I cattolici e l’aborto: non può conciliarsi l’inconciliabile

Centro studi Rosario Livatino 5 Luglio 2022

di Piero Dubolino

Ancora a margine della sentenza della Corte Suprema USA Dobbs v. Jackson del 24 giugno 2022, su cui su questo sito [QUI]  e [QUI], pubblichiamo oggi l’intervento di Pietro Dubolino, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione, che confronta i suoi esiti con la sostanza della legge italiana sull’aborto, e con le posizioni espresse da alcune testate giornalistiche di area ecclesiale.

1. La recente sentenza della Corte suprema USA che, ribaltando la storica decisione del 1973 Roe vs Wade, ha escluso che l’aborto volontario sia un diritto tutelato a livello di costituzione federale non è stata accolta in ambito ecclesiali con quell’entusiastico favore che qualcuno, ingenuamente, poteva forse aspettarsi.

La preoccupazione è stata, infatti, soprattutto quella di evitare che la Chiesa potesse apparire schierata con la parte politica che, in America, sostiene più attivamente le posizioni c.d. pro life ed alla quale si addebita ex adverso di essere insensibile alla salvaguardia del diritto delle donne alla tutela della propria salute e della propria libertà.

Emblematico di questa preoccupazione è, ad esempio, l’articolo a firma di Giuseppe Lorizio, comparso su Avvenire del 1° luglio, in cui ci si barcamena in qualche modo tra il confermato rifiuto della morte come “diritto” e la rappresentata esigenza di un “dialogo” e di un “dibattito” che investano, per quanto riguarda, in particolare, l’Italia, la legge n. 194/1978, della quale si propone “un’attenta verifica”.

È appunto nell’ambito di questa verifica che l’A. si spinge a sostenere la tesi  secondo cui: “Il diritto che sinora si è affermato, attraverso questa o analoghe legislazioni, non è stato il “diritto all’aborto” ma il diritto alla tutela della salute perché, se di vita si tratta, non è in gioco solo quella del nascituro, ma anche quella della donna, che non può essere costretta a ricorrere a pratiche clandestine che ne mettano a rischio la sopravvivenza”.

Di qui, sulla premessa che “non ogni peccato è reato”, la ritenuta giustificabilità di una norma che, come quella in discorso, pur non riconoscendo “il diritto alla morte” (da intendersi riferito anche all’aborto, oltre che all’eutanasia), “depenalizzi, ovvero non colpevolizzi penalmente chi compie o aiuta a compiere tali deprecabili gesti”.

2. Si tratta di una posizione non condivisibile. In primo luogo, infatti, la circostanza che nella legge 194 non sia, in effetti, enunciato formalmente il “diritto all’aborto” (e, anzi, la stessa parola “aborto” sia del tutto assente), non può, sic et simpliciter, indurre alla conclusione che quel diritto non sia, in realtà, riconosciuto e che la stessa legge miri soltanto a rendere l’aborto non punibile. 

Proprio un’“attenta  verifica” del testo normativo consentirebbe, infatti, agevolmente di constatare che, sia pure entro il limite dei 90 giorni dal concepimento, la donna, una volta “accusata” l’esistenza di circostanze per le quali, a suo giudizio, “il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”, può senz’altro ottenere l’interruzione della gravidanza presso una delle sedi autorizzate, anche nel caso in cui il consultorio o la struttura socio sanitaria alla quale si sia rivolta non abbiano riconosciuto che quelle circostanze siano obiettivamente esistenti.

In tale ipotesi, infatti, alla donna può solo essere imposto l’obbligo di “soprassedere per sette giorni”, trascorsi i quali l’interruzione della gravidanza non può, comunque, essere rifiutata. Se non è un diritto questo, bisognerebbe allora rimettere in discussione la nozione stessa di “diritto”, quale elaborata da tutta la scienza giuridica. 

Che la legge, quindi, miri a far sì che l’interruzione della gravidanza avvenga in condizioni di sicurezza, e cioè solo presso una struttura sanitaria autorizzata, è senz’altro vero, ma è altrettanto vero che, per quanto sopra detto, tale obiettivo in tanto viene riconosciuto meritevole di tutela in quanto, a monte, viene riconosciuto, alla donna il diritto ad ottenere che quell’interruzione abbia luogo.

Se così è, viene dunque a cadere, “per la contraddizion che nol consente”, la pretesa conciliabilità, da un punto di vista cattolico, tra la legge 194, nella sua struttura fondamentale, e il doveroso rifiuto del “diritto alla morte”, con particolare riguardo a quello che viene esercitato, grazie a quella legge,  nei confronti del nascituro.

Alla conciliabilità, in realtà, potrebbe giungersi solo se (ipotesi estremamente improbabile) la legge 194 venisse modificata nel senso che, anche entro i primi 90 giorni dal concepimento, analogamente a quanto a previsto nel caso di superamento di tale termine, l’interruzione della gravidanza fosse subordinata all’accertamento, con esito positivo, della obiettiva (e non soltanto “accusata”) esistenza delle condizioni di “serio pericolo” per la salute della donna e che la stessa legge, inoltre, dettasse  dei  criteri stringenti e vincolanti sulla base dei quali la “serietà” del pericolo potesse essere in effetti riconosciuta.

Una tale modifica dovrebbe poi comportare, per logica, l’assoggettabilità della donna, nel caso che volontariamente abortisca in assenza di quell’accertamento, alla stessa sanzione penale (sei mesi di reclusione) già ora prevista dall’art. 19, comma 4, della legge 194 per il caso in cui, trattandosi di aborto effettuato oltre il termine dei 90 giorni, sia mancato (ovvero, ovviamente, abbia avuto esito negativo), l’accertamento previsto come obbligatorio dal precedente art. 7 della stessa legge. 

3. E deve a questo punto aggiungersi che la presenza stessa della suddetta sanzione svuota di contenuto la ricorrente obiezione (ripetuta anche, come si è visto, nell’articolo di Avvenire) secondo cui qualsiasi forma di criminalizzazione dell’aborto si tradurrebbe nella  “costrizione” della donna “a ricorrere a pratiche clandestine che ne mettano a rischio la sopravvivenza”.

Infatti, delle due l’una: o l’obiezione è da ritenere fondata, e allora si dovrebbe contestare  anche la norma penale  di cui al citato art. 19, comma 4, della legge 194; o non è da ritenere fondata, e allora non si vede per quale ragione, in linea di principio, non dovrebbe ammettersi che  la stessa norma trovi applicazione anche quando, introdotto, in ipotesi, l’obbligo dell’accertamento obiettivo del “serio pericolo” per la salute della donna anche per i primi 90 giorni dal concepimento, l’interruzione della gravidanza abbia luogo senza che esso sia stato effettuato o, se effettuato, abbia avuto esito negativo.

D’altra parte, l’obiezione in questione non tiene neppure conto dell’efficacia dissuasiva che, in maggiore o minore misura, è propria di ogni norma penale. Essa fa sì, con riguardo all’aborto, che  la  previsione del medesimo come reato (in assenza delle condizioni che, per legge, lo consentano), se da un lato può spingere, in effetti, una parte delle donne che  rifiutano la gravidanza a ricorrere, per disperazione, all’aborto clandestino, dall’altro lato può indurre un’altra parte di esse, probabilmente maggioritaria, a non correre il rischio della sanzione penale, che si aggiungerebbe a quello dell’aborto clandestino, e ad accettare, quindi, se non altro come male minore, la prosecuzione della gestazione (per poi magari, in molti casi, ringraziare, il Padreterno o chi per esso  proprio per aver dovuto subire quella che, al momento, era apparsa come una odiosa costrizione).

All’effetto negativo costituito, quindi, dalla possibile incentivazione del ricorso all’aborto clandestino si contrappone, in misura da presumersi preponderante, l’effetto positivo costituito dalla disincentivazione del ricorso  all’aborto “tout court”. Questo discorso, ovviamente, non è e non può essere diretto a quanti, per preconcetto ideologico, ritengono che l’aborto sia addirittura uno dei “diritti umani” fondamentali e non possa, quindi, essere sottoposto a limiti e condizionamenti di sorta.

Esso è diretto, invece, a quella che può pensarsi  sia  ancora una maggioranza, costituita  dalle persone che, a prescindere dall’adesione o meno al cattolicesimo o ad altra fede religiosa, ritengono che l’aborto sia comunque un male; ragion per cui dovrebbero  guardare con favore ad ogni politica che valga a ridurlo quantitativamente al minimo, anche mediante un ragionevole ricorso allo strumento della repressione penale, ferma restando, naturalmente, la non punibilità quando ricorra una qualche causa di giustificazione tra quelle previste dalla legge.

4. Volendo poi vedere le cose da un punto di vista più strettamente cattolico (quale dovrebbe essere quello di Avvenire), va osservato che se è vero che la Chiesa non può e non deve pretendere che lo Stato consideri ogni peccato come reato (cosa, del resto, mai avvenuta neppure nel Medio Evo, non risultando, ad esempio, che sia mai stato previsto come reato l’aver mancato alla messa della domenica o l’aver mangiato carne il venerdì), è altrettanto vero  che essa non dovrebbe avere  nulla da obiettare  se lo Stato, sulla base di sue autonome valutazioni attinenti al perseguimento dei propri fini istituzionali, attribuisce carattere di reato a comportamenti che, per la Chiesa, costituiscono anche peccato.

Ciò avviene, ad esempio, per comportamenti  quali l’omicidio, il furto, la truffa, la falsa testimonianza, la violenza sessuale ed infiniti altri, che lo Stato persegue non perché siano peccati ma perché attentano alle basi stesse della civile convivenza  che esso ha il compito primario di tutelare. E questo può valere  anche per l’aborto, che può, in linea di principio, essere considerato meritevole di sanzione penale per la sola ragione che, se lasciato sistematicamente impunito (o, addirittura, trasformato in diritto) potrebbe mettere in pericolo un bene che lo Stato ha  pure (o dovrebbe avere) il diritto-dovere di difendere: quello, cioè, della riproduzione generazionale della popolazione che, infatti, proprio a causa (tra l’altro) della diffusione dell’aborto è da tempo, com’è noto,  fortemente a rischio.

Risulta, quindi, sconcertante che, a fronte dell’ipotesi che un grave peccato quale l’aborto volontario ed ingiustificato sia anche previsto dalla legge come reato, ci si preoccupi, da parte cattolica (come risulta anche dall’articolo di Lorizio), del maggior pericolo nel quale verrebbe a trovarsi chi, per sua libera scelta,  volesse comunque commetterlo laddove si dovrebbe piuttosto valutare positivamente il fatto che la minaccia della sanzione penale contribuirebbe a far sì che il peccato non  venisse proprio commesso; il che si tradurrebbe in una maggior tutela  di quello che, per la dottrina cattolica, è e rimane, fino a prova contraria,  il bene supremo: vale a dire, la salvezza delle anime.

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