Il totalitarismo laicista

di Luigi Negri

Le questioni relative alle egemonie, presunte o reali, nell’attuale contesto culturale e sociale hanno aperto un dibattito, nel quale intervengo con queste osservazioni. Ritengo che possano dare un contributo a una più pertinente definizione di temi teorici e critici e individuare forse anche campi di verifica di ipotesi storiche di cui l’attualità sembra esigere nuove tematizzazioni. Non è corretto parlare di egemonia comunista «contro» o «accanto» al complesso movimento del laicismo, come se si trattasse di una delle forze egemoniche alternative. Guardini, Maritain, Del Noce, Bontadini e p. Cornelio Fabro (per citare soltanto alcuni degli storici della filosofia moderno-contemporanei) ci hanno insegnato che la modernità è caratterizzata dal laicismo.

La modernità è un movimento di pensiero e di azione, e quindi di progettazione etica e politica, che tende a costituire l’uomo, la cultura e quindi la società «come se Dio non esistesse». Autonomia ontologica del soggetto, autonomia e autoreferenzialità etica e sociale: a partire da queste idee fondamentali (il vero Grund-Axion della modernità) si muove una linea di costruzione etico-sociale nella quale si dimostra la verità dell’intuizione guardiniana che l’uomo moderno è un uomo che «non ha bisogno che di se stesso per esistere».

È il laicismo che, allora, si pone come sostanzialmente anticattolico e quindi programmaticamente ostile alla tradizione cattolica e alla sua affermazione antropologica fondamentale: che l’uomo si costituisce soltanto nell’appartenenza al mistero di Dio, e nella sequela al mistero di Cristo e che, quindi, la vita umana viene rivelata nella sua verità ed educata alla sua piena attuazione soltanto nell’immanenza alla vita della Chiesa (cfr. R.H., 10).

Nel contesto del movimento laicistico si è poi determinata, a certe condizioni teoriche e socio culturali, la nascita delle grandi ideologie totalitarie che hanno dato luogo a sistemi totalitari, i cui esiti devastanti sono sotto gli occhi di tutti. Quando in Italia nasce e si sviluppa la perfetta macchina ideologico-politica che è il Pci comincia un movimento di reale polarizzazione dell’intero campo egemonico laicista alla battaglia comunista per la conquista del potere culturale, sociale e politico.

Storici e critici delle opzioni più diverse (ma anche in questo caso sembra illuminante il riferimento alla interpretazione delnociana del comunismo italiano) concordano nel ritenere che, per la conquista del potere, il Pci ha inglobato formulazioni del pensiero laicista, opzioni etiche, comportamenti pratici, movimenti, strutture e opere anche molto lontani dall’ideologia marx-leninista.

Il tentativo è stato condotto anche nel senso di raccogliere diverse frange del mondo cattolico, con il fenomeno ritornante di posizioni catto-comuniste. Nelle sue varie articolazioni, caratterizzate qualche volta da vere e proprie contrapposizioni, questo fronte laicistico-comunista è il vero soggetto della egemonia culturale nella società italiana, in questi ultimi cinquant’anni.

E tale soggetto ha mostrato la sua unità, anche politica, in alcuni snodi fondamentali della nostra vita sociale, in cui il progetto di scristianizzazione è stato condotto in modo determinante (per esempio, l’emendamento all’articolo 33 della costituzione con la presunta fondazione in esso del monopolio statale sulla scuola, la legge sul divorzio e la legge sull’aborto).

Che cosa sia obiettivamente accaduto dello «zoccolo duro» del comunismo in questo processo di assimilazione di posizioni laiciste, radicaleggianti, è problema molto complesso che eccede l’ambito di queste osservazioni. È indubbio comunque che il confronto anche «duro» fra l’egemonia laicista e la presenza culturale cattolica avviene sostanzialmente sul piano dei fondamenti antropologici ed etico-sociali e ha come elemento discriminante la concezione globale della vita politica e, ancor più concretamente, l’immagine e il ruolo dello Stato e delle sue strutture. Per quanto concerne la posizione dei cattolici in Italia credo sia più pertinente parlare della Chiesa, più e prima che della Dc.

La Chiesa ha certamente combattuto l’egemonia laicista lungo tutto il Novecento. La dottrina sociale della Chiesa da Pio IX a Giovanni Paolo II dimostra l’esistenza di fronte al laicismo dominante di una cultura cattolica, cosciente della propria identità e del proprio movimento vitale e tesa a proporre una propria «via» su tutti i problemi antropologici, etici, sociali e politici del mondo moderno e contemporaneo.

La linea che corre dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo Anno ai radio-messaggi di Natale di Pio XII al magistero sociale di Giovanni XXIII e di Paolo VI fino alla Centesimus Annus è limpida, coerente, determinata. Al totalitarismo laicistico, la dottrina sociale cattolica contrappone la priorità della persona umana sulla società; la priorità della società sullo Stato, cui è negata ogni soggettività «etica» e quindi ogni principio di totalizzazione della vita personale e sociale, e a cui vengono assegnati compiti di regolazione e promozione della libertà della società.

Viene poi, coerentemente, affermata la distinzione assolutamente necessaria fra struttura religiosa e struttura politica, a garanzia, congiunta, della libertà della Chiesa e del rispetto assoluto della coscienza personale. È il rifiuto inequivocabile di qualsiasi formulazione di principi come il «cuius regio eius et religio».

Ma è altrettanto certo che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi si è andata progressivamente riducendo la capacità della Chiesa, e al di là di essa dell’intero popolo cristiano, di proporre una reale alternativa culturale alla egemonia del laicismo. Non è agevole individuare, in poco spazio e in modo esauriente, i fattori che determinano questa debolezza.

È indubbio che un’orientamento (certamente non previsto dal Concilio) «modernistico» della teologia post-conciliare spiega il ripiegarsi di tanta teologia cattolica in una posizione subalterna alle istanze e alle visioni delle ideologie mondane.

Così la teologia sembra servire sempre meno la fede del popolo cristiano e la sua esigenza di proporre all’uomo di oggi l’originalità culturale ed etica che nascono da una autentica esperienza di fede ecclesiale. Spesso si ha l’impressione che il mondo cattolico viva nell’orizzonte di un dualismo fra una fede popolare che non ha né capacità né aiuti per proporre una autentica visione culturale, e una fede «dotta» che si esaurisce in sterili e datate querelles con le posizioni ideologiche di moda. È questo dualismo che spiega la difficoltà e anche la crisi dell’associazionismo cattolico ufficiale e quindi anche del partito dei cattolici italiani.

La linea non di una ripresa dell’egemonia cattolica (che in Italia non c’è mai stata nell’ultimo secolo) ma di una ripresa della capacità dei cattolici di essere propositori di una autentica cultura sociale si muove nel senso di una ripresa di identità dell’esperienza popolare della fede e, quindi del suo dinamismo missionario, come fattore genetico di originale cultura e socialità.

Tale proposta viene offerta al più ampio dialogo delle forze culturali, sociali e politiche per una «costruzione comune». Solo questo mette al bando ogni tentazione egemonica sulla società, da qualsiasi parte venga. Mi sembra questo l’insegnamento più profondo del pontificato di Giovanni Paolo II.