Gli altri oltre Hillary

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Hillary Clinton

Il Domenicale, 19 gennaio 2008

Tutto quello che non vi hanno detto sulle primarie Usa e i loro veri protagonisti. In Italia sembra che non ci sia che lei o al massimo Obama. I nostri giornali progressisti (ma anche no) parteggiano per i Democratici. Poche notizie sui candidati Repubblicani. Speriamo vada a finire come l’altra volta. Tutti a far parapunzipò al fighetto Kerry, ma poi rivinse il “rozzo” Bush. Spot bipartisan per i candidati di cui nessuno parla mai, ma che alla fine contano e non poco

di Marco Respinti

Le primarie sono iniziate, ma, nonostante tutto (lotte, lacrime e il sudore di qualcuno) sono ancora poca cosa. Qualche dato certo si avrà a partire dal 6 febbraio, dopo il super-martedì pieno di voti e di votanti. Epperò noi qualche pronostico lo azzardiamo. Se ci saremo sbagliati, mica ci pentiremo: interpreteremo le novità e ricostruiremo il quadro.

Rebus sic stantibus, noi vaticiniamo (e, lo sappiamo, è facile) che la lotta delle primarie si ridurrà presto, anzi prestissimo al quartetto Hillary Clinton e Barack Obama per il Partito Democratico, più John Mc Cain e Rudolph Giuliani per il Partito Repubblicano.  È vero che McCain arranca e che Giuliani non è un rubacuori, ma Mitt Romney, il mormone ultramiliardario, chi lo voterà?

Il discorso vale per le primarie, però. Per il dopo, buio pesto. Si parla di un eventuale Michael Bloomberg come terzo incomodo indipendente dopo l’estate. I denari certo li ha: ma quanti lo voterebbero davvero fuori dal suo recinto? Restiamo però all’oggi, poiché tempo per tornarci su con dati concreti alla mano ce n’è e ce ne sarà. Oggi siamo sicuri che i big si getteranno sugli Stati elettoralmente decisivi (con la California e lo Stato di New York che avranno la parola forse persino finale, il 5 febbraio, in casa Democratica): chi ha vere chance per farcela concentra infatti sforzi e soldi là dove davvero può fare la differenza.

Un commentino alla Nostradamus ci sentiamo però a questo punto di farlo.

Certe forche caudine

A sinistra madame Clinton è comunque favorita, per una serie di ragioni note a tutti e quindi inutili da ripetere. Obama, però, sembra capace d’insidiarle il titolo di reginetta del ballo. Restiamo convinti che sia un bluff, che al momento giusto si sgonfierà, che la retorica del nero alle primarie (anche se i leader dei neri arrabbiati lo chiamano “bianco” e lui ci sta) sia vuota (si veda il caso Alan Keyes qui accanto). Ma queste sono nostre illazioni.

Il fatto è questo: vediamo cosa succede quando voteranno i Democratici degli Stati del Sud profondo. Il razzismo non c’entra nulla, c’entra la storia. Per Democratici che siano, cioè oggi più o meno sempre liberal, quelli del Sud sono sempre del Sud. Se accadesse che i Democratici del Sud premiassero un nero, bisognerebbe riscrivere gran parte di ciò che si è scritto sugli USA negli ultimi anni. Vorrebbe infatti dire che esiste, come però non è mai esistita, una ideologia ufficiale di partito anche negli States e che questa ora riesce, come riesce altrove da tempo, a fare ingollare all’elettorato bocconi amari e nodi storici prima insormontabili.

Dall’altra parte, in casa Repubblicana, i problemi non sono in numero inferiore. Il Grand Old Party non è affatto un partito di destra tout court, epperò raccoglie storicamente, dalla seconda metà del Novecento, più consensi conservatori che l’antagonista Democratico. L’entità di questi dipende sempre, però, da chi è il candidato alla Casa Bianca, e qui casca l’asino. Fra McCain e Giuliani, infatti, in grado di contendersi il cuore della Destra non vi è davvero nessuno.

Quindi? Quindi, come spesso è successo nel passato, la Destra potrebbe scegliere di starsene a casa, stizzita, sdegnosa, scontenta, e decretare così l’elezione di un presidente di minoranza tutto preda della Sinistra, estrema oppure moderata. Un disastro insomma: un disastro per noi che sapete come la pensiamo, un disastro per gli Stati Uniti, un disastro per l’Occidente minato e minacciato all’interno e all’esterno, in guerra, ferito, persino sanguinante. Clinton, Obama, McCain o Giuliani: solo questione di sfumature e d’intensità…

Ma va là, direte leggendo. Fidatevi, rispondiamo. Fatevi quattro passi negli USA, appena vi capita.  “It’s the economy, stupid”, certo; ma lì cose come i gay-rights, l’aborto, le cellule staminali e l’immigrazione sono temi non solo politici, ma politicissimi. E peseranno molto, in un senso o nell’altro, sull’elettorato. Giuliano Ferrara, che gli USA li conosce, sta del resto importando lo stile anche da noi.

Per capirci un poco di più

A questo punto, sconfortati ma non sconsolati, scegliamo di guardare a quelli che non ce la faranno (in blu qui ci sono i Democratici, in rosso i Repubblicani). Manca Mike Huckabee perché di questo homo novus, piuttosto conservatore, si è parlato molto.

Premesso che tutta la retorica nostrana sul pericolo insito in campagne elettorali lunghe e lunghissime fa scappare da ridere (gli USA votano ogni due anni,  amministrative e poi presidenziali+amministrative, con le primarie che durano un anno, e dunque l’aggiunta di decine di altre elezioni intermedie e locali pure con tanto di primarie, e referendum a iosa), noi sappiamo e quindi vogliamo dire che non è che se la tivù non ne parla e i giornali ne tacciono, i candidati alle primarie spariscano.

Di solito, salvo eccezioni, si danno prima e dopo un gran da fare nel mondo delle proprie constituency. Talvolta varano progetti educativi sontuosi o animano iniziative politiche assai rilevanti, destra o sinistra che sia. Qui, insomma, vogliamo ricordare che la vita continua sempre oltre le urne, e pure prospera. E che in un Paese come gli USA molto di ciò che è decisivo si svolge lontano dalle elezioni, anche se magari grazie a persone che poi un giorno con le elezioni decidono di cimentarsi.

Chi volesse cioè capire un poco di più degli USA, e di come e perché certuni, che sembrano nati solo ieri sotto il cavolo, la spuntino infine magari pure alle elezioni, deve guardare a questi mondi. Mondi reali fatti di gente reale che a volte fa davvero la differenza.

John edwards, il liberal-tipo

Nel 1988 Johnny Reid “John” Edwards (South Carolina, 1953) è stato eletto al Senato dal North Carolina, nel 2004 ha cercato la nomination nelle primarie fallendo e poi è stato scelto come running-mate del senatore John F. Kerry del Massachusetts, cioè come eventuale vicepresidente. Alla notizia, la Camera di Commercio USA si è gettata nelle braccia di George W. Bush jr., data la contrarietà di Edwards a certe riforme intese a ridurre l’impatto dei contenziosi giuridici sull’economia.

Dopo Kerry, Edwards è tornato a lavorare per il comitato di azione politica One America Committee che ha creato nel 2001; quindi la Scuola di specializzazione in giurisprudenza dell’Università del North Carolina di Chapel Hill, sua alma mater, lo ha nominato nel febbraio 2005 direttore del Center on Poverty, Work and Opportunity; infine ha trovato impiego come consulente del Fortress Investment Group: $479.512 nel 2006 per il lavoro part-time di un uomo che, secondo The Wall Street Journal del novembre scorso, avrebbe investito $16 milioni di dollari in una a compagnia, appunto la Fortress, che pare avere ben speculato sui guai causati dall’uragano Katrina a New Orleans.

Ai tempi dell’impeachment di Bill Clinton, Edwards fu il responsabile delle deposizioni di Monica Lewinsky e del compagno di partito Vernon Jordan. Nel 2000, Al Gore pensò a lui (oltre che a John Kerry e a Joseph Lieberman, che poi scelse) per l’eventuale vicepresidenza. A suo tempo Edwards votò per il Patriot Act  e si schierò pure a favore dell’intervento militare in Irak (giudicava Saddam Hussein una minaccia per Israele e cogente lo spauracchio delle armi di distruzione di massa), ma poi ha cambiato idea.

A favore di aborto, affirmative action (le politiche per le “minoranze discriminate”, donne comprese…) e pena di morte, l’ex senatore è un tipico americano (pochi pure tra i liberal osano parlare contro la pena capitale) così com’è un tipico liberal (vedi aborto e affirmative action).

Colpito da più di una tragedia familiare, si è distinto per le battaglie contro i tagli fiscali dell’Amministrazione Bush, per l’indulgenza verso gl’immigrati (è favorevole alla regolarizzazione dei clandestini) , per l’ambientalismo, e avversa le leggi contro le unioni civili omosessuali e in difesa del matrimonio. Il politicamente corretto è insomma il suo mondo: senza estremismi, ma con pervicacia. Belloccio, giovane, in carriera, amici danarosi , jet-set. Si farà.

Mike Gravel: freddo. cinico?

L’Alaska lo ha eletto prima presidente della Camera dei Deputati nel proprio parlamento statale (1963-1966), quindi, nel 1968, senatore al Congresso federale. Successe di nuovo nel 1974 e fino al 1980. Lui è Maurice Robert “Mike” Gravel (Massachusetts, 1930): lassù in Alaska ci è arrivato negli anni Cinquanta per compravendita di terreni.

Al Congresso di Washington divenne famoso quando cercò di fermare il reclutamento di servicemen per la guerra in Vietnam (prima che, nel 1973, la leva obbligatoria venisse abolita) e per aver gettato, nel 1971, in pasto alla curiosità dell’universo mondo (e Noam Chomsky gli fu subito al fianco) i cosiddetti Pentagon Papers, 7mila pagine top-secret commissionate nel 1967 dal ministro della Difesa Robert S. McNamara a proposito delle manovre di politica interna e di pianificazione internazionale prima e durante la guerra occidentale contro il comunismo indocinese.

Che forse non gli spiaceva, come pure non antipatico forse gli stava quello cinese, visto che sei mesi prima del viaggio segreto compiuto dal Segretario di Stato Henry Kissinger a Pechino (sempre 1971) si era prodigato per la normalizzazione dei rapporti fra USA e dragone asiatico, e persino per il “ricongiungimento familiare” fra Cina e Taiwan, a spese, ovvio, della seconda.

Forte di questi exploit, nel 1972 cercò con tutte le forze la nomina a potenziale vicepresidente di George MacGovern, il quale però scelse Thomas Eagleton, senatore del Missouri.

Gravel, uomo freddo, professa due fedi: la cattolica e l’ambientalista. Nel 1974, contro il nucleare, se la faceva con Ralph Nader (il leader dei Verdi USA che quest’anno corre da indipendente senz’alcuna chance) e al contempo fu il principale sponsor della Trans-Alaska Pipeline, l’oleodotto: e pensare che c’è in giro ancora un sacco di gente che impunemente sostiene che gli antinuclearisti sono solo agenti dei petrolieri…

Due religioni, si diceva, che Gravel amalgama da sempre con salsa fredda del Grande Nord, come quando, nel 1977, raccolse fondi privati per finanziare la prima Inuit Circumpolar Conference con partecipanti da Alaska, Canada e Groenlandia. Ma dopo un po’ anche gli eschimesi si sono stancati e l’hanno mandato a casa. Alla poltica Gravel è tornato nel 1989.

Oggi sogna la Casa Bianca. Appunto: sogna. Favorevole all’aborto, all’introduzione della tassa progressiva, parla di democrazia diretta. Populismo bello e buono. Pochi “dem” lo filano, constituency confusa.

Dennis Kucinich, Gandhi in d.c.

Attualmente Dennis John Kucinich, classe 1946, ascendenza croata e irlandese, è deputato al Congresso federale in rappresentanza del 10° Distretto dell’Ohio. Ex sindaco di Cleveland (1977-1979), sua città natale, ci ha provato, in termini di primarie per le presidenziali, quatto anni fa e ci riprova pure quest’anno. Cattolico, divorziato e rimaritato per tre volte, nel 2003 ha ricevuto il Ghandi Peace Award assegnatogli dal Promoting Enduring Peace, una organizzazione quacchera e pacifista come pacifisti sono tutti i quaccheri (i quali hanno espresso due soli presidenti USA, Herbert Hoover e Richard M. Nixon).

Nel 1982, dopo rovesci finanziarie, ha cercato di diventare Segretario di Stato, ma non ce l’ha fatta. Dopo altre vicende politiche di non troppo momento, nel 1994 si è ritirato in New Mexico lontano dalle preoccupazioni «alla ricerca», ha sempre detto, «di significato». Grande sostenitore dei programmi  e delle legislazioni di Sanità pubblica, non ha mancato di mostrare indipendenza di giudizio e di valutazione prendendo le distanze rispetto alla regola del Partito Democratico. Lo ha fatto, e visibilmente, per esempio nel 2001, votando contro il Patriot Act e ancora nel 2006  contro la legge  che affidava ai tribunali militari il trattamento delle violazioni delle leggi di guerra.

Favorevole alle indagini sul presidente Clinton in vista dell’impeachment, contrario invece alla proposta di emendare la Costituzione federale per far sì che possa diventare reato grave il bruciare in pubblico le bandiere statunitensi per darsi un tono politico,  Kucinich ha dato talvolta segno d’inclinazioni pro-life, anche se mai ha detto sì alla proposta d’introdurre un emendamento a favore della vita nella legge fondamentale del Paese. Stante quest’ambiguità, questo would-be president ha deciso allora un dì del 2003 di rompere gl’indugi dichiarandosi apertamente e definitivamente pro-choice, cioè favorevole all’aborto. Disse che aveva cambiato idea e voleva farlo sapere.

Critico di Bush in politica estera, nel 2004 ha mandato una lettera di solidarietà al presidente socialcomunista del Venezuela Hugo Rafael Chávez  Frias ed è uno dei soli due deputati USA ad aver bocciato l’incriminazione di Mahmud Ahmadinejad a norma di carte ONU per le parole carine che egli usa sugli ebrei. Ah, è pure ambientalista.

Domanda: ha scontentato tutti, chi lo vota?

Alan Keyes, nero di destra

Wow, un nero si candida alla Casa Bianca. Barack Obama per tutti? No, Alan Keyes (Maryland, 1950), nero come il carbone, conservatore vero (cioè molto, molto più che solo Repubblicano), cattolico, antiabortista schietto e netto, grande oratore, educatore doc, autore di libri belli ed efficaci ed ex ambasciatore al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite per volere di Ronald W. Reagan; sotto il grande cow-boy della Casa Bianca, ha servito in qualità di assistente Segretario di Stato per gli affari di organizzazione internazionale.

Insomma, è in giro da un bel po’, Keyes; ma i nostri media parvenu vanno in giro poco a sfrucugliare fra le cose e in mezzo alla gente, anche se Keyes ha pure vissuto per un po’ pure in Italia. Keyes ci ha già provato senza successo nel 1996 e nel 2000, ma non è che, bocciato alle primarie presidenziali, sia sparito. A parte il fatto che appunto oggi ci riprova, fa da sempre un grande lavoro di collegamento e di formazione nel tessuto sociale.

Anche quest’anno non ha chance, forse meno di prima; ma correre gli fa un gran bene anche quando perde. Si mostra, infatti, e amplia il mondo dei suoi fan. E così può fare bene il lavoro che sa fare meglio: scrivere libri, educare alla libertà e alla virtù (come dicono, e gli piace dirlo, gli americani di destra). Allievo del filosofo straussiano della politica Allan Bloom, più volte minacciato di morte per aver affrontato in pubblico i dimostranti contro la guerra in Vietnam, ad Harvard divise gli appartamenti con William Kristol, attuale direttore di The Weekly Standard, quintessenza del pensiero neocon di oggi.

Ha tre figli. Nel 2005 è saltata fuori la storia che Maya, secondogenita, è lesbica. Keyes s’infuria e si rifiuta di continuare a pagarle il college. La stampa monta il caso. E allora Maya dice: ma è ovvio, come potrebbe mio padre finanziare qualcuno che opera contro ciò in cui lui graniticamente crede da sempre? Logico. In casa Keyes anche la figlia lesbica pensa bene, ordinatamente. Del resto, il buon Alan ha detto in pubblico che alla figlia non ha mai fatto mancare nulla, nemmeno un cent perché sarebbe contrario a ciò in cui crede.

Per farsi una idea di quanto sia prezioso e di qualità il lavoro che Keyes svolge quotidianamente da anni, si dia una occhiata alla sua fondazione “Renew America”. Sarebbe un grande presidente. Ma, visto che non ha possibilità, Dio lo conservi in salute per il lavoro che fa alacremente nella e per la  “Right Nation”.

Ron Paul, eroe libertarian

Viene dalla Pennsylvania, il senatore Ronald Ernest “Ron” Paul, ma si è accasato in Texas e, classe 1935, non è giovanissimo. Il che significa che è un veterano. Di molte battaglie. Tutte tese a limitare il più possibile la pressione dello Stato su individui, famiglie e loro libere associazioni, pressione che è sempre troppa, sanguinosa, insopportabile.

Paul è infatti un libertarian tipico, cioè un “estremista della libertà” che in tempi di statalismo comunque trionfante significa essere nel campo dei giusti. Ginecologo, nel 1988 si fece vedere bene come candidato presidenziale del Libertarian Party (LP) pur restando dentro il Grand Old Party, i Repubblicani. Perché i libertarian criticano di brutto i Repubblicani, epperò con i Democratici proprio no.

Quest’anno corre da libertarian (ovvio) dentro al GOP, ma l’LP gli ha fatto sapere che, mollata fra qualche tempo la presa Repubblicana, potrà correre da terzo incomodo rompiglioni come suo candidato presidenziale. La sua funzione politica più importante è infatti quella di tenere alta una bandiera, pure di “ricattare” il GOP da destra e di continuare a morderne il personale ai polpacci fra una presidenziale e l’altra.

Il sogno vero è che il GOP diventi infatti tutto di destra, libertarian quanto serve, conservatore quanto è d’uopo. Un altro sogno, già, ma bello, molto bello. Paul è uno di quelli che, con la sua sagace azione dentro il GOP (non fuori) ci permette di coltivarlo: lo permette a noi e a migliaia e migliaia di americani.

Del resto Paul (episcopaliano che un dì meditò se divenire pastore luterano) incarna virtù e paradossi, cioè pure tic, dei libertarian. Avversa il Patriot Act (ma lui da destra), vuole il gold-standard per il dollaro ed è solidamente pro-life anche se si oppone a un legge federale che bandisca l’aborto dappertutto. Lo ritiene infatti statalismo. Al suo posto propone che in materia ogni singolo Stato legiferi da sé giacché i singoli Stati sono politicamente sovrani. Parla come un vecchio confederato “sudista”, proprio come un buon numero di libertarian tutti d’un pezzo.

Tra una campagna elettorale e l’altra, infatti, Paul lega il proprio nome e la propria firma a cose utili e belle come WorldNetDaily (quotidiano telematico di destra), Ludwig von Mises Institute, e via così.

Insomma, educare, educare, educare: bene se certa gente si butta in politica, provvidenziale quando perde e si butta a capofitto su ciò che incide, forma, dura.

Mitt Romney, un po’ neocon

Classe 1947, Willard Mitt Romney è figlio di un ex governatore del Michigan: in quello Stato è nato, ma poi si è spostato nel Massachusetts. Lì ha fatto fortuna come businessman di successo e pure lui, nel 2002 (e fino al 2006), come governatore. Amministratore della Bain & Company (management consulting), fondatore della Bain Capital (investimenti privati), nonché presidente e amministratore del comitato che organizzò i giochi olimpici invernali del 2002 a Salt Lake City, nello Utah, è un miliardario di quelli veri. E un ex studente di Stanford, un giusperito laureato ad Harvard e un mormone, in gioventù missionario in Francia (dove pure soffrì un grave incidente automobilistico).

Peraltro, la cosa gli ha già creato non pochi problemi, giacché una parte cospicua degli americani di obbedienza evengelicale lo guardano più che con sospetto. Ai loro occhi, infatti, il mormonismo è solo una setta (non una Chiesa) e quindi deve avere poco spazio pure nella “Terra dei liberi”. Del resto, un’altra parte di evangelicali e molti di coloro che si riconoscono (o che vengono definiti) “conservatori sociali” lo criticano perché poco in sintonia con i loro princìpi.

Preparandosi dunque a questo 2008, Romney (che non è certo uno sprovveduto) ha accusato il colpo e ha rilanciato. Sostenendo che la realtà lo ha cambiato nel corso degli anni, modificando pure le sue prospettive politiche, il miliardario che corre per la Casa Bianca si è negli scorsi mesi sempre più presentato in pubblico utilizzando un linguaggio vicino a quello dei conservatori.

Nel 1994 fu visto farsela con la Planned Parenthood e udito fare commenti filoabortisti, ma dice di essersi sbagliato. Oggi veicola, di genere, un messaggio pro-life, e questo, per la Destra in cerca di un vero candidato, con Sam Brownback fuori e Alan Keyes anche, potrebbe (potrebbe) voler dire farsi almeno in parte conquistare. Del resto, fra i “minori” Romney è quello che oggi ha maggiori possibilità di tutti: il che non significa moltissimo, ma è comunque qualcosa.

La prova del fuoco è venuta del resto nel 2003, allorché la Corte Suprema dello Stato del Massachusetts si pronunciò a favore delle unioni civili omosessuali: Romney si schierò contro e si diede da fare per l’introduzione di un emendamento alla Costituzione del Massachusetts che le vietasse. Nel vasto mondo conservatore, qualcuno è disposto a ricordarsene. Piuttosto duro sull’immigrazione clandestina, Romney è a favore della pena di morte  e della linea Bush sulla guerra al terrorismo. Anche questo a destra piace.

Fred Thompson, domani forse

Il presidente alla Casa Bianca lo ha già fatto due volte. Fra l’altro pure attore, ha infatti interpretato Ulysess S. Grant in Bury My Heart at Wounded Knee (film per la tivù USA dell’HBO, 2007), tratto peraltro da un noto libro di Dee Brown che certo non è un granché, e Rachel and Andrew Jackson: A Love Story (HBO, 2001), dove, ovvio, recita la parte di “Andie”. I più però lo conoscono per la serie Law & Order.

Freddie “Fred” Dalton Thompson (Alabama, 1942) ha presieduto l’International Security Advisory Board del Dipartimento di Stato americano, è membro della the U.S.-China Economic and Security Review Commission, del Council on Foreign Relations (CFR) ed è visiting fellow all’American Enterprise Institute (AEI), il think tank neoconservatore di Washington dove operano tipi come Michael Novak, Joshua Muravchick, David Frum e Michael A. Ledeen.

Insomma, il linguaggio della Destra lo conosce, e anche bene; quando vuole, pure lo parla. Dire però che è il candidato del mondo conservatore tout court sarebbe esagerare. Per alcuni, il fatto che venga dall’AEI è una garanzia; per altri, il fatto che faccia parte del CFR un anatema. È un federalista convinto, sostiene che i singoli Stati dell’Unione debbano avere più voce in capitolo, non pensa si debba emendare la Costituzione federale introducendo una provvisione contro i “matrimoni gay” ma vuole che lo facciano i singoli Stati nelle proprie leggi fondamentali, è contro l’aborto. Epperò il CFR passa per essere una “massoneria” di poteri oscuri…

Come conciliare le due cose? È questa la domanda a cui Thompson deve rispondere, e presto se vuole costruirsi una constituency consistente. Oggi come oggi, ha pochissime chance. Eppure, con il tempo, come chi ha avuto successo, potrebbe farsi; deve però chiarire la propria offerta. È infatti dentro l’establishment quanto serve e potenzialmente in sintonia con il mondo conservatore quanto basta per cercare di lucrarne; epperò negli anni futuri.

Deve infatti seminare ancora, e molto, come  del resto hanno fatti tutti i nomi grossi e vincenti che lo hanno preceduto.

In campagna elettorale la sua ambivalente ma non ambigua piattaforma basta e avanza. Se una cosa infatti l’era Bush jr. insegna è questa. Vinci, e pure bene, e una volta presidente dài persino il meglio, trasformando la maior pars che ti ha eletto in una sanior pars dove i numeri non contano ma le cose vere sì.

Duncan Hunter, vero pro-lifer

Duncan Lee Hunter è deputato in California (dov’è nato nel 1948) dal 1981. Oggi prova il grande balzo. Anche lui, come quelli che gli tengono compagnia in queste due pagine, ha poche possibilità reali, ma di spirito ne ha da vendere.

Veterano del Vietnam fra 1970 e 1971, ha sempre esercitato un forte appeal negli ambienti militari e fra gli ex dei campi di battaglia. I suoi temi forti sono dunque normalmente quelli legati alla difesa nazionale, oggi alla lotta contro il terrorismo internazionale, alla dignità delle forze armate, alla necessità di strategie chiare e nette per i terreni dello scontro militare, e così via.  Del resto, suo figlio è stato sul fronte irakeno e da lì l’anno scorso ha pure fatto politica attiva, con la benedizione del padre.

Avvocato, di confessione protestante battista, Hunter ha saputo come fare breccia nel mondo conservatore, specie in quello pro-life (il quale non si sovrappone completamente al primo giacché più ampio, eppure lo qualifica certamente in modo vasto e profondo). Il 2 febbraio 2005, infatti, Hunter ha proposto una legge, la H.R. 552, ossia The Right to Life Act,  la quale garantisce eguale tutela del diritto alla vita di qualsiasi persona umana, nata o non ancora nata.

La provisione riconosce anche la “personalità” di un essere umano dal momento del suo concepimento e quindi garantisce a essa il pieno godimento dei diritti costituzionali che spetta a ogni cittadino degli Stati Uniti. È ancora lì, non è passato, ma pesa, eccome, soprattutto per gli elettori, pro o contro che siano.

Hunter è ben noto in patria per la battaglia condotta contro la pornografia e, su altri argomenti, contro l’immigrazione clandestina. Ricordate il muro che deve separare la frontiera sudoccidentale degli Stati Uniti da quella nordorientale del Messico? Hunter ne è un grande sponsor pubblico e politico, senza vergogna.

E duro e coerente è da sempre anche nella lotta con poco quartiere che conduce da anni contro quelle strutture di organizzazione del commercio internazionale quali NAFTA, CAFTA e WTO percepite mediamente dalla Destra statunitense come spocchiosamente antinazionali e pure d’impronta dirigistica. Non è forse la quintessenza del conservatorismo, Hunter, ma alla Destra sa come parlare. I voti oggi li cerca lì. Dopo le primarie , sarà in quel mondo che opererà, e certamente bene.

(A.C. Valdera)