Come è cambiata la politica Usa in Medio Oriente

Inside Over  – DOSSIER – Agosto 2023

Il nuovo Medio Oriente  

Il Medio Oriente sta cambiando pelle. Dal lungo addio degli Stati Uniti, passando per il nuovo ruolo delle potenze regionali: Arabia Saudita e Iran in testa, tutta l’area è in fermento. Gli accordi di Abramo restano in bilico, e intanto alcuni focolai di tensione non accennano a diminuire. E sullo sfondo compare la Cina e il nuovo ruolo che è pronta a ricoprire

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Inside Over  – dossier – 15 Agosto 2023

Da Saddam all’ascesa della Cina: 

com’ è cambiata la politica Usa in Medio Oriente

Lorenzo Vita

La partita degli Stati Uniti in Medio Oriente è al momento particolarmente complessa. Per molti anni, soprattutto nella fase successiva alla vittoria della Guerra fredda nei confronti dell’Unione Sovietica e quindi con il collasso dell’impero socialista e dei suoi satelliti, gli Stati Uniti sono apparsi sostanzialmente in grado di decidere i destini della regione. In assenza di superpotenze rivali, Washington ha condotto la prima guerra nel Golfo per poi attestarsi su una posizione di vantaggio in diversi scacchieri locali. La guerra al terrore scatenata dopo l11 settembre 2001 ha ulteriormente rafforzato questa posizione di forza, facendo sì che Washington conducesse una campagna politica, militare e di sicurezza in un’area che ha unito il Medio Oriente all’Asia centrale strutturando un impegno enorme sia a livello umano che di costi.

La guerra in Iraq del 2003 ha rappresentato per certi versi la fase più evidente di questa consapevolezza Usa del proprio predominio nella regione. L’impegno diretto contro Saddam Hussein, in una forma apparsa di fatto unilaterale anche in assenza di un appoggio politico di alcuni tra i maggiori alleati europei e non, appariva come un segno eloquente di questa volontà di Washington di consolidare la propria leadership nel complesso mondo mediorientale. Ma è proprio da quell’impegno iracheno che possono osservarsi una serie di elementi che sono stati alla fine tanto il frutto di un tentativo di leadership quanto le cause del cambiamento di postura strategica Usa nella regione.

Le due “guerre infinite”

La guerra in Afghanistan e la guerra in Iraq, come detto in precedenza, rappresentano tanto l’apice di una fase di espansione quanto l’inizio di un graduale ripensamento della politica Usa. La conquista dell’Afghanistan nella guerra contro il terrore e contro i talebani si trasforma in un conflitto da cui gli Stati Uniti non possono uscire, e che provoca perdite di vite umane e di denaro dei contribuenti che la politica statunitense non riesce più a fare accettare all’opinione pubblica. Stesso discorso vale per l’Iraq, dove l’invasione che ha portato alla caduta di Saddam non conduce ai risultati sperati da molti segmenti dell’elettorato americano.

Con la presidenza di Barack Obama, il tema dell’impegno americano in Medio Oriente e in Afghanistan inizia a essere parte integrante dell’agenda Usa. Il presidente democratico cerca di portare alla Casa Bianca una novità nell’approccio al Medio Oriente. Da una parte, Obama cerca di ridurre i contingenti statunitensi all’estero, arrivati a una quota di circa 150mila uomini. Dall’altra parte, l’obiettivo del presidente Usa è anche quello di responsabilizzare la regione mediorientale, facendo leva tanto sugli alleati storici quanto su quegli avversari con cui cerca di risolvere le dispute più feroci e pericolose per la stabilità internazionale. In primis con l’Iran, con cui raggiunge un faticoso accordo sul programma nucleare che verrà condannato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e poi cancellato dal successore Donald Trump.

Gli obiettivi di Obama vengono però sostanzialmente oscurati e resi inarrivabili dal corso degli eventi. Le scelte del presidente democratico, infatti, si rivelano del tutto inefficaci tanto nella responsabilizzazione dei partner locali quanto nella riduzione dei costi. Questo viene confermato sia nei vecchi conflitti (Afghanistan e Iraq) sia in quelli che esplodono sotto la sua presidenza dopo le cosiddette Primavere arabe. In Iraq, l’impegno statunitense si rivela inadeguato a gestire la transizione politica, al punto che a Baghdad inizia a penetrare in modo sempre più massiccio l’influenza iraniana, antico nemico del regime di Saddam. In Afghanistan, il cosiddetto surge di Obama per mettere a tacere il risveglio talebano con l’idea di ritiro subito dopo, si rivela una mossa del tutto priva di una reale prospettiva di vittoria, contribuendo anzi a una maggiore resistenza degli studenti coranici unita all’assenza di una chiara strategia sul nuovo Afghanistan post-bellico. Nel frattempo, gli errori nella gestione della guerra irachena si rivelano soprattutto nella nascita di quelli che diventano gli incubatori del futuro Stato islamico: le prigioni.

Il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki e il presidente iracheno Jalal Talabani insieme al vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden e all’ambasciatore americano in Iraq James Jeffrey, salutano durante l’esecuzione degli inni nazionali iracheno e statunitense nel corso di una cerimonia speciale a Camp Victory, una delle ultime basi americane nel Paese, a Baghdad, Iraq, il 1° dicembre 2011. Foto: EPA/Khalid Mohammed/POOL

La guerra in Siria e in Yemen e le contraddizioni Usa

La guerra allo Stato islamico, giustificata con gli stessi provvedimenti che resero possibile la prima grande guerra al terrorismo, si trasforma presto nel maggiore impegno di una nuova Coalizione a guida Usa che combatte contemporaneamente in Iraq e Siria.

Questo conflitto si trasforma presto in un laboratorio per un nuovo approccio di Washington nei conflitti locali. Gli Usa non possono permettersi nuovi boots on the ground, anche perché questo sarebbe in contraddizione con l’impegno di Obama. Tuttavia, gli Stati Uniti cominciano da un lato a sostenere le forze locali che combattono tanto Bashar al Assad quanto lo Stato islamico, e dall’altro, intervengono con raid chirurgici, forze speciali e poche truppe per contribuire a sostenere gli alleati.

La guerra in Siria, più dell’ascesa in Iraq dello Stato islamico, assume però dei connotati subito diversi. Al conflitto contro il terrorismo islamico, si unisce infatti la sfida – mai diretta – contro l’allargamento dell’influenza russa e iraniana nel Paese. Mosca e Teheran, e con quest’ultima le principali milizie sciite a essa legate, sono intervenute sostegno di Damasco nel tentativo (poi riuscito) di evitare la caduta del regime. Tuttavia, questo ha portato gli Stati Uniti a trovarsi in una situazione particolarmente difficile di guerra all’Isis, intransigenza contro il regime siriano, sostegno alle forze locali, in particolari a quelle curde (a loro volte nemiche di un alleato Usa come la Turchia) e, infine, sfida per l’influenza sul Medio Oriente. Una condizione che ha spesso esacerbato anche delle contraddizioni nell’agenda Usa che sono arrivate alla propria opinione pubblica, al punto che spesso nell’ala repubblica trumpiana si è perorata la causa dell’impegno esclusivamente contro Isis o addirittura del ritiro.

In questo, un peso specifico nell’immagine che è arrivata dell’impegno Usa in Siria è stato l’abbandono dei curdi, alleati nella guerra allo Stato islamico ma sostanzialmente lasciati nel momento in cui la Turchia di Recep Tayyip Erdogan ha fatto scattare diverse campagne militari nel nord del Paese.

Lo Yemen, infine, ha mostrato un altro lato del nuovo approccio statunitense nell’area. Un conflitto che si è rivelato in particolare nella lotta contro le formazioni di Al Qaeda o legate alla galassia qaedista in Yemen, ma allo stesso tempo un impegno che si è trovato di fronte all’ascesa dell’influenza iraniana nella Penisola araba attraverso la milizia Houthi. Anche in questo caso, l’approccio si è rivelato di difficile comprensione per molti segmenti dell’opinione pubblica, che hanno anche criticato la guerra della Coalizione a guida saudita contro le forze ribelli, mostrando perplessità nella politica estera Usa con i partner regionali.

Il fallimento dell’accordo sul nucleare

L’ascesa della cosiddetta Mezzaluna sciita si è poi unita a quello che per gran parte del mondo repubblicano Usa e per i governi israeliani è stato il vero fallimento dell’amministrazione Obama: l’accordo sul nucleare iraniano.

Questo accordo, siglato per evitare che la sfida tra Israele e Repubblica islamica potesse sfociare in un conflitto diretto tra i due Stati, ha mostrato molteplici lacune e, secondo i critici, un eccesso di credito nei confronti degli Ayatollah. Non è un caso che Trump, fortemente vicino alle posizioni di Benjamin Netanyahu, abbia scelto immediatamente di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo, suscitando le ire dell’Iran ma anche le critiche di quella parte della comunità internazionale ancora convinta della necessità di un patto sul programma nucleare.

La decisione di Trump è stata tuttavia un’immagine eloquente delle difficoltà statunitensi nel gestire la regione, palesando quella sensazione di ritiro già adombrata nell’ascesa in tutta la regione dell’Iran, capace di inserirsi nella politica di molti Stati e di muovere le proprie forze e i proxy in tutti i conflitti regionali. Per The Donald, questa capacità aveva un nome: il generale Qasem Soleimani. Non a caso, l’artefice dell’espansione della Repubblica islamica in Medio Oriente si è trasformata nel principale obiettivo dell’intelligence Usa, al punto che lo stesso Trump diede l’ordine di ucciderlo con l’uso di un drone mentre si trovava a Baghdad.

Raid chirurgici e saldatura anti Iran

L’uccisione di Soleimani, di Al Muhandis e la continua guerra chirurgica ai leader dello Stato islamico ha mostrato il nuovo approccio di Trump ai conflitti regionali. Per il presidente Usa, arrivato alla Casa Bianca con l’idea di concludere le “guerre infinite”, l’impegno Usa avrebbe dovuto essere letale e con il minor numero di uomini possibile. Una scelta che piacque molto all’elettorato Usa, attirato dall’idea di una riduzione dei costi economici e della quasi assenza di perdita tra i soldati

Allo stesso tempo, per il capo della Casa Bianca il nuovo Medio Oriente (e quindi il nuovo tipo di lavoro Usa nella regione) deve essere sostanzialmente delegato alle forze regionali, che devono così appianare storiche divergenze nella sfida a un nemico comune: l’Iran. Proprio questa nuova modalità di approccio al Medio Oriente è il motivo per cui Trump punta tutto su due partner: Arabia Saudita e Israele. Ma per il presidente Usa, tutto deve sostanziarsi nel riconoscimento dello Stato ebraico e nel successivo impegno contro Teheran.

Per ottenere questo risultato, la mossa Usa è quella degli Accordi Abramo, una piattaforma che vede una serie di Paesi arabi impegnarsi nel riconoscimento di Israele come entità del Medio Oriente e legate a Washington da uno stesso piano geopolitico su scala regionale.

Il ritiro dall’Afghanistan

Nel frattempo, il modo in cui Trump osserva il Medio Oriente viene declinato anche nell’altra grande guerra Usa: l’Afghanistan. Il leader repubblicano, anche in questo caso, sceglie un duplice binario: attacchi mirati e letali, nuovi accordi per consentire il ritiro delle truppe Usa (e con esse occidentali) con i nuovi padroni dell’Afghanistan. Padroni che però sono quegli stessi Talebani combattuti per due decenni.

La scelta di Trump, sugellata negli accordi di Doha con alcuni alti rappresentanti degli “Studenti coranici”, si rivela tuttavia utile per sostenere la propaganda della fine delle “guerre infinite” Usa ma nefasta per il destino dell’Afghanistan. Joe Biden, giunto alla Casa Bianca quando l’accordo deve ormai prendere forma, si trova a gestire un patto che di fatto crea le premesse per lo scioglimento dello Stato e per l’arrivo precipitoso e senza alcuna transizione dei talebani e di altre organizzazioni islamiste. Il ritiro dall’Afghanistan da parte di Biden, giunto repentinamente e senza alcun tipo di condivisione con gli alleati occidentali, si rivela un disastro di immagine per Washington e un punto di non ritorno per il Paese dell’Asia centrale. I profughi cercano in tutti i modi di lasciare l’Afghanistan, mentre il sangue degli afghani e dei soldati Usa scorre in una serie di attentati terroristici.

Immagini che per un certo periodo sembrano anche rivelare la debolezza dell’architettura atlantica, e che mettono a repentaglio i rapporti tra Biden e gli alleati europei.

L’arrivo della Cina

Gli errori degli Stati Uniti, le contraddizioni di un impegno spesso difficile da comprendere per le forze locali, e la vecchia regola aurea della geopolitica, ovvero che il vuoto lasciato da una potenza prima o poi viene colmato da un’altra, lasciano campo libero a una superpotenza che per molto tempo è rimasta nell’ombra rispetto al Medio Oriente: la Cina.

Pechino, sfruttando le crepe di un disimpegno Usa apparso rapido e a volte disordinato, si è inserita su tutti i fronti, dall’Iran, con cui ha costruito una partnership strategica di notevole importanza, alle monarchie del Golfo, vecchie alleate Usa ora attratte dalle sirene di una potenza in cerca di petrolio come la Cina. Nel frattempo, le guerre e la distruzione portata da esse nei Paesi più colpiti, aprono le porte agli investimenti della Repubblica popolare, come si evince dai primi accordi per la ricostruzione in Siria. E a coronamento di questo, l’iniziativa della Nuova Via della Seta, sia marittima che terrestre, vede nel Medio Oriente un corridoio fondamentale, saldandolo l’economia della Cina con le infrastrutture di questi Stati e con i maggiori scali.

Oggi questo impegno cinese nell’area si è manifestato in modo palese soprattutto con una novità del panorama regionale: l’accordo tra Arabia Saudita e Iran. La scelta dei due Paesi di normalizzare i loro rapporti riaprendo le ambasciate è stata benedetta proprio da Pechino, che a sua volta vede con interesse il disgelo mediorientale anche nei riguardi della Siria. Ma gli accordi economici rappresentano l’architrave di questa nuova importante leva della politica asiatica.

Le tensioni con l’Iran continuano

Il ritiro strategico degli Stati Uniti non esclude, tuttavia, l’idea di blindare il Golfo Persico, provando a dare un’ultima decisa virata a un percorso di ritirata che non deve apparire come disimpegno o declino. Questo per due ragioni. Da un lato gli Stati Uniti vogliono confermare la loro importanza in un quadrante fondamentale per i destini del mondo e, più nello specifico, del mercato del gas e del petrolio. Dall’altro lato, la volontà Usa è quella di bloccare le aspirazioni cinesi, che si saldano a una rinnovata volontà di leadership e autonomia delle potenze locali, a partire da Arabia Saudita ed Emirati, tanto quanto colpire l’influenza russa in Siria e il suo asse con l’Iran.

In tutto questo, la questione iraniana rimane ancora pienamente sul tavolo. La guerra ombra con Israele prosegue nella speranza dello Stato ebraico di interrompere le ambizioni atomiche degli Ayatollah così come spezzare la Mezzaluna sciita. I sequestri delle navi nel Golfo Persico, un pericolo per la libertà di navigazione che da sempre è il pilastro della politica Usa nel mondo, rappresentano solo l’ultimo dei motivi di questa latente tensione. E la più recente decisione americana di aumentare le forze nel Golfo aerei, mezzi navali e uomini conferma l’idea che Washington non dimentica quel quadrante. Seppure in una realtà molto diversa e sempre più caotica.

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Indice del DOSSIER: 

1 . La guerra in Yemen, il terrorismo: gli ultimi focolai di crisi in Medio Oriente

2 . Da Saddam all’ascesa della Cina: com’è cambiata la politica Usa in Medio Oriente

3 . Il nuovo Medio Oriente e il futuro degli Accordi di Abramo

4 . Il disgelo siriano: così si è riaperto il dialogo con Damasco

5 .  La mossa a sorpresa di Xi: perché la Cina punta sul Medio Oriente