Colpi di stato in Africa

Abstract: Colpi di stato in Africa. I golpe erano stati frequenti nei primi decenni dopo la fine della colonizzazione europea, poi il continente sembrava essersi avviato verso l’adozione di istituzioni democratiche, almeno formalmente, invece con il golpe nel Niger, l’attenzione dei media si è rivolta ancora all’Africa, dove  i colpi di Stato sono nove in quattro anni e dove si vota, come  in Centrafrica, Zimbabwe e Gabon, è per confermare i leader al potere. 

La Nuova bussola quotidiana 28 Agosto 2023

Centrafrica, Zimbabwe, Gabon:

storie di democrazie fallite

Dopo il golpe nel Niger, l’attenzione dei media si è rivolta ancora all’Africa. Nel continente nero i colpi di Stato sono nove in quattro anni. Dove si vota, come in questi casi in Centrafrica, Zimbabwe e Gabon, è per confermare i leader al potere. 

di Anna Bono

Il colpo di stato militare del mese scorso in Niger ha richiamato l’attenzione sullo stato della democrazia in Africa. I golpe erano stati frequenti nei primi decenni dopo la fine della colonizzazione europea, poi il continente sembrava essersi avviato verso l’adozione di istituzioni democratiche, almeno formalmente. Invece quello del Niger è il nono golpe in Africa sub-sahariana in quattro anni e nel solo 2022 si contano anche tre colpi di stato falliti: in Gambia, Guinea Bissau e nell’arcipelago di Sao Tomè e Principe.

Jacob Zuma

Inoltre in molti casi le istituzioni politiche sono in realtà simulacri di democrazia, di molti Paesi si dice che siano “democrazie imperfette”, un’espressione che dissimula regimi autoritari, poteri conquistati con brogli e accordi segreti. Il Sudafrica, ad esempio, dopo la fine dell’apartheid ha visto un partito, l’Anc, e i suoi uomini controllare la scena politica. Ne hanno approfittato al punto che il governo del Paese durante la presidenza di Jacob Zuma (2009-2018) è stato gestito secondo gli interessi del capo dello Stato, dei suoi collaboratori più stretti e dei Gupta, una ricchissima famiglia di origine indiana: un caso di “state capture” (letteralmente, cattura dello Stato). Sorge il sospetto che la regola democratica della divisione dei tre poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – in Sudafrica si sia intesa rispettata per averne situato le sedi in tre città capitali: il governo a Pretoria, il parlamento a Città del Capo e la Corte Suprema a Bloemfontein.

Dopo il golpe in Niger, l’esito di due recenti consultazioni popolari conferma i timori sullo stato della democrazia in Africa.

Il 30 luglio nella Repubblica Centrafricana, nonostante il parere contrario della Corte costituzionale, è stato convocato un referendum per apportare alcune modifiche radicali alla costituzione. Il 95,27% dei votanti le ha approvate. L’emendamento più importante è quello che prolunga da cinque a sette gli anni del mandato presidenziale ed elimina i limiti al numero di mandati (due, finora) che un cittadino può ricoprire. Questo consentirà all’attuale presidente, Faustine-Archange Touadéra, al suo secondo mandato, di restare carica più a lungo e di ricandidarsi quante volte vorrà. Con altri emendamenti è stata istituita la carica di vicepresidente, su nomina presidenziale, si è introdotto il sistema unicamerale, abolendo il senato, è stato fatto divieto ai cittadini con doppia nazionalità di candidarsi alla carica di presidente, sono stati portati da 9 a 11 i giudici della Corte Suprema, in maggioranza nominati dal governo, e al Parlamento è stato tolto il diritto di controllare i contratti minerari.

Nella Repubblica Centrafricana continua la guerra civile incominciata nel 2012, numerosi gruppi armati controllano tre quarti del territorio nazionale. Il presidente Touadéra e il suo governo, arroccati nella capitale Bangui, devono l’esistenza ai mercenari russi del gruppo Wagner che dal 2017 presidiano e rendono sicura la capitale e i suoi dintorni. In cambio hanno ottenuto di poter sfruttare le miniere d’oro e le altre ricchezze del paese.

Il 23 agosto in Zimbabwe si è votato per eleggere capo dello Stato e Parlamento. Con 52,6% dei voti è stato rieletto il presidente in carica, Emmerson Mnangagwa. Il suo partito, lo Zanu-PF, si è assicurato la maggioranza in parlamento con 136 seggi su 210. Mnangagwa ha conquistato la carica nel 2017 con il golpe bianco con cui ha deposto Robert Mugabe, al vertice dello Stato dagli anni 80 del XX Secolo. Mugabe ha esercitato il potere spietatamente infierendo sugli avversari politici, portando alla bancarotta una delle economie più solide del continente e condannando alla povertà gran parte della popolazione.

Dopo il golpe Mnangagwa aveva promesso ai suoi connazionali e al mondo sviluppo, giustizia, rispetto dei diritti umani. Invece ancora il paese lotta contro livelli astronomici di inflazione (del 101,3% a luglio, la più alta del mondo), povertà, disoccupazione (solo il 25% della popolazione in età lavorativa svolge attività regolari) e vive nella morsa del terrore. Forse in realtà nessuno si era illuso che qualcosa potesse cambiare con la sua scomparsa perché il soprannome di Mnangagwa è “Il Coccodrillo” e lo ha meritato fin dai tempi in cui, in quanto ministro della sicurezza nazionale e capo del servizi segreti, ha contribuito allo sterminio di migliaia di Ndebele durante la guerra civile, scoppiata subito dopo l’indipendenza, tra lo Zanu di Mugabe e lo Zapu, il partito del suo avversario Joshua Nkomo, espressione dell’etnia Ndebele.

Emerson Mnangagwa

La vittoria di Mnangagwa e dello Zanu-Pf, partito di maggioranza da 43 anni, affossa le deboli, disperate speranze di cambiamento. Lo Zimbabwe è stato per anni esportatore di materie prime pregiate e granaio dell’Africa australe. La “riforma agraria” di inizio secolo, in realtà lo sconsiderato esproprio delle grandi fattorie che ha dato il colpo di grazia all’economia nazionale, in pochi anni ha costretto tre milioni di persone, un quarto della popolazione, a espatriare e ha reso circa quattro milioni di zimbabwani dipendenti dagli aiuti alimentari e sanitari forniti dalla comunità internazionale.

Una terza consultazione elettorale si è appena conclusa in Africa e ancora non se ne conosce l’esito. Il 26 agosto si sono aperte le urne in Gabon per eleggere il presidente della repubblica. Ali Bongo, presidente in carica, si è candidato per un terzo mandato. Suo maggiore avversario è Albert Ondo Ossa, un economista, che ha impostato la sua campagna elettorale sulla promessa di creare posti di lavoro e opportunità per i giovani, uno dei quali su tre è disoccupato. Il Gabon è un paese produttore di petrolio, ma un terzo dei suoi 2,4 milioni di abitanti vive sotto la soglia di povertà. In 19 anni Ali Bongo non si è preoccupato di migliorarne la condizione. Durante la campagna elettorale ha provato a rinnovare la propria immagine cercando il contatto con gli elettori. Il potere lo ha ereditato dal padre, Omar, uno dei dittatori africani più longevi, avendo governato dal 1967 al 2009, scandalosamente impegnato ad attingere alle ricche casse statali per vivere nel lusso, in patria e all’estero. Ali aspira a seguirne le orme per molti anni ancora.

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