Cibo a chilometro zero, un luogo comune

Abstract: Cibo a chilometro zero, un luogo comune. Se pensi che “mangiare locale” servirà a salvare il pianeta, faresti bene a pensarci meglio, perché il grosso delle temute emissioni non deriva affatto – come probabilmente credi – dal trasporto di quello che metti in tavola, bensì dal suo processo di produzione; e a questo livello non è detto che i produttori a “chilometro zero” siano più virtuosi delle malvagie multinazionali.

Tempi 9 Giugno 2023 

Occhio alla “trappola” del chilometro zero

Con una raffica di citazioni di studi scientifici l’ultra ambientalista Guardian mette in dubbio il luogo comune per cui “mangiare locale“ fa bene all’ambiente: non è affatto detto

di redazione

Se pensi che “mangiare locale” servirà a salvare il pianeta, faresti bene a pensarci meglio, perché il grosso delle temute emissioni non deriva affatto – come probabilmente credi – dal trasporto di quello che metti in tavola, bensì dal suo processo di produzione; e a questo livello non è detto che i produttori a “chilometro zero” siano più virtuosi delle malvagie multinazionali. Anzi, spesso è vero il contrario. A sostenere tutto ciò è niente meno che il Guardian, quotidiano anglosassone di rigida osservanza liberal che ha fatto della lotta ai cambiamenti climatici uno dei suoi princìpi guida.

Con un interessante articolo di Cecilia Nowell pubblicato mercoledì nell’ambito di una serie di contenuti volti a raccontare «i guasti del sistema di produzione alimentare americano» (progetto realizzato con il sostegno di The Schmidt Family Foundation e con l’eloquente titolo “About Our Unequal Earth”), il Guardian mette in crisi quello di cui sono convinti «circa due terzi degli statunitensi» secondo una rilevazione della Purdue University: ossia che mangiare cibo a chilometro zero faccia bene all’ambiente.

Come nasce un mantra

Il luogo comune alla base del mantra del “mangiare locale”, ricorda il giornale britannico, ha cominciato a diffondersi enormemente in America a partire dagli anni Sessanta-Settanta con le campagne degli hippy contro “il sistema”. Poi nel tempo da slogan di protesta il principio si è trasformato in una specie di verità acquisita grazie all’offerta di giustificazioni scientifiche e culturali anche autorevoli.

Il Guardian stesso cita ad esempio l’American Oxford Dictionary, che nel 2007 ha scelto il neologismo “locavore” come parola dell’anno. Senza dimenticare i vari studi degli anni Novanta su quanto la facilità ed economicità dei trasporti consentisse ai grandi gruppi internazionali di «sfruttare la terra e le risorse dei paesi in via di sviluppo».

«Ma in anni recenti», scrive Cecilia Nowell, «una serie di studi ha dimostrato che mangiare locale in sé e per sé potrebbe non avere il grande impatto ambientale che i suoi fautori speravano un tempo. In effetti la ricerca scientifica mostra che l’impronta ecologica del trasporto degli alimenti è relativamente ridotta, ed è più importante concentrarsi su come il cibo viene prodotto». Nell’articolo si parla del sistema degli Stati Uniti, che ha ovviamente caratteristiche anche radicalmente diverse da quelli di altri paesi. Tuttavia spinge anche i non americani a farsi qualche domanda su questi temi considerati indiscutibili.

Quanto pesano davvero le emissioni prodotte dal trasporto 

Laura Enthoven, ricercatrice in Economia agricola all’Università di Lovanio, in Belgio, autrice di uno studio comparato sulle ricerche dedicate ai sistemi locali di produzione alimentare, dichiara espressamente al Guardian che «quel che mangiamo e come esso viene prodotto ha un impatto maggiore sulla nostra impronta ecologica alimentare di quanto ne abbia la distanza del luogo da cui proviene». E un conto è il trasporto aereo, che in termini di emissioni di Co2 è il peggiore, ma tutt’altro conto sono le spedizioni via camion, treno, nave, che per altro rappresentano la netta maggioranza in questo comparto.

Dopo decenni di battaglie spesso ideologiche, solo negli anni Duemila gli scienziati si sono messi a misurare le emissioni di gas serra durante tutto il processo produttivo agricolo, non più soltanto nella fase di trasporto. «E hanno scoperto che il trasporto rappresentava una percentuale relativamente piccola dell’impronta ecologica alimentare totale», scrive il Guardian.

«In un articolo del 2018, un team di ricercatori britannici e svizzeri ha scoperto che soltanto una quota di emissioni compresa tra l’1 e il 9 per cento deriva da imballaggio, trasporto e vendita al dettaglio del cibo. La grande maggioranza delle emissioni di gas serra (il 61 per cento) avviene durante la produzione, quando il cibo è ancora nell’azienda agricola. Lo stesso sostengono studi pubblicati nei primi anni Duemila negli Stati Uniti e in Europa».

Fertilizzanti, pesticidi e rutti

Le principali fonti di emissioni, come si può intuire, variano a seconda del tipo di alimento prodotto da ciascuna azienda, comunque, spiega sempre il Guardian, «in molte colture sono i fertilizzanti e i pesticidi necessari a produrre in grandi quantità».

Addirittura per gli allevamenti di carne bovina le emissioni di gas serra attribuibili al trasporto del prodotto sono appena per l’1 per cento del totale, aggiunge il giornale facendo riferimento a un’altra ricerca, «mentre la grande maggioranza è legata proprio alla stessa alimentazione dei capi di bestiame (e dai loro rutti carichi di metano)».

Insomma, secondo gli esperti interpellati dall’autrice dell’articolo non è affatto detto che approvvigionarsi rigorosamente “a chilometro zero” sia meglio per l’ambiente che prendere il primo prodotto industriale che capita sullo scaffale del supermercato: molto più della distanza importa con quanta attenzione all’ambiente il cibo è prodotto, e infatti «un numero sempre crescente di grandi aziende ha iniziato a produrre alimenti a marchio biologico».

Diritti non garantiti

Poi certo, c’è l’aspetto della giustizia sociale, che conta qualcosa nel successo del culto del mangiare locale. Ma anche in questo caso, stando a un ulteriore studio citato dal Guardian, stavolta condotto nel 2007 da ricercatori dell’Università di Washington, si rischia di cadere in una «trappola», e cioè quella di «credere che l’intero sistema debba passare esclusivamente alla produzione locale, cosa che non sarebbe di per sé più sostenibile o più inclusiva».

Anche per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, infatti, conclude il Guardian, può benissimo essere che la situazione sia migliore nelle multinazionali che non nelle aziende dei piccoli produttori locali. Questi ultimi infatti perfino negli Stati Uniti godono di esenzioni che i grandi gruppi si sognano (niente obbligo federale di salario minimo, per esempio) e sono sottoposti a pressioni molto minori a livello di normative e di controlli.

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