Corruzione, un male antico

Abstract: corruzione, un male antico. Correva l’anno 70 a.C. ai primi di gennaio, un giovane avvocato dell’Urbe di nome Marco Tullio Cicerone, presenta al pretore Manlio Acilio Glabrione, presidente del tribunale per i reati di concussione, una richiesta formale di accusa contro Gaio Verre, governatore di Roma nella provincia di Sicilia per tre anni.

Centro Studi Rosario Livatino 29 Aprile 2023

Cicerone e la corruzione come male antico

Correva l’anno 70 a.C. ai primi di gennaio, un giovane avvocato dell’Urbe di nome Marco Tullio Cicerone, presenta al pretore Manlio Acilio Glabrione, presidente del tribunale per i reati di concussione, una richiesta formale di accusa contro Gaio Verre, governatore di Roma nella provincia di Sicilia per tre anni. Glabrione concede all’avvocato Cicerone 110 giorni per trovare tutte le prove possibili per incastrare l’accusato e arrivare al processo, fissato per la fine di aprile, con l’inchiesta chiusa. Il reato è quello di avere sfruttato a suo favore una provincia per assecondare i suoi giochi politici. Le requisitorie contro Verre divennero famose nel mondo antico e ancora oggi, conosciute con il nome di Verrine. Quest’opera oltre ad avere avuto un impatto letterario di rilievo, che ancora continua ad esercitare il suo fascino, offre molteplici spunti d’indagine al fine di sondare il terreno friabile del fenomeno corruttivo. Il processo a Verre e le orazioni ciceroniane rivelano infatti tratti di sorprendente attualità e pongono il focus su alcuni profili della corruzione che non smettono mai di creare interrogativi.

di Daniele Onori

La corruzione può essere a giusto titolo inquadrata tra i mali più antichi della civiltà. Risalgono alla Magna Grecia le prime testimonianze documentate [1], che descrivono la corruzione in termini di atto contrario alla morale pubblica e danno economico per la collettività. Spunti storici sono offerti dalle molteplici testimonianze dell’oratore e politico Demostene, che nel 324 a.C., in occasione della nuova Olimpiade ad Atene, fu accusato pubblicamente di aver sottratto le somme destinate all’organizzazione dei giochi olimpici, custodite da Arpalo, tesoriere di Alessandro Magno. Grazie alla veemente oratoria di Iperide, accusatore nel processo, la vicenda – tecnicamente qualificata come un furto – scosse l’opinione pubblica come mai era accaduto prima di allora.

Le vicende corruttive dell’Impero Romano sono permeate da una retorica tradizione che voleva l’Urbe dei primi giorni di gloria opposta – per virtù, morigeratezza e onore – alla Roma degli ultimi anni repubblicani e a quella degli imperatori detentori del potere assoluto. Questa convinzione si alimenta, principalmente, dell’assenza di testi e testimonianze anche indirette sul fenomeno. Quando infatti si giunge alle prime produzioni letterarie sull’argomento, con particolare menzione per l’acuta penna di Plauto [2], il luogo comune dell’integrità morale della Roma repubblicana si dissolve lasciando il proscenio ad ampi e persistenti grumi di malcostume politico e sociale, dall’evasione fiscale all’abuso di potere.

Durante l’espansione nel Mediterraneo, e comunque ben prima della caduta di Cartagine, Catone il Censore arrivò a denunciare pubblicamente in Senato il malaffare che avvolgeva gli uomini politici[3]; ed in particolare erano i governatori locali i soggetti più inclini alla violazione della legge.

I motivi sono presto detti: tali cariche erano un passaggio fondamentale nel cursus honorum di qualsiasi personaggio influente a Roma, le campagne elettorali chiedevano un impiego di denaro impressionante e di conseguenza ogni romano illustre doveva finanziarsi in modo vergognoso, indebitandosi e firmando ignobili compromessi e clientele.ù

Colpì per pervicacia il comportamento del propretore di Sicilia Verre, definito dalla letteratura – in uno slancio ironico – “archètipo originario del tangentocrate incallito”, che tra il 73 e il 71 a.C. compì concussioni e ruberie che gli costarono, dopo il processo che vide assoluto protagonista il giovane accusatore Cicerone, la condanna a morte.

Da più di duemila anni le Verrine, cioè le orazioni con cui Cicerone riuscì a inchiodare il propretore alle sue malversazioni in Sicilia sono state presentate – anche o soprattutto per la qualità di scrittura – come un modello in tutte le storie della letteratura latina. 

Da quel 70 a.C. mai si è avuta una denuncia per casi di corruzione in cui l’accusatore non abbia provato a riprodurne ritmo, concatenazione di argomenti e stile incalzante. Da duemila anni è stato quasi automatico che chi si accingeva a fare insinuazioni circa la moralità di qualche uomo politico iniziasse con il definirlo «novello Verre». Lo ha fatto l’autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift, allorché sulle pagine di «The Examiner» fece a pezzi Thomas Wharton, già Lord Luogotenente d’Irlanda. E anche il filosofo Edmund Burke, quando chiese (senza successo) l’impeachment di Warren Hastings, ex governatore generale del Bengala.

A rendere celeberrimo il procedimento giudiziario in cui Cicerone assunse il ruolo del mattatore, fu la circostanza che il dibattimento si svolse di fronte a un gran numero di spettatori: il processo spettacolo è un’invenzione dei Romani e quello contro Verre fu, appunto, un processo spettacolo.          Il processo di Verre iniziò il 5 agosto del 70 a.C., ma le sue fasi preliminari occuparono tutti i precedenti mesi dell’anno, successivi al ritorno di Verre a Roma dalla Sicilia. Le Verrine costituiscono uno straordinario documento sulla procedura penale della tarda repubblica e, nello specifico, sul funzionamento del tribunale permanente (quaestio perpetua) che giudicava i crimini di concussione, la quaestio repetundarum.

Essa era il più antico tribunale permanente romano, istituito nel 149 a.C. con lo scopo di sanzionare i crimini pecuniari dei magistrati romani contro gli alleati che risiedevano nelle province sottoposte al controllo di Roma [4]

Il governatore Verre aveva finito il suo mandato in Sicilia nel gennaio del 70 a.C. ma non ebbe nemmeno il tempo di tornare a Roma che le città dell’isola, stremate per le vessazioni del politico, decisero di rivolgersi al brillante avvocato di Arpino, in virtù del forte legame che l’oratore aveva contratto con gli abitanti dell’isola nel 75 a.C., quando era stato questore a Marsala, per intentare contro di lui una causa per corruzione.

Contemporaneamente, si presentò di fronte al medesimo tribunale un altro aspirante accusatore di Verre, Quinto Cecilio Nigro, un liberto siciliano che era stato questore di Verre nel primo anno del suo governo provinciale: egli rivendicava per sé il ruolo di accusatore sia in nome di una iniuria subita da Verre (div. Caec. 52-58), sia per il fatto di essere persona informata sui fatti contestati all’imputato (div. Caec. 61-63). Qualora di fronte alla quaestio si presentassero più accusatori, la procedura prevedeva il ricorso alla divinatio, ossia a un esame, da parte di una commissione di giudici, delle ragioni che gli accusatori adducevano per motivare la loro richiesta, che ciascuno esponeva in un discorso, e al successivo verdetto, senza il ricorso a documentazione probatoria o a testimoni, sul candidato più idoneo a svolgere la funzione.

Il confronto tra Cicerone e Cecilio si tenne alla fine di gennaio: nel suo discorso, la divinatio in Q. Caecilium, Cicerone puntò sull’inesperienza forense del giovane Cecilio e dimostrò che egli non era un vero accusatore bensì un praevaricator (div. Caec. 12; 29; 58), ossia un falso accusatore che agiva d’intesa con l’imputato e la sua difesa e che una volta ottenuta l’accusa si sarebbe adoperato per prevenire la condanna.

Gli argomenti di Cicerone convinsero la commissione, che gli affidò l’incarico di accusatore, concedendogli contestualmente un periodo di 110 giorni per svolgere indagini (tempus inquirendi) in Sicilia al fine di acquisire documenti, testimonianze e ogni altro genere di prove utili alla sua accusa.

Si ritiene utile qui riportare un breve passo per comprendere quali sono le ragioni che indussero Cicerone ad accettare un mandato così difficile: L’occasione che era soprattutto desiderabile, o giudici, l’occasione che più d’ogni altra serviva a placare l’ostilità verso la vostra classe e il discredito dell’amministrazione giudiziaria sembra data e offerta a voi, in un momento critico per lo Stato, non per decisione umana ma quasi per volere divino. Già da tempo, infatti, è invalsa questa opinione, dannosa per lo Stato e pericolosa per voi, che si è diffusa per i discorsi di tutti non solo fra il popolo romano, ma anche fra le nazioni estere; che con l’attuale amministrazione della giustizia un uomo danaroso, colpevole quanto si voglia, non può in nessun caso essere condannato. […] Io ho assunto questa causa, giudici, con pieno consenso e vivissima attesa da parte del popolo romano, non per accrescere l’ostilità verso una classe sociale, ma per porre rimedio al discredito generale. Infatti, ho portato in Tribunale un uomo che vi desse la possibilità di ristabilire nell’amministrazione giudiziaria la stima perduta, di riconquistare il favore del popolo romano. [5] 

Di contro Verre non si lesinò a chiamare a sua volta il migliore avvocato di Roma, Quinto Ortensio Ortalo per la difesa. Per prima cosa il Principe del Foro, amico del governatore corrotto, cercò di far slittare il processo oltre l’autunno, quando, per il suo cliente, i tempi politici potevano essere sicuramente migliori. Visto fallire il tentativo di influenzare il processo con la nomina di Cecilio ad accusatore, ricorse a un nuovo espediente per ostacolare Cicerone: subito dopo l’accettazione della denuncia contro di lui da parte della quaestio (nominis receptio), si presentò di fronte a essa un accusatore, il cui nome rimane ignoto, che intendeva avviare un’azione per dei crimini compiuti in Grecia da un altrettanto ignoto governatore della Macedonia.

Questo accusatore chiese 108 giorni per la sua inquisitio in Grecia, cioè appena due giorni in meno rispetto a quelli accordati a Cicerone: ciò implicava che il processo contro il governatore macedone avesse la precedenza su quello contro Verre, come di fatto avvenne. Cicerone accusa esplicitamente Verre e i suoi sostenitori di aver orchestrato un processo-farsa per rimandare l’inizio delle udienze a suo carico e di avere a tal proposito subornato un accusatore compiacente, che dopo aver richiesto 108 giorni per le sue indagini non si recò nemmeno a Brindisi per imbarcarsi per la Grecia (Verr. 1,6; 2,1,30). 

Nonostante ciò, Cicerone partì per la Sicilia, dove svolse accurate indagini, e rientrò a Roma allo scadere esatto dei 110 giorni, intorno alla metà di aprile, nello stesso periodo in cui sarebbe dovuto rientrare dalla Grecia l’altro accusatore. A quel punto iniziò il processo contro il governatore macedone, che tenne occupata la quaestio nei mesi di maggio e giugno, che per Cicerone sarebbero stati i più utili a svolgere il processo per la quasi totale assenza di ludi che interrompessero l’attività giudiziaria.

Ad ogni modo, con solerzia e abilità, Cicerone fece sì che il processo fosse messo a ruolo prima dell’interruzione estiva. Verre perdeva già il primo vantaggio: quello di poter essere giudicato da giudici amici. Allo stesso tempo il giovane avvocato riuscì a trattenere per sé l’accusa cui era particolarmente legato, sia per amore della giustizia sia per il salto di carriera che si accingeva a compiere. Era il suo primo incarico come difensore della parte civile: negli anni precedenti era sempre stato difensore dell’imputato.

Molti si recarono nel Foro per ascoltare Cicerone: quel processo rappresentava un autentico punto di non ritorno nella vita della Repubblica. Era infatti presentato come un’occasione imperdibile per la riaffermazione di una legalità ormai sempre più disattesa.

Per questi motivi molti a Roma guardavano con attenzione a questo processo: sapevano che la sentenza sarebbe stato un segnale. Positivo per molti derubati, bistrattati e ormai sfiduciati cittadini, negativo e d’allarme per i potenti. 

Quando Cicerone, pronunciando le più violente invettive contro Verre si fa paladino del diritto a ottenere giustizia concesso dalla legge al nobile popolo di Sicilia angariato e ridotto all’estrema rovina, quando tocca la corda del sentimento a favore dei poveri provinciali spogliati e oppressi, non bisogna lasciarsi commuovere. Ma Cicerone era un avvocato, e le accorate espressioni a lode e onore dei Siciliani non sono che le belle frasi di un grande oratore. Fra gli scopi del processo di Verre non è dato scorgere quello che a noi parrebbe ovvio, ma che né a Cicerone né ai suoi compatrioti passò neppure per la mente: un miglioramento delle condizioni dei provinciali.

Il processo di Verre non produsse nessuna conseguenza per l’amministrazione delle province. Semplicemente si inserì nel gioco degli interessi politici: servì a Pompeo [6] che con la riforma giudiziaria registrò un successo della sua politica; servì all’ordine equestre che, riconquistando la supremazia nei tribunali, ottenne ogni libertà d’azione nello sfruttamento delle province; servì infine anche al senato che, condannando Verre, si salvò almeno una partecipazione ai tribunali. In particolare, giovò a Cicerone, nocque ad Ortensio, allontanò per sempre Verre da ogni pubblico ufficio. Ma per i Siciliani tutto restò come prima, fatalmente peggio di prima.

Nessun processo poteva sollevarli, nessuna legge giudiziaria poteva risolvere i problemi della loro isola. La causa della loro iattura aveva radici nel sistema stesso della amministrazione, che nessuno intendeva modificare perché si prestava troppo bene agli interessi di una società così agitata da continui torbidi politici e tensioni sociali come quella romana alla fine della repubblica.

Elevando Verre a «paradigma del male» e intendendo colpire in lui il sistema di Silla, che a quel punto era già andato in frantumi, l’arpinate (Cicerone era nato ad Arpino) riuscì a porre le fondamenta della propria carriera politica. Non senza qualche punta di cinismo. Talché su Cicerone torna qui il giudizio «politico» che ne diede Theodor Mommsen nella Storia di Roma antica (Sansoni): «Come uomo di Stato, senza perspicacia, senza opinioni e senza fini, egli ha successivamente figurato come democratico, come aristocratico e come strumento dei monarchi, e non è mai stato altro che un egoista di vista corta». Quanto alla fattispecie del processo a Verre, scrive Fezzi, «nella ricostruzione ciceroniana della “carriera criminale” dell’imputato, molto, a ben vedere, potrebbe essere messo in discussione». E per quel che riguarda l’operato di Verre in Sicilia, insiste Fezzi, «l’impressione – in noi molto forte – è che l’indagine ciceroniana propriamente intesa abbia presto ceduto il passo all’organizzazione e, forse, alla manipolazione delle prove». [7]

Nelle Verrine sono palesate le ragioni della corruzione romana. Egli denunciava la corruttela nella politica, palesando ai cittadini romani che, chiunque volesse diventare un personaggio influente a Roma doveva passare per la carica di governatore locale, e le campagne elettorali richiedevano un impegno notevole di danaro; la tal cosa spingeva i contendenti ad indebitarsi e a costruire una fitta rete di clientele. La genesi del fenomeno corruttivo va, dunque, individuata nella cieca ambizione dell’uomo, in particolare delle classi dirigenti, sempre pronte ad accettare qualunque turpe compromesso pur di assicurarsi un egoistico tornaconto. Un assunto, che, purtroppo, è ancora di una straordinaria attualità.

Come a Roma, nel processo contro il governatore Verre, Cicerone invocava a gran voce una decisione che potesse essere da monito per i potenti e potesse gettare un segnale contro il fenomeno corruttivo, in Italia ancor oggi si chiede una posizione netta e decisa contro lo stesso fenomeno, perché se da un lato i più si apprestino a dire che tanto si fa e si è fatto, altri ribattono che le riforme, probabilmente mosse dalla fretta di placare l’opinione pubblica, siano meri buchi nell’acqua e non producano frutti concreti. Invero, esattamente come accade nelle Verrine, la decisione sulla corruzione è una decisione culturale prima ancora che giuridica.

L’attualità dell’“Affaire Verre” è impressionante: nelle dinamiche politiche, come nell’amministrazione della giustizia, nelle azioni di lobby, nell’attività dilatoria dei processi, nella corruzione, nel crimine organizzato. 

Più che ieri, il testo che ci rimane sembra scritto oggi ed è per l’oggi che ricopre una grande importanza. Una storia dai risvolti, sociali, processuali, politici talmente attuali da fare capire che in duemila anni nulla abbiamo inventato e che costituisce un esempio assoluto di lotta contro il crimine.

Non bastano, dunque, gli interventi tecnici, le riforme di diritto ma, è necessaria una vera e propria “riforma etica” per ristabilire una fiducia tra governati e governanti. 

La questione non può essere ridotta ad un mero intervento burocratico con provvedimenti di carattere legislativo ma bisogna piuttosto intervenire a monte, innescando una vera e propria rivoluzione delle coscienze. La stessa vicenda di Tangentopoli lo ha dimostrato: fare “piazza pulita” non è sufficiente se non si scende alla radice del problema, al fine di incentivare una vera e propria consapevolezza e capacità di opporsi e rifiutare un sistema corrotto.

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[1] Si veda per un’ampia trattazione sull’argomento J. T. NOONAN JR., Ungere le ruote. Storia della corruzione politica dal 3000 a.C. alla Rivoluzione francese, Sugarco 1987.

[2] Ci si riferisce in particolare alla commedia Aulularia, rappresentata verosimilmente la prima volta tra il 200 a.C. e il 191 a.C.

[3] “I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori” (Traduzione dell’autore. Citato in A. GELLO, Noctes Atticae: liber III, Giardini, Pisa 1993, pag. 173).

[4] Nel corso degli anni varie leggi ne avevano regolato il funzionamento, con unʼalternanza tra provvedimenti di ispirazione popolare, come la lex repetundarum fatta approvare da Gaio Gracco nel 123-122 a.C. e la lex Servilia Glauciae del 101-100 a.C., e altri di natura filosenatoria, come la lex Cornelia iudiciaria emanata da Silla nellʼ81 a.C., che disciplinò la composizione delle giurie delle quaestiones perpetuae estromettendo da esse i cavalieri e riservandole ai soli nobili

[5] M. T. CICERONE, In Verrem, Actio prima I-3, traduzione di N. Marinone, in L. CANALI, M. C. CARDONA, Camena, Letteratura Latina, op.cit., pp. 193-194.

[6] Appena giunto alle porte di Roma nel 71, Pompeo nel suo primo discorso elettorale aveva promesso, tra le acclamazioni della folla, la piena restaurazione del potere tribunizio e la riforma giudiziaria. Poche settimane dopo la sua elezione la lex Pompeia Licinia restituiva ai dieci magistrati popolari tutte le loro attribuzioni: il colpo era grave per il senato, che si vedeva sottoposto al beneplacito di una demagogia talora asservita all’oro dei cavalieri o, peggio, alla forza militare dei generali vittoriosi. Però non fu che il primo di una serie di provvedimenti destinati in quello stesso anno 70 ad esautorare completamente l’oligarchia della nobiltà senatoriale. Poco dopo infatti il pretore Lucio Aurelio Cotta volle confermare la legge di Silla che comminava l’ineleggibilità per dieci anni a chi avesse fatto ricorso alla corruzione elettorale. Se si considera che la maggior parte dei senatori ricorreva a questo sistema per ottenere i suffragi, diventachiaro il significato del provvedimento. Vennero inoltre rimessi in funzione i censori, che dall’83 non avevano più adempiuto al loro ufficio e le conseguenze immediate furono una severa epurazione del senato e una accurata selezione dei cavalieri. L’ordinamento di Silla era distrutto. I nobili si aggrappavano ancora alla amministrazione della giustizia come all’unico importante privilegio che restava loro. Era questo il secondo cardine del programma enunciato da Pompeo, con cui egli intendeva legare sempre più strettamente a sé la classe dei cavalieri, i grandi capitalisti della repubblica. Quando propose in senato la legge sul potere tribunizio, l’assemblea comprese che ben presto sarebbe sorta fatalmente anche l’altra questione, più scottante di tutte in quanto non ammetteva nessun ripiego. Del resto parecchi tra i senatori si sentivano la coscienza sporca: per molti anni esercitando le funzioni di giudici avevano protetto quelli della loro casta e venduto le assoluzioni ai colpevoli di crimini manifesti. Nel clima di rinnovamento creato dalla iniziative di Pompeo la riforma dei tribunali divenne l’argomento del giorno. Mancava solo un fatto nuovo per far precipitare la situazione critica a cui si era ridotta l’intransigenza del senato, un grosso scandalo che polarizzasse l’attenzione delle masse sul problema, e questo fu il processo di Verre.

[7] P. Mieli, Il cinismo di Cicerone, Corriere della Sera, 2 febbraio 2016