La crudeltà in natura e l’esistenza di un Dio benevolo

Unione Cristiani Cattolici Razionalisti (UCCR) 6 Luglio 2025

Come conciliare l’esistenza di un Dio buono con la crudeltà presente in natura? E’ un’antica obiezione al teismo, risalente a Charles Darwin. Ma, come vediamo, ci sono vari argomenti per rispondere, sia filosofici che scientifici.

La sofferenza degli animali e la crudeltà in natura sono questioni che suscitano interrogativi profondi sia nella scienza che nella teologia.

Charles Darwin stesso esprimeva sgomento di fronte all’apparente crudeltà osservata in natura, in particolare dal comportamento delle vespe icneumonidi, le cui larve si nutrono all’interno di bruchi vivi.

Riteneva che ciò fosse difficile da conciliare con l’idea di un Creatore benevolo e lo espresse chiaramente in una sua famosa lettera all’amico Asa Gray (1).

La crudeltà in natura e i creazionisti

Molti esponenti dell’ateismo scientifico hanno usato questo argomento come uno dei loro cavalli di battaglia anche se, a dir la verità, coloro che sono davvero in crisi di fronte all’obiezione della crudeltà in natura sono i creazionisti, convinti che ogni singolo organismo sia stato progettato da Dio, proprio come lo troviamo.

Il biologo evoluzionista cattolico Francisco Ayala, nel sui libro “Il dono di Darwin” (San Paolo 2009) spiega perfettamente l’assurdità del pensare che Dio possa aver progettato specificamente e intenzionalmente tutti gli orrori che esistono in natura.

Al contrario, Ayala è convinto che il “dono di Darwin” alla teologia sia aver evitato di attribuire le crudeltà della natura al disegno di Dio.

I predatori sono un bene per le prede

C’è però un’ulteriore obiezione a cui Ayala non riesce a rispondere: considerando che la sofferenza degli animali è essenziale per l’evoluzione biologica stessa, generando competizione tra essi a causa della limitatezza delle risorse, perché pensare che un mondo così sviluppato sia migliore del mondo teorizzato dai creazionisti?

A questa ulteriore questione ha risposto recentemente con eleganza il filosofo William Lane Craig, docente presso la Houston Baptist University (Texas).

La sua visione è che anche gli animali sono parte di un ecosistema che, per sopravvivere, deve essere in equilibrio. E ogni ecosistema prevede dei predatori.

Ad esempio, in Canada è stato necessario reintrodurre i lupi in natura per il bene delle mandrie di renne perché, in assenza di questi predatori che potessero eliminare le renne malate e anziane, questa specie avrebbe subito una sovrappopolazione, con conseguente sovrapascolo e carestia per la specie stessa.

Si può dire, paradossalmente, che le renne hanno bisogno dei lupi per prosperare!

Per questo il geologo e teologo anglicano William Buckland scrisse una riflessione molto opportuna sui vantaggi della predazione animale:

«L’assegnazione della morte tramite l’azione dei predatori, come termine ordinario dell’esistenza animale, appare nei suoi risultati principali come una disposizione di benevolenza. Essa riduce notevolmente la quantità complessiva del dolore dovuto alla morte universale; abbrevia, e quasi annienta, la miseria causata da malattie, ferite accidentali e decadimento prolungato; e impone un salutare controllo sull’aumento eccessivo dei numeri, in modo che la disponibilità di cibo mantenga sempre un rapporto adeguato con la domanda. Il risultato è che la superficie della terra e le profondità delle acque sono continuamente popolate da miriadi di esseri animati, i cui piaceri di vita sono proporzionati alla loro durata. Durante il breve giorno di esistenza a loro assegnato, svolgono con gioia le funzioni per cui sono stati creati» (2).

In un mondo senza predatori, gli insetti prenderebbero il sopravvento e gli animali morirebbero lentamente a causa dell’impoverimento della vegetazione. Una volta che gli insetti avranno consumato tutta la vegetazione, morirebbero anche loro.

E un mondo puramente vegetariano? Non sarebbe stato meglio? No, perché non c’è garanzia che ci sarebbero state meno sofferenze e che gli animali non si sarebbero uccisi selvaggiamente a vicenda per dinamiche di branco o per competere per la scarsità di vegetazione.

Per questo il filosofo William Hasker sposa ciò che definisce una “teodicea dell’ordine naturale” (3), spiegando che un mondo che funziona secondo leggi naturali, in cui sia possibile la sopravvivenza ed il comportamento razionale, abbia un costo che include la sofferenza animale. Sostanzialmente è un prezzo che valeva la pena essere pagato.

Tre livelli di consapevolezza del dolore

Recenti studi in biologia hanno fornito inoltre sorprendenti e nuove intuizioni circa questo antico problema, che possono essere d’aiuto nel ridurre il prezzo di un passato evolutivo che mostra predazione e sofferenza animale.

Sono citati dal filosofo Michael J. Murray nel suo libro dedicato esplicitamente alla teodicea animale e alla crudeltà in natura, per i quali distingue tre livelli ascendenti in una gerarchia del dolore (4).

  • Livello III: consapevolezza di secondo ordine di essere se stessi nell’esperienza;
  • Livello II: esperienza soggettiva di primo ordine del dolore;
  • Livello I: stati neurali portatori di informazioni prodotti da stimoli nocivi che determinano comportamenti avversivi;

Nel livello I sono inclusi ragni, insetti e le larve che scandalizzarono Darwin. Non si tratta infatti di esseri senzienti dotati di una qualche forma di vita interiore soggettiva.

L’esperienza senziente emerge plausibilmente a livello dei vertebrati nel regno animale e, secondo gli studi di Jonathan Birch (5)è dimostrato che anche cani, gatti e topi non sperimentano il livello III, anche se provano il dolore.

Infatti, la consapevolezza di provare dolore richiede l’autoconsapevolezza, elemento mancante in tutti gli animali. Lo stesso biologo evoluzionista Francisco Ayala afferma che «gli esseri umani sono gli unici animali dotati di autoconsapevolezza» (6).

Quindi, anche se gli animali possono provare dolore, non sono consapevoli di provarlo.

Proiettare stati d’animo umano sugli animali

Evidentemente, commenta W.L. Craig, «Dio, nella sua misericordia, ha apparentemente risparmiato agli animali la consapevolezza di essere essi stessi nel dolore. Pertanto, la loro sofferenza ha un carattere completamente diverso dal nostro».

E’ straziante vedere un animale soffrire ma il filosofo M.J. Murray osserva che è una tendenza prettamente umana dell’antropopatismo, ovvero proiettare stati d’animo umani sugli animali e persino sugli oggetti inanimati. Così, però, rendiamo indistinguibile il problema della sofferenza animale da quello della sofferenza umana, quando in realtà sono profondamente diversi.

Lo stesso Ayala, parlando delle crudeltà in natura, osserva interazioni di accoppiamento in certi insetti che «sarebbero giudicate crudeli e persino sadiche secondo gli standard umani» (7).

E’ infatti sbagliato giudicare il comportamento degli insetti secondo gli standard umani perché, commenta Ayala, «gli eventi fisici o biologici che causano danni non sono azioni moralmente malvagie, perché sono il risultato di processi naturali nel mondo della natura, fisica e biologica, dove non è coinvolta alcuna moralità» (8).

La crudeltà in natura obiezione al Dio benevolo?

La sofferenza animale e la crudeltà in natura, per quanto siano emotivamente toccanti, non costituiscono pertanto una seria obiezione all’esistenza di Dio, piuttosto l’indizio di un ordine naturale complesso e funzionale, nel quale la vita può svilupparsi, evolversi e sostenersi.

Come scrive San Paolo, «tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22), segno che il mondo non è ancora compiuto, ma orientato verso una pienezza futura. In questa prospettiva, il dolore non è un fallimento del disegno divino, ma una componente inevitabile di un mondo stabile e ordinato, capace di generare esseri liberi e consapevoli.