di euro, vi sono i 14 milioni di euro spesi per il centro An Nour a Mulhouse. Elzir Izzedin, già imam di Firenze e presidente dell’UCOII, l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia, ha detto che dal Qatar sono arrivati 25 milioni di euro, in attesa di siglare un’intesa con lo Stato italiano e ricevere l’8 per mille (2).

Abdullah Bin Nasser al-Thani, della famiglia reale del Qatar, è stato in Italia per inaugurare un nuovo centro culturale a Piacenza e poi si è recato a Brescia per l’ampliamento della moschea e poi ancora a Mirandola (Modena), a Vicenza per un altro centro islamico e poi a Saronno (Milano) per una scuola coranica e una sala di preghiera. E la Eid Charity (Sheikh Eid Bin Mohammad Al Thani Charitable Association), organizzazione semi-governativa qatariota, è stata definita dallo statunitense Carnegie Endowment for International Peace — un think tank apartitico specializzato in politica estera — come «la più grande e influente organizzazione umanitaria al mondo controllata dai salafiti» (3). Il suo fondatore, Abd Al Rahman Nuaimi, sarebbe legato ad al Qaeda e per anni è stato nelle liste di presunti terroristi.

Un po’ ovunque, a Londra, a Parigi, a Berlino, vi sono centri King Fahd Academy o simili, che devono favorire la reislamizzazione dei giovani musulmani e offrire una immagine accattivante, pacifica e quasi suadente dell’islam agli occhi degli europei. È invece di matrice turca circa un terzo dei centri culturali tedeschi. Si potrebbe andare avanti a lungo, come ha documentato il giornalista Giulio Meotti (4).

3. A queste tradizionali forme di appartenenza è necessario aggiungere l’islam politico, che fa capo a diverse organizzazioni, fra cui la più presente e dinamica è quella dei Fratelli Musulmani, oggi declinata secondo varie denominazioni federate fra loro e legate a una forte componente egiziana.

L’islam politico ha assunto nel tempo sfaccettature diverse. Da un canto, gruppi che hanno mantenuto l’iniziale attaccamento a una reislamizzazione dal basso — a fronte del tradimento operato dalle leadership dei vari Paesi nati dopo la decolonizzazione e accusati di essere troppo asserviti a una mentalità occidentale —, dall’altro lato, gruppi, soprattutto dagli anni 1960 con un’accelerazione alla fine del secolo scorso, sostenitori di un islam radicale che propone l’islamizzazione forzata attraverso colpi di Stato o atti terroristici volti a destabilizzare i governi e a favorire la nascita di nuove strutture comunitarie. Questi hanno avuto un certo peso fino al 2015, quando sono stati screditati dallo Stato Islamico (ISIS). Questo, con i suoi eccessi, con il suo ostracismo verso tutti coloro che non ne facevano parte e poi con il suo fallimento, ha fatto crollare il mito di una nuova età dell’oro. Ciò non vuol dire che l’islam radicale sia sparito, ma che in certi casi ha adottato forme di penetrazione più diplomatiche e in altri ha rivolto le sue attenzioni ad ampie aree dell’Africa e del Sud-est asiatico.

4. Altra modalità di appartenenza è l’islam delle confraternite. Questo islam, molto diffuso in Medio Oriente, in Africa e nel subcontinente indiano, è stato duramente colpito dall’ostilità del wahhabismo dell’Arabia Saudita, che non ne ha mai accettato il distacco dal formalismo giuridico sunnita, e dal laicismo turco, a partire dall’Ataturk (il pascià Mustafa Kemal; 1881-1938) fino all’attuale presidente Erdoğan, certo non laicista ma favorevole a una reislamizzazione di stampo ottomano. Questa appartenenza alle confraternite del mondo sufi gode in Europa di una notevole libertà di azione e di una progressiva crescita perché parla a giovani generazioni assetate di spiritualità. Inoltre, spesso, ha una componente maggioritaria di europei convertiti — esempio tipico il COREIS (Comunità Religiosa Islamica) in Italia — che sanno usare un linguaggio in sintonia con le nostre linee culturali e si rendono più capaci di interloquire con le istituzioni.

Anche questo islam più spirituale tenta una islamizzazione sia nei Paesi d’origine sia in Europa ed è molto attivo con diverse modalità. Le comunità senegalesi sono raccolte intorno alle tariqa (via/percorso spirituale) della Muridyyia e della Tijāniyya, che non amano ostentare troppo la loro presenza, mentre l’Ahamadyyia, originaria del Punjab in India — che oggi raggruppa algerini, marocchini, tunisini, ghanesi, pakistani, ben­galesi e somali — opera con la costruzione di moschee, come la Baitul Futuh di Londra o la Darul Barakaat di Birminghan o quella di San Giovanni in Persiceto (Bologna) al-Hidaya. Vita tormentata ha avuto Millî Görüş, nato in Turchia come movimento politico-religioso, che nel tempo ha vissuto una scissione interna fra una componente dichiaratamente più religiosa e una più politica. Al momento, il movimento presente in Germania è nella sua maggioranza legato al governo turco di Erdoğan, da cui riceve finanziamenti molto significativi, e controlla circa un terzo delle moschee tedesche.

5. Resta ancora da individuare un’altra componente, l’islam «sfuggente», quello che possiamo definire «del web». Soprattutto giovani, ma anche meno giovani, apertamente in polemica con le autorità dei Paesi di provenienza, che assorbono le informazioni dai moltissimi siti webche sono nati negli ultimi venti anni e che offrono veramente di tutto. È un mondo facile preda dei gruppi radicali e jihadisti, che sono molto presenti in rete e che hanno elaborato una valida strategia di comunicazione soprattutto con i giovanissimi, molto proiettati, come tutti i loro coetanei, a vivere in un mondo virtuale.

Significativo a questo proposito l’intervento — riferito a una situazione extra-europea, ma facilmente riscontrabile anche sul nostro territorio — del vice-premier di Singapore Lawrence Wong, secondo cui «ultime “frontiere” della propaganda estremista […] sono i siti di musica in streaming e le piattaforme di gioco, particolarmente utilizzate dai più giovani e da cui è possibile accedere ai server dell’Isis. Come dimostrato da recenti arresti di 15-16enni già radicalizzati». Secondo l’agenzia Asia News le piattaforme social rendono la propaganda più insistente e diffusa, ma anche meno facile da individuare. «Questo non ha solo reso più facile la diffusione di materiale estremista, ma ha anche accelerato il processo di radicalizzazione, riducendolo a mesi o anche a settimane», ha segnalato il ministro Wong (5).

L’islam del web spesso offre risposte chiare, non propone analisi critiche ma accompagna la solitudine ed elimina le difficoltà che l’esistenza quotidiana pone sul cammino di ognuno. Questo mondo rappresenta un problema reale, per le comunità islamiche e per l’ordine pubblico occidentale. Da un canto può sfociare in un islam «de-culturalizzato», secondo la definizione del sociologo e studioso di islam Olivier Roy (6), dove si rischia una eccessiva valorizzazione dell’aspetto legale a discapito della profondità spirituale e culturale. Spesso le guide indicano ai giovani di ubbidire alle norme, sottolineando di più la contrapposizione fra haram (proibito) e halal (lecito) (7), rispetto a una dimensione interiore della fede. Così facendo, si genera un islam puritano, moralistico, rigido, che isola dal contesto culturale esterno e facilita la nascita del radicalismo.

D’altro canto, la via del web rischia di creare, e spesso crea, un islam «fai da te», in cui rivalsa, speranze di successo, rivendicazioni, voglia di vendetta, fragilità adolescenziale, si mescolano e generano situazioni potenzialmente esplosive.

Non si può nascondere che forse la maggioranza dei giovani musulmani — e, in parte, anche dei genitori — vive l’islam come molti giovani cristiani, con pratiche ridotte al minimo, spesso rasentando l’indifferentismo anche senza approdare a un vero ateismo — praticamente assente nel mondo musulmano —, ma mostrandosi disponibile a molti compromessi. A ciò si accompagna una fascia che, invece, cerca di vivere una formula definita dal teologo torinese don Andrea Pacini «neo-ortodossa» (8), ovvero un islam molto serio, conosciuto attraverso uno studio in profondità, e che si sente pienamente europeo, cercando di vivere la propria dimensione religiosa in forma associata e in dialogo con la società moderna (9). Secondo Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, «[…] è probabile che il futuro dell’Islam europeo sarà figlio di entrambi gli apporti [quello di antico insediamento e quello figlio dell’immigrazione] e del loro meticciarsi in un terzo: l’Islam autoctono che attraverso le cosiddette seconde generazioni (e successive), i convertiti, l’elaborazione svolta in terra e le lingue europee, si sta già producendo e si produrrà in futuro» (10).

6. Ma come vive l’Europa questo impatto? Quali dinamiche si sono innescate nei decenni tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nostro? Per anni l’Europa ha ragionato in base ai propri princìpi — sacrosanti —, che riconoscono la libertà religiosa come uno dei principali diritti umani e, basandosi su questo, ha operato aperture rispetto alle richieste degli immigrati di origine islamica: macellazione halal, menù halal nelle scuole, aree cimiteriali, apertura di centri culturali e soprattutto di moschee, con la convinzione che l’ufficialità dei luoghi avrebbe garantito l’ordine e la trasparenza. Purtroppo, spesso non è stato così e moschee, scuole, centri culturali si sono trasformati in punti di coagulo e di formazione all’islam radicale. 

Non sempre, ovviamente — anzi rappresentano una minoranza —, ma in alcuni il controllo esercitato sui fedeli e soprattutto sulle donne si è trasformato in un peso maggiore di quanto non fosse nel Paese d’origine. La comunità tende a irrigidire le norme e i costumi per non rischiare di perdere la propria identità e il proprio senso di appartenenza alla Umma e per marcare la distinzione rispetto al mondo occidentale, infedele e «satanico».

Oltre a quello della già citata giovane Saman, sono emersi casi di matrimoni combinati anche con minori, se non addirittura con bambine, controlli sistematici sul rispetto del digiuno in alcuni quartieri di grandi città tedesche, francesi o inglesi, dove le stesse forze dell’ordine si rifiutano di entrare per i pericoli in cui potrebbero incorrere. Sono quelle aree che in Francia chiamano «zone urbane sensibili» o «zone franche», dove governano gang di giovani musulmani e che, secondo l’ex-membro dei servizi di intelligence Alain Chouet, interesserebbero 1514 quartieri in 859 comuni: circa quattro milioni di francesi, che vivono con una legge «diversamente legale», come il political correct imporrebbe di dire. Questo fenomeno a danno di altre comunità, prime fra tutte quelle ebree, che subiscono attacchi antisemiti e pressioni di isolamento tanto da indurle ad allontanarsi da quartieri a maggioranza islamica. Lo ha denunciato nell’aprile del 2022 lo storico francese Georges Bensoussan in un’intervista citata da Giulio Meotti (11): secondo questi, da alcuni centri francesi, come Bobigny, nei pressi di Parigi, l’80% degli ebrei avrebbero abbandonato case ed attività, esasperati dalle pressioni esercitate nei loro confronti dalla comunità islamica. L’integrazione non può avvenire dove i quartieri vedono crescere la presenza di un gruppo fino a diventare maggioranza. Invece che promuovere l’integrazione, si cade nell’esclusione reciproca.

Il rispetto per l’altro come persona e per le sue convinzioni è profondamente radicato nella mentalità cristiana ed è un punto-chiave della Costituzione italiana, come di molte altre. Alla fine del secolo scorso, l’aumento della presenza islamica in Europa ha portato anche all’au­mento di visibilità e di richieste di spazi pubblici. In alcuni contesti ciò ha sollevato dubbi e perplessità e ha aperto un dibattito culturale e politico che avrebbe potuto essere foriero di interessanti prospettive.

Ma tutto è cambiato con l’ondata di azioni terroristiche messe in atto dall’islam jihadista tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo. L’indignazione, la rabbia e la paura suscitate dal terrorismo hanno generato un agere contra: l’islam sui media ha diffuso un’immagine di sé come portatore di pace e di fratellanza, e ha assunto un atteggiamento spesso vittimistico di fronte a qualsiasi critica o accusa. È nata la retorica contraria: guai all’islamofobia!

Se era ed è un grave errore generalizzare e vedere in ogni musulmano un potenziale terrorista, è altrettanto difficile non ammettere che i terroristi erano e sono anche musulmani. Di fronte allo shock causato dai tanti attentati — a partire dalle Torri Gemelle di New York del 2001 per arrivare a preti e professori uccisi in Francia e alle stragi di cristiani in Nigeria e nel Congo di oggi — e alla loro legittima condanna, alcuni ambienti musulmani — come si è detto — invece di riconoscere lo sbaglio e i crimini dei correligionari, hanno incominciato ad accusare il mondo occidentale di fare di tutta l’erba un fascio, hanno sostenuto che l’islam è una religione di pace e protestano ovunque si mettano in dubbio le loro buone intenzioni, imponendo l’idea che qualunque osservazione critica verso l’islam sia animata da ostilità, sia cioè appunto «islamofoba».

Ciò ha conquistato i media e in gran parte la mentalità comune, che si esprime ormai solo attraverso commenti e categorie di valutazione politically correct, spesso a detrimento della verità. È una situazione imbarazzante perché lede il principio di libertà di parola e di opinione e viene lamentato dagli stessi musulmani più occidentalizzati.

Sempre Meotti ha evidenziato il caso dell’imam Hassan Chalghoumi (12). Questi, già presidente della Conferenza degli imam di Francia, ha parlato duramente contro i Fratelli Musulmani ed è stato minacciato di morte più volte; ora è costretto a parlare in moschea indossando un giubbotto antiproiettile e non dorme mai due notti nella stessa casa. Tutti ricordano che cosa è successo a Samuel Paty (1973-2020), l’insegnante decapitato per aver parlato in classe di libertà di parola e aver mostrato delle vignette di Charlie Hebdo.

Così cresce la paura per le proprie opinioni, ci si auto-censura e non si critica più la comparsa nei negozi di bambole senza volto per rispetto di certe correnti islamiche o rigorosamente velate, non si sottolinea più che aumentano significativamente i casi di donne infibulate nelle nostre modernissime città, anche se, secondo l’Unione Europea (13), al febbraio 2021 600.000 ragazze residenti nei nostri Paesi avrebbero subito mutilazioni genitali. Tuttavia, secondo Ines Laufer, fondatrice della task- force FGM, questi dati sarebbero irrealistici, «[…] perché una raccolta completa di dati non è voluta dai leader politici» (14).

Forse il timore è di essere accusati di islamofobia. Peggio, compaiono saggi che, invece di indignarsi, propongono l’inserimento dell’infibulazione come pratica garantita dal sistema sanitario nazionale o, addirittura, difendono il principio della poligamia, sostenendo «è nella loro cultura» e quindi «che diritto abbiamo noi di criticarlo?» (15).

7. Il matrimonio induce a una considerazione di tipo demografico. Da alcuni anni — troppo pochi — qualche analista solleva il pericolo del calo demografico a cui l’Europa è esposta. Finalmente ne parlano anche i politici ed è diventata di pubblico dominio pure la consapevolezza che per un ricambio generazionale è indispensabile un tasso di 2,1 figli per donna, mentre oggi siamo attestati intorno all’1,53 e, in Italia, appena all’1,1.

Le proiezioni ci dicono che nel 2058 la popolazione della Nigeria supererà quella di tutta l’Europa. Ma che cosa succede fra le comunità islamiche presenti in Europa? Il tasso di natalità è decisamente superiore, pur con differenze: qui si passa da un 2,9 figli per donna per le provenienze dall’Africa subsahariana a 3,4 per chi viene dal Marocco, a 3,7 per l’Algeria e, quindi, è facile prevedere un aumento significativo di giovane popolazione musulmana a fronte di un calo inarrestabile di quella europea.

In alcune città della Germania o in certi paesi della Francia la popolazione musulmana supera il 20% dei cittadini e nelle scuole la presenza di bambini islamici è sempre più alta: a Raunheim, nei pressi dell’aeroporto di Francoforte sul Meno, alla scuola elementare «Pestalozzi» il 90% degli allievi sono stranieri di seconda generazione, mentre ad Amburgo, nelle scuole di periferia, sono il 75%. Per l’Italia, Orizzonte scuola ha pubblicato una riflessione a fronte dei dati forniti dal Ministero dell’Istruzione e del Merito: la percentuale di bambini stranieri — ovviamente non tutti musulmani ma la maggioranza — nella scuola dell’infanzia è del 13,4%, mentre alla scuola primaria raggiunge il 14%.In entrambi i segmenti scolastici, la presenza multietnica è prossima a un bambino su sette, con percentuali che raggiungono il 28% in Emilia-Romagna, il 25% in Lombardia e il 24% in Veneto (16).

Secondo Stefano Allievi «il dato reale attesta come sia di origine musulmana circa il 5% della popolazione europea. Con prospettive di crescita da qui al 2050, secondo il Pew Research Centre (trattandosi di popolazione mediamente più giovane e con tasso di fertilità più elevato, anche se in una generazione, o una e mezza, tende ad avvicinarsi a quello del Paese di residenza), variabili secondo lo scenario, ma ipotizzabili tra il 7,4 e il 14% della popolazione europea, che di suo è peraltro in declino, facendo aumentare di conseguenza le percentuali dei musulmani, che diventerebbero a due cifre in Bulgaria, Francia, Belgio e Svezia, e non lontane da lì in Regno Unito, Olanda, Italia, Svezia e Svizzera, anche solo in uno scenario di migrazione zero» (17).

In un simile contesto non è possibile parlare di integrazione: la presenza di numeri così forti porta necessariamente a un cambio di cultura, di usi, di costumi… e si rischia di arrivare a un cambio di norme giuridiche. Fantasia? Timori eccessivi? In Danimarca un imam ha reclamato la liceità delle spose-bambine, perché conforme alle consuetudini dei Paesi di provenienza di molti migranti e i giudici danesi hanno risposto che il problema deve essere studiato, non hanno opposto un sacrosanto «no».

Si è parlato su molti media europei del caso di Inger Stojberg, ex-ministro per l’immigrazione danese, condannata nel 2021 per aver violato il diritto del minore alla famiglia, separando coppie in cui vi erano minori ospiti dei centri di accoglienza per rifugiati. Peccato che in questi casi il minore non fosse il figlio, ma la sposa, e la separazione volesse salvaguardare la libertà di scelta della ragazza finché non fosse diventata adulta.

Secondo il Centro Nazionale di Statistica, in Francia il 44% dell’aumento della popolazione dipende dagli immigrati. Si comprende sempre più come si sia di fronte a un processo epocale di mutamento culturale. L’Italia vive una situazione decisamente più tranquilla, perché secondo il centro di ricerche statistiche Pew, nel giugno del 2021 vede al secondo posto per appartenenza religiosa i «non affiliati» — atei e agnostici, insieme più di 8 milioni — e poi i musulmani, che sarebbero circa 2,7 milioni, ovvero il 4,9% della popolazione residente. Questo dato comprende sia i cittadini italiani, sia quelli residenti con cittadinanza straniera e, quindi, siamo ancora lontani dalla media europea, pari al 6,8% (18).

A fronte dell’auspicata prospettiva politica di un’integrazione graduale del mondo musulmano in Europa, oggi stiamo assistendo a preoccupanti fenomeni di sostituzione culturale.

Solo questione di demografia? Forse no. L’Europa ha già affrontato massicce ondate di immigrazione nella sua lunga storia, ma nel nostro secolo stiamo assistendo a qualcosa di diverso. Abbiamo di fronte l’abbinamento di un senso di rivalsa da una parte e di un atteggiamento dimissionario e suicidario dall’altra parte.

Certamente non è per tutti così, ma in diversi casi assistiamo a una immigrazione che disprezza l’Europa, le nostre tradizioni, la nostra cultura, la nostra storia e che assume un atteggiamento di sfrontatezza e di rivendicazione. Di fronte a un’immigrazione forte — pensiamo alle popolazioni piombate dal nord sull’impero romano —, di persone bisognose di lavoro provenienti da una regione o dall’altra del nostro continente, un tempo emergeva un atteggiamento di gratitudine per quello che si trovava. Gli stessi popoli barbari, con la loro sete di dominio, riconobbero il patrimonio culturale esistente e ne fecero tesoro.

Oggi, al contrario, siamo di fronte a popolazioni — ribadisco solo in parte —, che vivono con la convinzione di avere una superiorità culturale e dominati quasi da un desiderio di «vendetta» contro il Vecchio Continente, evidenziandone solamente le colpe e negandone i meriti.

E così, nelle scuole, nei quartieri a più alta densità islamica, è facile creare un clima di suggestione collettiva, di «jihadismo d’atmosfera», secondo l’espressione usata da Gilles Kepel (19), da cui vengono condizionati musulmani e non-musulmani: un misto di paura, di tacito consenso, di condivisione, spesso mostrata per opportunismo e per quieto vivere. Una simile situazione discosta ancora di più le comunità islamiche dalla realtà, le rende auto-referenziali e allontana chi non è disposto al consenso, musulmani moderati o ebrei, che spesso cambiano città o quartiere per evitare minacce e discriminazione.

8. E gli Stati che cosa fanno? Lodevoli tentativi di integrazione accanto a deplorevoli assenteismi. Negli anni 1990 sul tavolo della discussione vi erano le diverse modalità di convivenza con i forti flussi migratori. Si discuteva fra «multicultura» (all’inglese), «intercultura» (forse all’italiana), assimilazione (alla francese) e si valutavano i diversi orizzonti. Oggi, invece, troppo spesso gli stessi organi amministrativi, giudiziari e politici sono preda della paura di essere tacciati di islamofobia se intervengono con provvedimenti volti a eliminare la violenza — inizialmente anche solo verbale —, o la sopraffazione sulle comunità di alcuni «più forti». Assistono inerti alla concentrazione in determinati quartieri, concedono il perpetuarsi di usi e costumi in contrasto con la cultura europea, si arrendono allo status quo.

L’islam radicale non è un conservatorismo teologico come l’iper-tradizionalismo di qualche comunità cattolica: è una visione della rivelazione coranica come verità religiosa, sociale, politica, che vuole la sottomissione del mondo, come ben ricorda Rémi Brague, il quale, rispondendo alla domanda su che cosa vuole l’islam, risponde: «L’obiettivo è quindi la conquista del mondo intero, non necessariamente con mezzi violenti. Una volta che il mondo sarà sotto il potere islamico, la conversione sarà un’azione ragionevole per il sottomesso» (20).

L’uomo occidentale post-moderno, privo di verità a cui fare riferimento, non è capace di comprendere una simile prospettiva esistenziale e finge che tutto l’islam sia pace e fratellanza. Troppo spesso l’Occidente non comprende che la controparte, gli Stati islamici, non desiderano assolutamente un’integrazione, anzi operano per l’esatto contrario. L’in­tegrazione in Occidente è vista come un pericolo, il rischio di acquisire abitudini, culture e usi degli «infedeli», e per questo si prodigano in sforzi significativi di reislamizzazione.

Dietro a un simile atteggiamento dell’Occidente vi è spesso un desiderio di tranquillità (apparente), la voglia di non avere dibattiti da affrontare, ma molto più spesso una mancanza di consapevolezza della propria identità culturale e di convinzione sulla verità da difendere. L’apertura all’altro, l’accoglienza, il rispetto della libertà religiosa sono valori fondamentali dell’Europa, ma occorre sapere e credere che il loro fondamento sta nella cultura cristiana che ha permeato per secoli la sua storia. Sempre Rémi Brague avverte che troppo spesso l’europeo ha cercato di comprendere l’islam con le categorie religiose cristiane e questo è un errore epocale (21).

Relativismo e nichilismo hanno corrotto l’uomo europeo, che oggi si vergogna di sé stesso, della propria storia, della propria tradizione e si nutre solo del proprio benessere economico, che vuole mantenere gelosamente. Manca troppo spesso la volontà di difendere un modello di società di cui non si sanno più declinare le verità di fondo e, soprattutto, non si crede siano verità. Le belle parole «libertà religiosa», «accoglienza», «fratellanza» non bastano, occorre riempirle di significato e, soprattutto, piantare dei «paletti» entro cui possano stare, altrimenti non è integrazione ma anarchia, in cui vince il più forte.

Come si profila il futuro? Difficile dirlo. L’immigrazione continua, l’islam di seconda, terza, quarta generazione cresce, soprattutto il cristianesimo decresce a velocità impressionante. Sarà sempre così?

Alcuni segnali potrebbero indurre a pensare a una recessione. La politica di Erdoğan pare in crisi, soprattutto dopo le elezioni del 28 maggio scorso, e ciò potrebbe portare il governo a pensare un po’ meno all’Europa e un po’ più ai propri progetti interni o, al massimo, africani e asiatici. Il principe Salman al-Saud, che detiene ora il potere in Arabia Saudita, sembra molto meno animato dal sacro spirito della dawa (missione) rispetto ai predecessori re Faysal (1906-1975) e re Fahd, sì che anch’egli potrebbe avere qualche riflessione economica da fare al proprio interno; l’Egitto dovrebbe contenere la propria popolazione ed evitare l’esplosione delle rivolte e il re del Marocco potrebbe desiderare un islam più sereno e meno aggressivo ma… potrebbe anche essere il contrario: quando si percepiscono debolezze in patria, si mostrano i muscoli all’estero. La storia è piena di entrambi i casi. Forse la domanda più seria dovrebbe essere rivolta agli europei: esiste una cultura europea che vale la pena di sostenere, oppure no?

Note:

1) Cfr. Silvana Palazzo, «Progetto segreto islam a Francoforte»/Welt: donazioni e fondi oscuri per maxi centro islamico», in il Sussidiario.net, 18-06-2023, nel sito web https://www.ilsussidiario.net/news/progetto-segreto-islam-a-francoforte-welt-donazioni-e-fondi-oscuri-per-maxi-centro-islamico/2553744  (gli indirizzi di Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 29-8-2023).

2) Cfr. Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo, Sfida tra 700 moschee: l’Islam italiano va a caccia dell’8 per mille, in Il Secolo XIX, 1-5-2016.

3) Alessandra Benignetti, Un miliardo alle moschee radicali: i soldi islamici che cambiano l’Ue, in il Giornale, 25-1-2022, nel sito web https://www.ilgiornale.it/news/mondo/dai-petrodollari-qatar-ai-sauditi-sul-financial-times-i-2004999.html .

4) Cfr. Giulio Meotti, La dolce conquista. L’Europa si arrende all’islam, Cantagalli, Siena 2023.

5) Cit. in Steve Suwannarat, Singapore: musica e giochi online nuove frontiere del reclutamento jihadista, in Asia News, 23-6-2023, nel sito web https://www.asianews.it/notizie-it/Singapore:-musica-e-giochi-online-nuove-frontiere-del-reclutamento-jihadista-58653.html .

6) Cfr. Federica Bianchi, Terrorismo, i kamikaze sono un clan, in L’Espresso, 23-3-2016, nel sito web https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2016/03/23/news/terrorismo-i-kamikaze-sono-un-clan-1.255484 .

7) Con il termine halal nella cultura islamica si intende genericamente ciò che è consentito in termini di comportamento, abbigliamento e alimentazione.

8) Cfr. la lezione tenuta dal professor Pacini il 13 marzo 2023 presso il Centro Federico Peirone a Torino.

9) Le stime in percentuale sono molto generiche, non esistendo studi statistici su tutto il territorio europeo.

10) Stefano Allievi, L’islam europeo: da dove viene, dove sta andando, in Per un islam europeo. I Balcani, la sponda Sud del Mediterraneo e il continente europeo: una storia da riscrivere, Centro Studi e Rivista Confronti in collaborazione con Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Roma 2021, pp. 13-17 (p. 14).

11) Cfr. G. Meotti, op. cit., p. 154.

12) Cfr. Idem, Difendiamo le libertà europee o sarà la sottomissione al fascismo dell’Islam politico, in il Foglio quotidiano, 21-1-2021, nel sito web https://­www.ilfoglio.it/cultura/2021/01/21/news/-difendiamo-le-liberta-europee-o-sara-la-sottomissione-al-fascismo-dell-islam-politico–1712452 .

13) Cfr. Mutilazioni genitali femminili: in quali paesi vengono praticate? Perché? Quali sono le conseguenze?, nel sito web https://www.europarl.europa.eu/­news/it/headlines/society/20200206STO72031/mutilazioni-genitali-femminili-dove-e-perche-vengono-ancora-praticate .

14) Mutilazioni genitali femminili, una pratica diffusa anche in Europa, in Sanità Informazione, 19-7-2022, nel sito web https://www.sanitainformazione.it/sanita-internazionale/mutilazioni-genitali-femminili-una-pratica-diffusa-anche-in-europa .

15) Cfr. sul punto Paolo Morozzo della Rocca, Ordine pubblico matrimoniale e poligamia nella disciplina del ricongiungimento familiare, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 2, agosto 2019, pp. 417-440.

16) Cfr. La scuola è sempre più multietnica: il 20% degli alunni è di origine straniera. Tutti i dati, in Orizzontescuola, 11-4-2023, nel sito web https://www.orizzontescuola.it/la-scuola-e-sempre-piu-multietnica-il-20-degli-alunni-e-di-origine-straniera-tutti-i-dati .

17) S. Allievi, op. cit., p. 15.

18) Cfr. La presenza dei musulmani in Italia, in openpolis, 18-6-2021, nel sito web https://www.openpolis.it/la-presenza-dei-musulmani-in-italia .

19) Cfr. Gilles Kepel, Ora la minaccia è lo jihadismo d’atmosfera, in il manifesto, 10-9-2021; cfr. anche Idem, Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente, trad. it., Feltrinelli, Milano 2021.

20) Rémi Brague, «Cattolicesimo e islam? Un falso parallelo», intervista a cura di Lorenza Formicola, in La Nuova Bussola Quotidiana,

21) Cfr. ibidem.