Emergenza Covid ed emergenza clima alimentano la tirannia

Abstract: emergenza Covid ed emergenza clima alimentano la tirannia. A partire dagli anni Settanta, con il fenomeno del terrorismo politico, l’ordinamento inizia a dotarsi non solo di strumenti giuridici decisamente esorbitanti dall’ordinario assetto di garanzie previste da un sistema liberaldemocratico, ma anche di dispositivi culturali e mediatici che mobilitano, in modo totale, l’opinione pubblica contro il nemico, reale o im­maginario che sia.

La Verità, domenica 11 giugno 2023  

«Dal Covid al clima: l’emergenza perenne

alimenta la nuova tirannia»

L’autore del saggio sulle crisi permanenti: «Lo Stato si espande per gestire l’ingovernabile, combinando la paura della morte e le tecnologie. E i media lo spalleggiano, silenziando o criminalizzando il dissenso»

di Francesco Borgonovo

Andrea Venanzoni (nella foto) ha elaborato in questi anni un pensiero originale e profondo. Spazia con facilità dai temi giuridici alle suggestioni esoteriche, e in effetti al centro del suo nuovo saggio (La tirannia dell’emergenza, Liberilibri) c’è quello che sembra a tutti gli effetti un maleficio scagliato contro l’Occidente. Anzi, che l’Occidente si è tirato addosso da solo.

Lei parla di tirannia dell’emergenza. Quando inizia questa tirannia? Con l’11 set­tembre?

«A partire dagli anni Settanta, con il fenomeno del terrorismo politico, l’ordinamento inizia a dotarsi non solo di strumenti giuridici decisamente esorbitanti dall’ordinario assetto di garanzie previste da un sistema liberaldemocratico, ma anche di dispositivi culturali e mediatici che mobilitano, in modo totale, l’opinione pubblica contro il nemico, reale o im­maginario che sia. Le “tossine” rimaste a fermentare nel cuore dell’ordinamento si sono poi sposate con i nuovi meccanismi liberticidi previsti da ciò che è seguito all’11settembre, per poi, raggiungere nuove, deteriori, vette con cambiamento climatico e. panici sanitari (la pandemia da coronavirus, senza dubbio, ma già prima Aids e aviaria). Si è passati, anche nelle scienze sociali, da un governo dell’emergenza a un governo della precauzione. La precauzione impone l’azzeramento dei rischi, e per azzerare i rischi vengono usati tutti gli strumenti adottati nel corso degli anni, sintetizzati tra loro, assieme alla tecnologia sempre più avanzata. Ogni emergenza sposta sempre più in là il grado di tirannia».

Insomma, l’emergenza non finisce mai e la tirannia non fa che peggiorare.

«L’emergenza è divenuta un dato stabile, permanente. Pensiamo al green pass, la cui temporaneità venne sbandierata ai quattro venti, proprio per far ingoiare una pillola assai amara all’opinione pubblica, viste le drastiche limitazioni che importava; ecco che oggi, alla faccia della temporaneità, Commissione Ue e Oms celebrano l’idea di elaborare un green pass globale contro future, ipotetiche pandemie. Gli effetti sono la decadenza delle garanzie, dei diritti e delle libertà, la torsione autoritaria del sistema, con elementi di controllo sempre più pervasivi e capillari».

Lei nota un aspetto fondamentale. Non si parla più semplicemente di crisi. Ora viene evocato il pericolo di morte, è con la morte che siamo confrontati a confrontarci.

«La crisi, stando alla sua radice semantica e concettuale, implica sempre una modificazione, una scelta, e in certa misura anche una opportunità. Non necessariamente quindi importa un male. Discorso analogo vale per il rischio. La civiltà umana è avanzata e progredita grazie alla inventiva individuale e alla volontà, da parte di alcuni individui, di assumersi dei rischi. La morte al contrario è la fine, lo spettro nero che si staglia lungo la linea d’orizzonte a lasciar intendere minaccia di dissoluzione. Viene brandita e agitata mediaticamente, per ter­rorizzare, per rendere ciechi e obbedienti i cittadini. Nasce così quel che Cass Sunstein definisce il “diritto della paura”. La morte, come nella danza macabra medievale, diventa dispositivo di moralizzazione del vivere civile e dei costumi, oltre che segnale della fine della libertà. Se un individuo è libero di scegliere – così lasciano intendere il potere pubblico e certo pensiero progressista – potrebbe far irrompere la minaccia della morte all’interno del perimetro della società, come abbiamo visto in tempo di pandemia quando il contagiato era considerato un emissario della morte. Per questo, si cerca di far credere che la libertà sia alleata della morte e che la società debba regredire a uno stadio premoderno, dove è la mano del sovrano a dettare l’agenda. Certo pensiero decrescista, pensiamo all’ecologismo catastrofista, che tanto anima il cuore pulsante della sinistra, è un fenomeno ossificante, incapacitante, che asfissia individuo e libertà, proprio nel nome del contrasto alla morte, ai rischi e ai pericoli».

È appunto la paura della morte a renderci così vulnerabili?

«Ci rende vulnerabili il modo in cui la morte viene presentata nella società contemporanea. Come una sorta di presenza oscura del tutto aliena al ciclo vitale, aspetto questo che finisce per essere terrorizzante. La sanitarizzazione e la medicalizzazione della società ci portano a credere di poter espungere, o comunque allontanare il più possibile, la morte. La sua trasformazione in dato quasi artificiale ci induce a temerla, a esserne affranti, e allora proprio per essere tutelati ci gettiamo a corpo morto tra le braccia della tirannia. Come notava Michel Foucault, gran parte dei regolamenti di sicurezza urbana, non a caso, originava dai regolamenti medievali di contrasto alla peste. La scientificizzazione della morte è un prodotto strumentale di politiche di controllo e sorveglianza, in cui il terrore gioca sempre un ruolo essenziale».

Quali sono le conseguenze sulla democrazia della tirannia emergenziale?

«La radicale limitazione delle libertà e dei diritti anche di rango costituzionale. L’autodeterminazione, la facoltà di scelta vengono coartati. che se ci si pensa è anche un paradosso, visto che viviamo in un’epoca di totale superfetazione di diritti, alcuni dei quali anche piuttosto surreali. Viene meno anche un libero, critico dibattito pubblico; l’opinione pubblica è inquinata dalle scorie della narrazione emergenziale, resa dogma totalizzante».

Sembra che a ogni emergenza si sviluppi un apparato burocratico utile a gestirla. È così? 

«La pandemia ha visto la proliferazione di corpi tecnici del tutto slegati dal circuito della legittimazione sovrana. Si sosteneva che fossero soltanto organismi consultivi, ma poi abbiamo visto come la politica spesso, e magari anche per evitare di assumere responsabilità dirette, ne seguisse in maniera acritica le decisioni. L’espansione dello Stato conosce la sua massima ipertrofia quando la sfera pubblica è chiamata a dover governare l’apparentemente ingovernabile. Lo stesso Pnrr ha importato la elefantiaca costruzione di una sorta di pubblica amministrazione parallela dentro la già esistente Pubblica amministrazione Stesso a dirsi per il cambiamento climatico: nuovi apparati, organismi tecnici, consulenti che lavorano lasciando germinare una nuova burocrazia emergenziale. A differenza della usuale burocrazia, quella dell’emergenza però conosce ancor minori garanzie di partecipazione per il cittadino, perché si sostiene che essa debba decidere in fretta e senza troppi intralci. Una burocrazia tiranna che prevale sul ceto politico e che finisce per controllarlo, come possiamo rilevare dalla totale esautorazione del Parlamento che ormai da anni non decide più niente».

Quanto contano i mezzi di informazione nello sviluppo di questa tirannia?

«Tantissimo. L’emergenza si rende tiranna quando mobilita totalmente il corpo sociale. Quando, veicolando informazioni modellate a seconda della convenienza di chi regge il potere, costruisce un senso comune da cui siano espunte tutte le opzioni dissonanti. Spesso le critiche, per quanto articolate e motivate, rivolte a determinate scelte del potere pubblico in fasi di emergenza, vengono fatte rifluire in quella che Elisabeth Neulle-Neumann definiva “la spirale del silenzio”. Nessuno, o quasi, ti lascia parlare, non hai voce, né distribuzione, sei un reietto e un proscritto degli studi televisivi. Oppure si passa direttamente alla criminalizzazione delle opinioni e di chi se ne fa portatore».