di Marco Respinti
Da decenni Christopher Tolkien, anch’egli filologo di vaglia, oggi quasi 90enne, rovista nell’immenso lascito del padre, scovando prime versioni, rispolverando testi abbandonati, dissotterrando gemme.È il caso de La caduta di Artù (Bompiani, Milano 2013; pp. 300, €, 20,00), poema allitterativo di un migliaio di versi tradotto in italiano, a pochi mesi dall’uscita originale, nel maggio scorso, da Sebastiano Fusco e curato da Gianfranco de Turris.
Tant’è che il suo re di Camelot, il suo Lancillotto e la sua Ginevra sono parecchio diversi da quelli cui ci ha abituato il “ciclo arturiano”. Come sempre in Tolkien, i caratteri sono piuttosto maschere shakespeareane, ovvero personae da teatro greco.
Calcano il suolo del realismo mitico per consegnare storie vere anche se non sempre materiali, facendole indossare al lettore.Tolkien scrisse il poema imitando il Beowulf,che è matrice e sigillo di ogni cosa anglosassone, e intrecciando (notano bene Fusco e de Turris) tre piani: l’amore illecito di Lancillotto e Ginevra che infiniti adduce lutti alla causa imperitura di Artù; la storia delle calate barbariche che travolgono il resto della gloria di Roma; e la metastoria dove si confrontano il bene e il male.Per Tolkien, la storia è tutta un grande “medioevo” in cui il male trama per nascondere la meta-premio finale.
Nemmeno l’oasi di Camelot è immune, e nessuno è confermato in grazia una volta per tutte.La caduta di Artù contiene, in sublimità, già tutti gli archetipi che Tolkien svilupperà scrivendo e riscrivendo le sue famose opere ambientate nella Terra di Mezzo. Bene ha fatto, dunque, il figlio Christopher a commentarne La caduta di Artù con il corposo saggio La parte non scritta del poema e la sua relazione con “Il Silmarillion”.
Il senso dei “tempi ultimi” nell’uno è già tutto nella “battaglia finale” dell’altro, e il messaggio, il grido è il medesimo.Estote parati, siate sempre pronti perché non è su questa terra il luogo del riposo.