Africa, perché non basta abolire il debito

Africa_debitoVita e Pensiero
(bimestrale dell’Università Cattolica)
n.5 settembre-ottobre 2006

di Piero  Gheddo

L’approccio ai problemi del continente nero ormai si esaurisce in strategie di taglio economico, ma la vera sfida è culturale ed educativa. Per un reale sviluppo, gli aiuti ai Paesi poveri devono farsi carico della formazione e dell’istruzione.

Un intervento di Riccardo Moro su «Vita e Pensiero» ha ricordato e commentato gli incontri internazionali che si sono svolti tra il 2005 e il 2006 sugli aiuti allo sviluppo dei popoli poveri, che è diventato (col terrorismo) il tema dominante dell’attenzione mediatica in Occidente. Mi colpisce, quando si discute e si scrive di “aiuti ai popoli poveri”, che si prenda solo e sempre in considerazione il fattore economico e tecnico: aiuti, prezzi delle materie prime, trasferimenti di macchine e tecnologie, commerci, debito estero ecc. Non c’è dubbio che tutto questo ci vuole e non basta mai.

Ma l’esperienza di chi opera sul posto (ad esempio, missionari e volontari laici) è diversa: il denaro non basta, anzi, se non c’è un popolo preparato a usarlo bene, crea corruzione ed è all’origine del debito estero di molti Paesi poveri; la stessa remissione del debito estero è sacrosanta, ma se nel frattempo il popolo non cresce nell’educazione e nella libertà, fra cinque o dieci anni la situazione sarà la stessa.

All’inizio degli anni Settanta, la Corea del Sud aveva un debito estero esorbitante (dodici miliardi di dollari) e viveva confidando negli aiuti dell’alleato americano. Il Paese, piccolo e senza risorse naturali, ha pagato i debiti pregressi, è passato da 27 a 48 milioni di abitanti ed è diventato una delle “tigri asiatiche”, con un reddito medio di circa 11.000 dollari (la Corea del Nord meno di mille!). Com’è possibile? La Corea del Sud ha conquistato da circa vent’anni la libertà politica ed economica e i suoi governi hanno privilegiato la scuola e il libero mercato: nel 1960 aveva il 45% di analfabeti e oggi solo il 2% ! Libertà politica ed economica e istruzione sono le due priorità che permettono a un Paese povero di crescere nel cammino verso lo sviluppo.

Il motivo è facile da capire: lo sviluppo di un popolo parte dall’interno di quel popolo, non dall’esterno. Le cause esterne influiscono (anche sull’Italia, lo sappiamo), ma la radice dello sviluppo (o del sottosviluppo) è interna. Questa verità è quasi ignorata in articoli e convegni internazionali, come nelle decisioni dei capi di Stato e degli organismi dell’Onu. Giovanni Paolo II ha scritto (Redemptoris Missio n. 58): «Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi».

Il Papa non parlava per scienza propria, ma perché conosceva l’esperienza delle giovani Chiese e dei missionari, di cui non si tiene conto, come scrive Moro nell’articolo citato: «Si parla di nuovo di aumentare l’aiuto allo sviluppo». Investire nell’educazione è fuori di questo quadro, come consultare missionari e volontari o citare le loro esperienze di sviluppo, che sono esemplari per il mondo ricco.

Alla Conferenza degli Stati africani di Addis Abeba nel 1961 venne approvato un Piano educativo ventennale (1961-1980), con i seguenti obiettivi: insegnamento primario universale, gratuito e obbligatorio; insegnamento di secondo grado per il 30% degli alunni al termine degli studi primari; insegnamento superiore per il 20% dei giovani al termine degli studi secondari; miglioramento della qualità delle scuole e delle università africane ereditate dal tempo coloniale. Quasi mezzo secolo dopo, com’è l’educazione in Africa?

Il grande storico del Burkina Faso, Joseph Ki-Zerbo, scrive che il periodo dal 1960 al 1975 è stato per l’educazione africana «euforico e illusorio», idealista e inconcludente, e quello dal 1980 al 1990, nonostante alcuni progressi locali e tentativi coraggiosi, ha portato a risultati inquietanti, tanto che la Commissione economica per l’Africa dichiarava che «l’Africa rischia di avere una percentuale di illetterati e di mano d’opera non qualificata più elevata che negli anni Sessanta».

Se si leggono studi sull’educazione tradizionale nell’islam e in Africa; se si considera l’Africa nera sulla base di quanto elaborano gli organismi africani e internazionali (cioè i programmi, le intenzioni, i valori da integrare nel mondo moderno), si potrebbe essere ottimisti. Ma se si guarda alle situazioni sul terreno, fra guerre, colpi di Stato, dittature, Aids, deboli investimenti dei governi nell’educazione, aumento dell’analfabetismo… la situazione pare drammatica o tragica. Un dato recente: in Zambia, gli insegnanti più giovani sono una delle categorie più colpite dall’Aids, si dice che il 70% di essi siano a rischio; il Ministero dell’educazione dovrebbe nominare sostituti di quelli che muoiono o si ritirano, ma non ha personale sufficiente.

Apro lo Human Development Report 2005 dell’Undp e scopro che gli “illetterati” (cioè analfabeti) sono in Senegal il 39,3%, in Guinea Bissau il 39,6%, in Mali il 19%, in Burchina Faso il 12,8%, in Sierra Leone il 29,6%, in Guinea il 41% e via dicendo, fino al 14,4% in Niger. Mi chiedo: è possibile sviluppare Paesi dove più del 50% dei bambini non vanno a scuola? (Non parliamo delle bambine). Un missionario da trentacinque anni in Africa mi dice: «La scuola è la chiave della promozione umana e della conoscenza di un mondo più grande del villaggio. Ma se togli le scuole per le élites nelle città e quelle delle missioni, nelle scuole governative dei villaggi è facile trovare classi con 80-100 e piu alunni e una maestrina che non si capisce come e cosa possa insegnare».

Di fronte a queste realtà, si possono fare tutti i ragionamenti che si vogliono sui valori tradizionali africani, sulla buona volontà e le speranze dei giovani, sulla vitalità dei popoli e la loro volontà di riscatto, realtà autentiche in cui credo anch’io e mi commuovono quando le tocco con mano visitando le regioni più povere. Ma la sostanza non cambia: vale sempre il motto Eduquer ou perir di Ki-Zerbo, valido cinquant’anni fa e ancor più oggi in un mondo globalizzato, in cui i Paesi che non hanno scuole efficienti per tutti, stabilità politica e libertà economica (quanti Paesi africani ancora bloccati da uno statalismo e sistema “socialista” assurdi!) sono destinati a rimanere a terra, mentre “il treno per lo sviluppo” (cioè la globalizzazione) avanza per tutti gli altri.

Naturalmente l’educazione non risolve tutto.

Nei mesi scorsi, la Stampa ha dato risalto alla decisione dei governi del G8 di cancellare i debiti dei 18 Paesi africani più poveri. Il premio Nobel per la letteratura 1986, Wole Soyinka, dice che la Nigeria non c’è in quell’elenco e aggiunge: «Il mio Paese è ricchissimo, ma i soldi incassati per il petrolio dalle élites dominanti finiscono nelle banche svizzere. Neanche un centesimo va alla gente. Non avrebbe senso cancellare il debito. È vero che ci sono forti colpe dei Paesi occidentali… ma anche i nostri leader non hanno tenuto un comportamento esemplare. Malversazioni e violenze sono quasi dappertutto nel continente».

L’Economie Report on Africa 2003 dell’Onu è intitolato “Capitali in fuga, benzina per il debito estero”: negli ultimi 20-25 anni i capitali trasferiti dall’Africa all’estero ammontano a 274 miliardi di dollari, pari al 171% del Prodotto interno lordo (Pii) dei 30 Paesi esaminati e superiori di 85 miliardi di dollari all’ammontare del debito con l’estero. «Questo gruppo di Stati risulta essere creditore netto del resto del mondo, nel senso che i loro capitali privati oltre confine eccedono quelli del debito con l’estero».

Dal 1970 al 1996 i capitali esportati dalla Nigeria sono quasi 130 miliardi di dollari, ossia il 367% del Pil: se questi capitali rientrassero, il debito nigeriano con i Paesi ricchi diventerebbe un credito di 98 miliardi di dollari. Ma questo vale per tutti i 30 Paesi studiati: persino la poverissima Sierra Leone, con i capitali dei suoi cittadini all’estero sarebbe non più debitrice, ma creditrice delle banche e dei governi stranieri per un miliardo di dollari!

Cosa fare? Nessuno ha la soluzione pronta e sicura. Ma almeno smettiamola di parlare sempre e solo di aiuti da mandare ai Paesi poveri (naturalmente bisogna mandarli!), quasi disinteressandoci di tutto il resto! Purtroppo, i problemi nei Paesi giovani sono molti e complessi, ma insistere solo sul solito tasto crea anche negli africani evoluti una mentalità sbagliata: che le cause delle loro instabilità, guerre, dittature e povertà stanno non all’interno, ma all’esterno; per cui anche loro si mettono sulla via della protesta e della denunzia, così comoda e auto-assolutoria.

Enrico Bartolucci vescovo di Esmeraldas, in Ecuador, mi diceva nel 1989: «È diventato di moda parlare della deuda externa, il debito èstero, e attribuirvi le cause di tutti i nostri malanni. Se dico a qualche autorità della nostra cittadina che si dovrebbe fare questo o quello per il popolo, inevitabilmente parlano del debito estero».

Capisco che i governi debbono rispettare le sovranità nazionali. Non capisco perché l’opinione pubblica, gli opinionisti e gli studiosi, le Ong più interessate all’Africa e al suo sviluppo non discutano gli ostacoli interni anche culturali allo sviluppo in Africa e come dall’esterno si possa aiutare e influire sull’educazione e sulla libertà e stabilità politica. È giusto protestare contro le multinazionali che fanno i loro interessi, contro i governi dei popoli ricchi perché non danno sufficienti aiuti, ma non capisco perché nessuno protesta contro i governanti e ricchi africani che hanno i loro soldi nelle banche svizzere, contro i bilanci statali che danno il 15% ai militari, il 2% all’educazione e 11,5% alla sanità, lasciando il 50% dei bambini senza scuola. La mancanza di educazione si traduce poi in scarsa produttività in tutti i settori economici e nello scarso peso del popolo circa le libertà democratiche ed economiche.

Ancora, è giusto protestare contro i finanziamenti degli agricoltori nei Paesi ricchi, ma se, come dice la Fao, l’Africa nera importa il 25-30% del cibo che consuma, cioè la produzione agricola locale non basta nemmeno a nutrire la sua crescente popolazione, com’è possibile pensare che un continente possa anche esportare prodotti agricoli (tolti quelli tipici come cacao e banane)? Nel primo viaggio che ho fatto in Sud Africa (1975), pur con l’odioso sistema dell’ apartheid allora applicato in modo rigido, ho anche visitato l’Università di medicina per i neri a Pretoria (Medunsa) e una Università di agraria, sempre per i neri, nelle campagne fra Port Elisabeth e Bloemfontein: l’Africa razzista dei bianchi stava preparando i neri ad autogovernarsi (già allora il governo federale spendeva il 7% del bilancio statale per l’educazione, adesso l’8%).

Perché, cinquant’anni dopo l’indipendenza dell’Africa nera, queste istituzioni non è facile trovarle nel resto del continente? Possibile che non si rifletta sul perché il Sud Africa, ormai guidato da neri, sia la “locomotiva dello sviluppo africano” con schiere di africani preparati, molto più della Nigeria che ha quasi il triplo di abitanti e la ricchezza di imponenti giacimenti di petrolio in una trentina di centri di estrazione (è il quarto Paese produttore del mondo)?

C’è un’ultima riflessione da fare. Perché non si dice mai che i soggetti educativi del nostro Paese (famiglie, scuole, partiti, sindacati, mass media, Chiesa), dovrebbero comunicare ai giovani l’ideale di spendere qualche anno o tutta la vita per i fratelli africani, come fanno i missionari e i volontari laici? Troppo comodo protestare contro governi, banche e multinazionali, e pensare di avere la coscienza  a posto.

Se parliamo di educazione in Africa, non sì tratta solo di costruire scuole: ma chi va a insegnare nelle campagne (questo vale anche per gli operatori sanitari, con stipendi da fame, mentre in città chi ha una certa istruzione riesce comunque a cavarsela? Perché noi popoli ricchi non ci responsabilizziamo e non discutiamo di questa drammatica situazione?

Perché nessuno avanza la proposta che il governo proponga ai giovani e finanzi un servizio volontario che duri tre anni nei Paesi più poveri, per dare una mano nella scuola, nella sanità, nell’educazione all’agricoltura moderna, nelle scuole per le donne? Perché non ci sono studi, dibattiti, presa di coscienza dei giovani sulla diminuzione delle vocazioni missionarie e negli organismi di volontariato laico internazionale?

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Piero Gheddo, missionario del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), per 35 anni direttore della rivista Mondo e Missione, autore di numerosi volumi, è un profondo conoscitore del mondo missionario, soprattutto delle zone di prima evangelizzazione e dove la Chiesa è stata perseguitata dai regimi autoritari.