La formidabile lezione del Prof. Ratzinger

card_RatzingerPubblicato su Il Foglio del 19 aprile 2005

Incanta e convince l’omelia del decano dei cardinali contro il relativismo. Parla del mondo moderno con un senso acuto della sua crisi. Attraverso la Bibbia, il Vangelo e le lettere di San Paolo produce l’annuncio cristiano rinnovato per i fedeli. Ma anche una sintesi di cultura e di pensiero che rilancia nella Chiesa e nel mondo la battaglia filosofica e la guerra culturale per riconquistare m senso all’esistenza

Pubblichiamo il testo dell’omelia del cardinale Joseph Ratzinger alla messa “Pro eligendo romano pontifiece” cele­brata ieri nella Basilica di San Pietro prima della chiusura del Conclave.

In quest’ora di grande responsabilità ascoltiamo con particolare attenzione quanto il Signore ci dice con le sue stesse parole. Dalle tre letture vorrei scegliere so­lo qualche passo, che ci riguarda diretta­mente in un momento come questo.

La prima lettura offre un ritratto profeti­co della figura del Messia – un ritratto che riceve tutto il suo significato dal momento in cui Gesù legge questo testo nella sinago­ga di Nazareth, quando dice: “Oggi si è adempiuta questa scrittura” (Lc 4, 21). Al centro del testo profetico troviamo una pa­rola che – almeno a prima vista – appare contraddittoria.

Il Messia, parlando di sé, dice di essere mandato “a promulgare l’an­no di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 61, 2). Ascol­tiamo, con gioia, l’annuncio dell’anno di mi­sericordia: la misericordia divina pone un limite al male – ci ha detto il Santo Padre. Gesù Cristo è la misericordia divina in per­sona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio.

Il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l’un­zione sacerdotale; siamo chiamati a pro­mulgare – non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti, “l’an­no di misericordia del Signore”. Ma cosa vuol dire Isaia quando annuncia il “giorno della vendetta per il nostro Dio”? Gesù, a Nazareth, nella sua lettura del testo profe­tico, non ha pronunciato queste parole – ha concluso annunciando l’anno della misericordia.

E’ stato forse questo il motivo del­lo scandalo realizzatosi dopo la sua predica? Non lo sap­piamo. In ogni caso il Signo­re ha offerto il suo commen­to autentico a queste parole con la morte di croce. “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce…”. dice San Pietro (1 Pt 2, 24). E San Paolo scrive ai Galati: “Cristo ci ha ri­scattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Male­detto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi riceves­simo la promessa dello Spirito mediante la fede” (Gal 3,13s)

La misericordia di Cristo non è una gra­zia a buon mercato, non suppone la banaliz­zazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tut­ta la sua forza distruttiva. Egli brucia e tra­sforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendet­ta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a com­pletare nella nostra carne “quello che man­ca ai patimenti di Cristo” (Col l; 24)

Passiamo alla seconda lettura, alla lette­ra agli Efesini. Qui si tratta in sostanza di tre cose: in primo luogo, dei ministeri e dei ca­rismi nella Chiesa, come doni del Signore risorto ed asceso al cielo; quindi, della ma­turazione della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, come condizione e contenuto dell’unità nel corpo di Cristo; e, infine, del­la comune partecipazione alla crescita del corpo di Cristo, cioè della trasformazione del mondo nella comunione col Signore.

Soffermiamoci solo su due punti. Il primo è il cammino verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo ita­liano. Più precisamente dovremmo, secon­do il testo greco, parlare della “misura del­la pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nel­la fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che co­sa consiste l’essere fanciulli nella fede? Ri­sponde San Paolo: significa essere “sballot­tati dalle onde e portati qua e là da qual­siasi vento di dottrina…” (Ef 4,14). Una de­scrizione molto attuale!

Quanti venti di dottrina abbiamo cono­sciuto in questi ultimi decenni, quante cor­renti ideologiche, quante mode del pensie­ro… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da que­ste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al liberti­nismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago mistici­smo religioso; dall’agnosticismo al sincreti­smo e così via.

Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sul­l’inganno degli uomini, sull’astuzia che ten­de a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fon­damentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi ven­to di dottrina”, appare come l’unico atteg­giamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il pro­prio io e le sue voglie.

Noi, invece, abbiamo un’altra misura: i Figlio di Dio, il vero uomo. E’ lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. E’ quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità.

Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come for­mula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità.

Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e ca­rità si fondono. La carità senza verità sa­rebbe cieca; la verità senza carità sareb­be come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13,1)

Veniamo ora al Vangelo, dalla cui ric­chezza vorrei estrarre solo due piccole os­servazioni. Il Signore ci rivolge queste meravigliose parole: “Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici” (Gv 15, 15). Tante volte sentiamo di essere – come è vero – soltanto servi inutili (cf Le 17,10). E, ciò nonostante, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, ci dona la sua ami­cizia. Il Signore definisce l’amicizia in un duplice modo.

Non ci sono segreti tra ami­ci: Cristo ci dice tutto quanto ascolta dal Padre; ci dona la sua piena fiducia e, con la fiducia, anche la conoscenza. Ci rivela il suo volto, il suo cuore. Ci mostra la sua tenerezza per noi, il suo amore appassio­nato che va fino alla follia della croce. Si affida a noi, ci dà il potere di parlare con il suo io: “questo è il mio corpo…”, “io ti assolvo…”.

Affida il suo corpo, la Chiesa, a noi. Affida alle nostre deboli menti, alle nostre deboli mani la sua verità – il miste­ro del Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; il mistero del Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Ci ha reso suoi amici – e noi come ri­spondiamo?

Il secondo elemento, con cui Gesù de­finisce l’amicizia, è la comunione delle vo­lontà. “Idem velle – idem nolle”, era an­che per i Romani la definizione di amici­zia. “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando” (Gv 15, 14). L’amicizia con Cristo coincide con quanto esprime la ter­za domanda del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”.

Nell’ora del Getsemani Gesù ha trasfor­mato la nostra volontà umana ribelle in volontà conforme ed unita alla volontà di­vina. Ha sofferto tutto il dramma della no­stra autonomia-e proprio portando la no­stra vo1altà nelle inani di Dio, ci dona la vera libertà: “Non come voglio io, ma co­me vuoi tu” (Mt 21, 39). In questa comu­nione delle volontà si realizza la nostra redenzione: essere amici di Gesù, diven­tare ardici di Dio. Quanto più amiamo Ge­sù, quanto più lo conosciamo, tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di essere redenti. Grazie Gesù, per la tua amicizia

L’altro elemento del Vangelo – cui vole­vo accennare – è il discorso di Gesù sul portare frutto: “Vi ho costituito perché an­diate e portiate frutto e il vostro frutto ri­manga” (Gv 15,16). Appare qui il dinami­smo dell’esistenza del cristiano, dell’apo­stolo: vi ho costituito perché andiate… Dobbiamo essere animati da una santa in­quietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dotto della fede, dell’amicizia con Cristo.

In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi amiche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri – siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una trac­cia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimango­no; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scom­paiono.

L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio.

Ritorniamo infine, ancora una volta, al­la lettera agli Efesini. La lettera dice – con le parole del Salmo 68 – che Cristo, ascen­dendo in cielo, “ha distribuito doni agli uomini” (Ef 4, 8). Il vincitore distribuisce doni. E questi doni sono apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Il nostro mi­nistero è un dono di Cristo agli uomini, per costruire il suo corpo – il mondo nuo­vo.

Viviamo il nostro ministero così, come dono di Cristo agli uomini! Ma in questa ora, soprattutto, preghiamo con insistenza il Signore, perché dopo il grande dono di Papa Giovanni Paolo II, ci doni di nuovo un pastore secondo il suo cuore, un pasto­re che ci guidi alla conoscenza di Cristo, al suo amore, alla vera gioia. Amen

Joseph Ratzinger