Tutta colpa dei bianchi? Ma i misfatti sono neri

AfricaCorriere della Sera 25 gennaio 2005

di Geminello Alvi

Abbondano purtroppo quei libri scritti in ossequio al luogo comune, per cui sarebbe comunque l’uomo bianco il colpevole primo dei misfatti del mondo. La poca abilità richiesta per scriverli è quella che basta per agganciarsi a una delle tante esecrazioni consuete dell’eurocentrismo, oggi capitalistico e ieri colonialistico.

Qualche sdegno a comando, tutt’al più un dispetto al rivale accademico, ma solo riguardo alle sfumature, è concesso. Basta però che poi si badi alla scoperta di qualche efferatezza occidentale o bianca non detta o appena detta: e gli affaruncoli propri sono vestiti d’una morale. La più spendibile: quella del politicamente corretto, che legittima al sussiego, in un anticonformismo che è quello più conforme alle carriere nell’accademia o nel giornalismo.

Hans Christoph Buch ha scritto per fortuna un libro diverso ( Standort Bananenrepublik. Streifzüge durch die postkoloniale Welt , traducibile come Ubicazione Repubblica delle Banane. Incursione nel mondo postcoloniale , edito da Zu Klampen Verlag). Uno ch’appartiene alla esigua minoranza di scritti senza un disprezzo preventivo per gli europei e la loro civiltà.

È un libro di viaggi, e non di seconda mano, in Africa o in altri disdicevoli luoghi di vari continenti, raccolti in due dozzine di articoli, che il nostro sessantenne pubblica su Die Zeit o Die Welt o Faz . La copertina con una banana su campo verde farebbe pensare agli anni 50 e al nostro Agente all’Avana; e muove all’inizio una certa qual plasticata allegria.

Invece il libro è tutt’altro: un’immersione nell’incubo e nel grottesco che sono divenuti sempre più oggi l’Africa e i continenti non europei. Una percezione dell’orrore che, pagina dopo pagina, incarna la conclusione che già si sa ma che nessuno dice: la colpa dei misfatti dell’Africa è per lo più ormai degli africani, dell’orrende élite che li governano.

Eccolo Buch per le strade di Monrovia, accanto al soldato bambino che risponde «Why not», appena gli domanda perché massacra i suoi fratelli e sorelle africani. E poi vede le truppe di pace africane: «Invece di dividere le varie bande, presero parte pure loro a saccheggi e violenze. Prima di tutti i nigeriani che caricano container pieni di bottino – frigoriferi, televisori, auto e motorini sulle loro navi…».

Presto Ecomog, la sigla della Comunità economica dell’Africa occidentale diviene per i nativi: «Every car and moveable object gone» (letteralmente: «ogni auto e oggetto mobile rubato»). Già nel 1996 era del resto chiaro quanto fosse esportabile il modello liberiano: «Non mancano nell’Africa occidentale bambini che dopo la morte dei loro genitori sono reclutati nelle milizie, sessualmente schiavizzati, drogati».

E sempre allora in Liberia costata il successo con cui si vende una videocassetta negli empori. «Quella con le torture del capo di Stato Doe era un bestseller a Monrovia: la scena nella quale i suoi torturatori costringono Doe a mangiare le sue orecchie tagliate venne salutata dagli spettatori con applausi e risate». E la Liberia mai ha conosciuto domini bianchi.

Come Haiti è da tempo solo merito degli africani. Al pari di quanto è accaduto in Ruanda: «Dove non c’erano né petrolio, oro o diamanti; ma l’inimicizia tribale tra i pastori Tutsi e i contadini Hutu». Ormai persino tal Ahmadou Kourouma scrittore africano, non sospetto di simpatie per le colonie, ammette: «Tribalismo, ovvero scelte di clan, corruzione, brutalità sono i peccati capitali dell’Africa; e l’espediente prediletto di dare la colpa agli altri dei disastri fatti in casa distrae dalle responsabilità proprie degli africani».

«Che questa non sia solo una questione accademica lo mostra l’esproprio degli allevatori bianchi dello Zimbawe come capri espiatori per la bancarotta del regime». Un esempio che fa scuola: «La Namibia ha annunciato misure simili, il Sud Africa ne è minacciato, l’ultima democrazia sul continente nero…». I viaggi di Buch non si limitano peraltro solo all’Africa. Ma egli riverifica ovunque che: «L’antieurocentrismo è un biglietto col quale si va lontano».

Come gli conferma il colloquio con una professoressa indiana che gli consiglia, giacché la nonna di Buch era di Haiti, di vendersi nei dibattiti almeno per negro bianco. Seguono elenchi di cognomi e carriere costruite sui sensi di colpa dell’Europa, commerciati professionalmente. Con un risultato: «Cinquant’anni dopo la decolonizzazione, il dominio coloniale torna all’ordine del giorno non come tragedia ma come farsa: moda accademica che, fuori dei punti di vista politicamente corretti dei suoi creatori, non dimostra niente e non ha alcun concreta relazione alle realtà del Terzo mondo».

E come non chiamare, se non farse, le trovate passate troppo spesso alla varia intellettualità africana? «In un congresso di quotati scrittori tenuto nel autunno 2000 a Seoul, il nigeriano Wole Soyinka sorprese il pubblico con la sensazionale scoperta: le più nuove ricerche avrebbero dato il risultato – così spiegò il premio Nobel del 1986, le cui iniziali sono quelle di Shakespeare – che costui non sarebbe stato un drammaturgo inglese, bensì un raccontatore di fiabe arabo di Damasco. Sheik Al Subeiri questo il vero nome di Shakespeare, venduto come schiavo a Londra».

Con la stessa grazia Buch elenca le altre assurde trovate di armate di furbastri, fino alla versione idillica dell’Africa precoloniale o al disgusto per le vaccinazioni imposte dai medici coloniali. Appunto, giacché i colonialisti sono bianchi, tutto si può dire. Meno quanto Buch rammenta: «I critici del colonialismo tacciono due fatti importanti; che i mercanti di schiavi arabi cacciavano come animali gli africani, molto prima dell’arrivo degli europei, e che i potentati indigeni cedevano a prezzi stracciati i prigionieri di guerra o i loro sudditi».

Si oblia a memoria «che dopo la decolonizzazione in varie parti dell’Africa – Sudan e Mauritania – si è ristabilito il commercio degli schiavi, mentre ora solo la presenza di organizzazioni caritatevoli e umanitarie garantisce un minimo di umanità nel continente nero». Questi alcuni brani del libro ancora non tradotto e del quale però la stampa tedesca si è dovuta occupare visto che erano quegli stessi giornali, anche liberal, che avevano pubblicato i suoi pezzi.

Recensioni anchilosate, di chi non le vorrebbe fare; e però deve concedere all’autore una più che leale buona fede e amore per l’Africa e i Paesi che ha visitato. Un libro vero, dove disastri, eccidi e infamie del Terzo mondo, che mai si diranno in tv o sulle riviste con le loro cause vere, sono narrati come sono stati vissuti. Senza troppe ipocrisie o lealtà al politicamente corretto e soprattutto contro la fatale tendenza all’autoassoluzione del Terzo mondo.

La quale ha sortito il risultato più rovinoso per l’Africa: chi è di destra non se ne occupa, per timore di essere accusato di razzismo e magari condannato in tribunale. Mentre la sinistra asseconda troppe sciocchezze consuete, utili spesso ai parassiti o a coprire le ruberie delle élite africane in società ridotte a incubo perenne.

LE STRAGI

Colpi di Stato, guerriglie, mutilazioni e stupri di massa, genocidi: l’Africa è stata e continua a essere teatro di conflitti sanguinosi

IN LIBERIA

La guerra civile in Liberia scoppia nel 1990. Tra il ’99 e il 2000 si sviluppa contemporaneamente la guerriglia del Lurd, i Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia, che impugnano le armi contro l’esercito governativo

IN BURUNDI

Nel 1993 il Burundi, ex colonia belga, abitata in maggioranza da Hutu e governata dalla minoranza Tutsi, precipita in una guerra civile tra le due etnie che causa più di 300 mila vittime e centinaia di migliaia di profughi. Gli scontri proseguono anche dopo il ’96, quando i militari Tutsi riprendono il potere

IN RUANDA

Nel 1994 la tensione tra le due stesse etnie che si contrastano in Burundi degenera in una guerra civile tra il Fronte patriottico ruandese a base Tutsi e le truppe governative Hutu che ha assunto le dimensioni del genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati: 800 mila vittime

L’ONU

Nel 1995 l’Onu istituisce un tribunale penale internazionale con il compito di giudicare i responsabili del genocidio in Ruanda. Il primo processo si conclude nel 2003 con 105 condanne, tra cui alcune a morte. Ma sono migliaia le persone in carcere ancora in attesa di giudizio