Valori giuridici non negoziabili del diritto pubblico (*)

no negoziabileIustitia (rivista trimestrale di cultura giuridica)
n.1-2013

SOMMARIO: 1. Premessa: un concetto sotto assedio. — 2. Una prima riflessione sulla “non negoziabilità” dei beni della vita. — 3. Una riproposizione del tema: non “quali” ma “perché” è necessario individuare dei valori ultimi non negoziabili. — 4. Una questione conoscitiva (e non solo un’intransigenza etica). — 5. Dal morale al giuridico: la dimensione della non negoziabilità nel diritto costituzionale. — 6. Nota conclusiva: l’apertura al confronto e la responsabilità dell’argomentazione

Lorenza Violini

1. Quando la Chiesa cattolica menziona l’esistenza e rivendica la necessità di tutelare valori non negoziabili, si riscontra tra i cultori del diritto costituzionale un diffuso senso di avversione. Sono in molti, infatti, a considerare tale pretesa come incompatibile, tra le altre cose (1), con la democrazia pluralistica, fondata e da fondarsi  sul relativismo delle opinioni.

Il più autorevole supporto teorico a questa visione è forse offerto da Kelsen (2), laddove questi ha affermato che: “Se si crede nell’esistenza dell’assoluto, cioè soprattutto del bene assoluto, che cosa ci può essere di più assurdo del provocare un accordo a tale riguardo, di far decidere la maggioranza?”; e, ancora: “Se la verità assoluta e i valori assoluti si considerano inaccessibili alla conoscenza umana, allora non solo si può ritenere quanto meno possibile la propria opinione, ma si deve ritenere possibile anche l’altrui, opposta opinione. Per tale motivo l’idea democratica presuppone una concezione relativistica del mondo” (3).

Venendo a tempi più recenti, Zagrebelsky ha sostenuto che “per rendere possibile la coesistenza dei principi e dei valori occorre che essi perdano precisamente il carattere che consentirebbe eventualmente la costruzione a partire da uno di essi di un sistema formale chiuso, cioè la loro assolutezza. Concepiti in termini assoluti, i principi si renderebbero rapidamente nemici uno dell’altro. Alla fine uno si ergerebbe sovrano su tutti e pretenderebbe solo svolgimenti consequenziali. Ma nelle Costituzioni pluraliste non può essere così. I principi e i valori devono essere tenuti sotto controllo per evitare che, assolutizzandosi, diventino tiranni” (4).

In questo contesto di idee, l’appello a valori non negoziabili è considerato indice di fondamentalismo e non invece segno di quella inevitabile esigenza di “fondamentalità” — da intendersi come esigenza di una struttura portante che, per essere tale, deve essere stabile e metodologicamente non modificabile — che è alla base dello stesso diritto costituzionale, il quale — non a caso, come si dirà d’appresso — indica nei diritti fondamentali e nei principi costituzionali inviolabili i baluardi che possono essere opposti agli attacchi di ipotetici ma non per questo meno pericolosi nemici.

Si assiste così a una sorta di paradosso: proprio i cultori di una disciplina permeata da elementi fondamentali tendenzialmente inviolabili (o quanto meno ritenuti e dichiarati tali) sembrano opporsi alla visione di chi, come la Chiesa cattolica, sostiene l’esistenza di elementi caratterizzati dalla non negoziabilità. Questa singolare circostanza non ha mancato di attrarre l’attenzione di alcuni tra i più vivaci giuspubblicisti, che si sono interrogati sulle possibili ragioni del paradosso.

In un saggio pubblicato pochi anni fa, Cesare Pinelli ha osservato che “l’affermazione di principi non negoziabili non è […] affatto estranea all’orizzonte della democrazia pluralistica. E proprio per questo diventa necessario distinguere il relativismo dei valori politici, che si oppone ai valori assoluti, dall’indifferenza verso la qualità dei legami sociali (5), che corrode dall’interno la convivenza democratica come un tarlo.

Nelle nostre società i vitelli d’oro si moltiplicano, e moltiplicandosi incentivano indifferenza. Da questo punto di vista l’allarme della Chiesa, istituzione bimillenaria e una delle maggiori agenzie culturali produttrici di senso su scala mondiale, mi pare pienamente giustificato. Sarebbe ben più ascoltato e condiviso, se l’equazione fra indifferenza e relativismo si accompagnasse a un chiarimento circa l’uso di questo termine. Diversamente, rimane l’impressione di una condanna indiscriminata dell’unico sistema che ha saputo fronteggiare la portata distruttiva dei valori assoluti nella sfera politica” (6).

Trattasi di un modo molto acuto di porre il problema in esame, che merita la massima attenzione. E pertanto, provando a raccoglierne l’implicita provocazione, vorrei mostrare (dimostrare sarebbe troppo) come al diritto costituzionale non sia estranea la logica che sottostà all’affermazione (teologica, morale e anche giuridica) dell’esistenza di “valori e principi non negoziabili”, e come la postulazione di questi ultimi sia compatibile con la struttura dialogica propria delle moderne società aperte (7).

2. Per procedere in questo tentativo, conviene operare la seguente distinzione: se alcunché viene qualificato come non negoziabile può significare ora che tale quid non è parificabile alle normali merci di scambio, ora che esso non può essere oggetto di transazioni (intransigibile e quindi, per assonanza, intransigente risulta il soggetto che lo qualifica come tale). Trattasi, nel primo caso di un significato materiale (vi sono oggetti negoziabili e oggetti non negoziabili), mentre, nel secondo, il riferimento ad oggetti non negoziabili si amplia per rimandare ad una non riducibile intransigenza etica.

Sulla base della distinzione or ora compiuta, va detto che l’intransigenza etica è quella che più comunemente viene accostata (forse non interamente a ragione) al pensiero del Magistero della Chiesa cattolica. Quanto, invece, all’esistenza di diversi tipi di beni/ oggetti/ valori, essa costituisce la base giuridica del ragionamento che segue e può essere ricostruita partendo da quanto è stato recentemente affermato da Micheal Sandel, uno dei più noti filosofi politici nordamericani, assai accreditato come anti-individualista e di conseguenza, pur con molte attenuazioni, appartenente alla tradizione comunitarista.

In forza di tale tradizione, Sandel ricorda nei suoi scritti (e soprattutto nel suo famosissimo What money can’t buy (8) che siamo in presenza di una diffusa mercificazione anche dei beni più lontani dalla materialità dell’esistenza: ci si può comprare, da detenuti, una migliore sistemazione nelle carceri, una cella pulita, tranquilla e lontana dalle celle dei prigionieri che non pagano; si può comprare un utero per avere un figlio senza i fastidi della gravidanza (e si può anche cercare la madre surrogata a minor prezzo, ad esempio nei paesi sottosviluppati), etc.

Ai nostri fini l’analisi di Sandel non serve in prima battuta ad identificare un elenco fisso di beni che “il denaro non possa comprare”. Essa, piuttosto, contribuisce a mettere in luce come, nella vasta rosa di beni e valori che ogni giorno attraggono la nostra attenzione, ve ne siano alcuni che — quasi naturalmente (ma probabilmente anche per una questione culturale) — sono considerati come speciali, come particolarmente preziosi, sostanzialmente “altri” rispetto al resto dei beni, qualitativamente diversi, cosicché essi tendono a sottrarsi alle normali regole che governano le relazioni e le transazioni.

È interessante notare come appartenga alla riflessione critica del soggetto la necessità di compiere tale valutazione/distinzione, contro il nichilismo materialista che considera tutto eguale, tutto “culturale” e quindi tutto soggetto a cambiamento. E, ancora, tale riflessione è interessante perché mette in luce come, quasi inesorabilmente, si stia scivolando verso un materialismo spinto, dove i criteri di giudizio di tipo economico stanno diventando dominanti e dove la logica dell’acquisto e della vendita non riguarda più solo i beni materiali ma governa l’intera sfera della vita. È, ultimamente, una posizione radicale, intransigente, volta a contrastare la tendenza che fa dell’economia — che sta diventando una nuova forma di imperialismo — il padrone ultimo dell’esistenza dell’uomo.

In altre parole, Sandel sta ponendo la questione di come si possa fondare un nuovo umanesimo la cui ricerca parte dal chiedersi se vogliamo vivere solo sulla base delle logiche del mercato per giungere poi ad identificare valori degni di essere promossi. E, ad onta della diversità delle risposte, l’accettare la sfida insita nella mera domanda comporta un riconoscimento primigenio e condiviso, secondo cui vi sono (e vi devono essere per non soccombere all’economicismo materialista) beni la cui natura li distingue da beni di altra natura.

L’esempio più ovvio, nel solco dell’etica kantiana, è l’essere umano: non a caso la schiavitù fu abolita perché esseri umani erano trattati come merce e comprati e venduti all’occorrenza; non a caso l’opposizione a tortura e pena di morte presenta caratteristiche di radicalità e di intransigenza universalmente condivise, segno della imprescindibile necessità di identificare elementi comuni di accordo che vadano oltre l’etica liberale portata all’estremo, quella secondo cui qualsiasi scelta morale è accettabile purché non leda la libertà altrui.

Va detto, per inciso, che la necessità di identificare un limite all’invasione indiscriminata del mercato e del libero scambio è assai più forte nella patria di Sandel di quanto non lo sia nella cultura europea visto che oltreoceano la provocazione ad identificare “what money can’t buy” probabilmente genera lo stesso sconcerto che si percepisce da noi quando il Magistero della Chiesa afferma che vi sono valori non negoziabili. In questo senso vi può essere una certa affinità culturale tra la tensione morale di Sandel e la visione del Magistero cattolico, entrambe volte a contestare l’assetto culturale dominante qui relativista, là materialista.

La sommaria riproposizione delle tesi di Sandel, volutamente tenuta sul piano del metodo, consente ora di avvicinarsi agli insegnamenti del Magistero della Chiesa sul tema dei valori non negoziabili senza ridurre lo stesso ad un mero “elenco di cose”. Parlare di elenco può essere ad un tempo molto facilitante (sino al semplicismo) ma anche fuorviante, mirando a portare l’attenzione sul concreto accordo sui contenuti senza un serio confronto sui presupposti del ragionamento in atto.

Di fatto, il dettagliato elenco che — quasi a cantilena — viene riproposto, risponde alla domanda su quali siano tali beni e non alla ben più radicale questione del perché essi siano stati affermati e vengano costantemente riproposti nel presente — epoca che, come si sa, è dominata dal relativismo sia teorico sia, soprattutto pratico, faccia tollerante dell’individualismo nichilista e materialista che ne costituisce il sostrato.

3. Se per ora si deve riflettere non tanto sui contenuti sostan­ziali richiamati dall’espressione su cui qui si ragiona, quanto sulla logica ad essa sottesa, occorre chiedersi come mai il Magistero insista nel riproporre certi valori e nel qualificarli come non negoziabili.

Ricordiamo in premessa che l’espressione principi/valori/diritti assoluti e non negoziabili è contenuta nella “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica” (9), redatta nel 2002 a cura della Congregazione per la dottrina della fede, durante la presidenza dell’attuale Pontefice (10).

Benedetto XVI usa questa formula (riferendosi alla promozione della vita umana dal suo concepimento fino alla fine naturale, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, all’educazione dei figli) per indicare “la soglia morale al di sotto della quale nessuno, secondo la Chiesa, deve scendere, il nucleo etico di cui singoli e organizzazioni civili non possono disporre, dal momento che esso è iscritto nella stessa natura” (11), concetto ricorrente — come abbiamo visto — anche nella riflessione del laico Sandel.

Sulla scia di tale primigenia dichiarazione, nel 2007 (12), il Pontefice ha messo in luce come la riscoperta di determinati valori fondanti della convivenza civile — ed in particolare dell’inviolabile sacralità dell’essere umano — sia indispensabile per il superamento del grave momento che le nostre società si trovano ad affrontare.

Nel discorso di Sua Santità al Comece si legge che “non si può pensare di edificare un’autentica «casa comune» europea trascurando l’identità propria dei popoli di questo nostro Continente. Si tratta infatti di un’identità storica, culturale e morale, prima ancora che geografica, economica o politica; un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il Cristianesimo ha contribuito a forgiare, acquisendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa.

Tali valori, che costituiscono l’anima del Continente, devono restare nell’Europa del terzo millennio come «fermento» di civiltà. Se infatti essi dovessero venir meno, come potrebbe il «vecchio» Continente continuare a svolgere la funzione di «lievito» per il mondo intero? Non è motivo di sorpresa che l’Europa odierna, mentre ambisce a porsi come una comunità di valori, sembri sempre più spesso contestare che ci siano valori universali ed assoluti?

Questa singolare forma di «apostasia» da se stessa, prima ancora che da Dio, non la induce forse a dubitare della sua stessa identità? Si finisce in questo modo per diffondere la convinzione che la ponderazione dei beni sia l’unica via per il discernimento morale e che il bene comune sia sinonimo di compromesso. In realtà, se il compromesso può costituire un legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, si trasforma in male comune ogniqualvolta comporti accordi lesivi della natura dell’uomo”.

Al centro del pensiero del Pontefice, in ultima analisi, è il tema del fondamento dell’identità collettiva dei popoli europei, identificato con il valore ultimo dell’autentica dignità dell’essere umano, valore da contrapporre a quell’atteggiamento pragmatico, oggi largamente diffuso, che giustifica sistematicamente il compromesso sui valori umani essenziali, come se fosse l’inevitabile accettazione di un presunto male minore.

Tale pragmatismo, presentato come equilibrato e realista, in fondo tale non è, proprio perché nega quella dimensione valoriale ed ideale che è inerente alla natura umana e che si caratterizza come intrinsecamente immodificabile non solo sul piano morale ma, prima di tutto, sul piano dell’ontologia; è questo il contesto in cui si inserisce la questione dei valori non negoziabili, riproposti non senza una forte critica alle riduzioni antropologiche e morali della cultura contemporanea.

4. Ma i valori non negoziabili sono il prodotto di una specifica visione dogmatica o sono espressione di una concezione che può dirsi universale? La risposta a questa domanda è ben esplicitata nelle fonti citate e in molti altri documenti che trattano del tema. Qui si può leggere, ad esempio, che “Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità” (13).

Simili affermazioni vanno fatte oggetto di riflessione e di approfondimento e, a tal fine, soccorrono le tesi di Sandel sopra evocate. Anche tale autore ricorre sovente al tema della natura, una natura che la ragione può e deve conoscere per trame poi le conseguenze etiche. Un’etica senza fondamento sostanziale — sostiene Sandel — finisce per essere facile preda dei signori del mercato, dell’economicismo materialista, cui anche la Chiesa Cattolica — come si è visto — vuole distanziarsi per andare alla ricerca di un nuovo umanesimo e dei suoi presupposti antropologici.

Ora, parlare di natura non significa — come forse in molti casi può accadere — parlare di qualcosa che è l’opposto dell’artificio; non significa neppure aderire, senza una adeguata modernizzazione (14), al tema del diritto naturale, già in parte messo in discussione dallo stesso Benedetto XVI ai tempi del suo dialogo con Habermas (15), che pure mantiene, nella sua aspirazione ideale, tutta la sua validità.

Una riflessione sull’identificazione della natura degli oggetti risulta invece utile al fine di porre in essere un esercizio della ragione che, come tale, è in grado, tramite processi argomentativi, di pervenire a distinguere che cosa è “mercé” e che cosa è “non mercé”, che cosa è “negoziabile” e che cosa è “non negoziabile”, cosicché le norme morali e giuridiche che valgono per il primo genere di oggetti non possono essere automaticamente trasferite al secondo genere.

Anche questo non è scontato: come ben evidenzia Sandel, al presente il mercato è un fenomeno pressoché totalizzante in forza del quale si è attuato una sorta di passaggio dall’economia di mercato alla “società” di mercato. Se ci si vuole opporre a questa visione, è necessario distin­guere tra categorie di beni facendo ricorso al concetto di natura indagato dalla ragione. Il che, come è noto, non presenta elementi di sostanziale novità visto che già Aristotele — e con lui Tommaso — asseriva che la modalità di valutazione di un oggetto dipende dalla natura dello stesso.

Il problema dei valori non negoziabili è di natura conoscitiva, prima ancora che di natura etica. Non a caso il Cardinale Bagna-sco (16), per trattare del tema della vita umana “nella sua assoluta indisponibilità o, se si vuole, sacralità”, ha reputato inevitabile allargare l’orizzonte al “problema antico ma non scontato della conoscenza”.

“La conoscenza infatti, parte da un atto positivo, di fiducia: fa appello al senso comune, all’esperienza universale”. “È dunque” — prosegue il Presidente della CEI — “un atto di sintonia, di comunione preriflessa con il mondo, il punto di partenza del nostro rapportarci con il mondo, non il rinchiuderci nel sospetto e nel dubbio metodico e universale che — forse con aria di profonda intelligenza — accusa di fanatismo chi affermi che la verità esiste ed è conoscibile”.

Senza entrare ulteriormente nell’argomento, basta qui trattenere l’idea che la Chiesa pone — quantomeno — un tema su cui riflettere sul piano conoscitivo prima ancora che un elenco di principi morali e giuridici da fissare. Ed è su questi presupposti che si può costruire un dialogo ed un confronto tra le diverse componenti della società plurale. Come è stato giustamente detto (17), “occorre una società che favorisca un dibattito acceso [sulla] natura. La finta discrezione e neutralità liberale sulle scelte morali ha di fatto privato la società di uno spazio comune”.

La Chiesa considera dunque suo dovere difendere, nella totalità della nostra società, le verità e i valori nei quali è in gioco la dignità dell’uomo in quanto tale. Ne deriva che, ad esempio, “non abbiamo diritto di giudicare se un individuo sia ‘già persona’, oppure ‘non ancora persona’, e ancor meno ci spetta manipolare l’uomo e voler, per così dire, farlo.

Una società è veramente umana soltanto quando protegge senza riserve e rispetta la dignità di ogni persona dal concepimento fino al momento della sua morte naturale” (18). “Non si tratta”, quindi, “di voler imporre la fede e i valori che ne scaturiscono direttamente, ma solo di difendere i valori costitutivi dell’umano e che per tutti sono intelligibili come verità dell’esistenza” (19).

Per concludere, si può affermare che tre sono i fattori in cui si rinviene una certa assonanza tra il pensiero di Sandel e il Magistero relativo ai valori non negoziabili: essi sono accomunati, in primo luogo, dalla premessa circa l’esistenza di diverse categorie di beni e di valori, alcuni negoziabili, alcuni non negoziabili; in secondo luogo, in entrambi si riscontra la necessità di identificare un metodo per distinguere gli elementi delle diverse categorie, metodo basato su natura e su ragione; infine, essi hanno in comune l’individuazione del principio della dignità umana quale valore ultimo.

Ricostruito in tal modo il tema dei valori non negoziabili, si può ora passare ad analizzarne un suo più specifico aspetto, quello dei valori giuridici non negoziabili, se — in altre parole — sia legittimo che i valori fondanti le identità collettive e la dignità dei soggetti singolarmente considerati, possano trovare riscontro nella struttura dell’ordinamento giuridico e, in particolare, in quel settore dello stesso che ne determina e codifica i fondamenti costitutivi.

Ma prima di addentrarci in questa seconda parte del percorso, una postilla merita di essere apposta alla prima parte dello stesso. Il linguaggio sui valori non negoziabili ha — in un certo senso — fatto scuola, visto che anche il fronte laico, pur avversandone i contenuti, fa ricorso esso stesso a questa espressione per individuare i fondamenti del proprio pensiero.

Per fare solo alcuni esempi, si può ricordare quanto ha dichiarato nel settembre 2010 il Presidente della Commissione Europa, Barroso, commentando la violazione dei diritti delle donne in molti paesi del mondo (20): “Essere un attore mondiale significa anche difendere i propri valori. I diritti umani non sono negoziabili”.

O, ancora, si possono menzionare alcune affermazioni di Veronesi e Brunelli sul tema della centralità della libertà di coscienza (21), nelle quali si esprime l’idea che ai rappresentanti politici “è sottratto il potere di approvare leggi non per tutelare la libertà di scelta del cittadino ma per imporgli la scelta confacente all’ethos della parte politica che si trova a essere maggioranza e a governare”, ravvisandosi in tale aspetto “il vero e laico Valore non negoziabile’ ricavabile dalla trama della nostra Costituzione”.

5. Le idee sin qui esposte trovano riscontro nel diritto costituzionale, che è per antonomasia il regno del non negoziabile. La Costituzione, nel suo complesso, sottrae infatti beni e valori alla negoziazione politica, sottomettendo quest’ultima al controllo di giudici esperti che custodiscono il “verbo” costituzionale. Essi non vogliono ma sanno, conoscono e dicono quello che la Costituzione dice, secondo il noto detto del ChiefJustice Harlan.

E, tuttavia, la questione non può essere conclusa in così brevi battute, diversa essendo la staticità della legge morale rispetto alla dinamicità del diritto, di tutto il diritto, compreso il diritto costituzionale. Le norme giuridiche non fermano il cambiamento, non lo sterilizzano ma lo assecondano e lo orientano. Così principi intaccabili come sovranità del Parlamento, diritti e libertà fondamentali del cittadino e persine il controllo della legittimità costituzionale, sebbene non negoziabili, subiscono gli influssi del tempo, degli attori pubblici, della società tutta (22).

Ad esempio, la Costituzione può bene affermare che il Parlamento sia titolare della funzione legislativa potendo il Governo esercitare la medesima solo in casi eccezionali. E, tuttavia, è sotto gli occhi di tutti che il vertice dell’esecutivo da decenni fa un ricorso ordinario allo strumento del decreto legge, così come costituisce un fenomeno noto la diminuzione della produzione legislativa del Parlamento italiano, e non solo.

Entrambi i fenomeni sono giustificabili costituzionalmente per il fatto che, in ultima analisi e tramite procedure all’uopo previste, il Parlamento non risulta del tutto esautorato ma solo condotto ad esercitare il proprio potere secondo forme predeterminate.

Ancora: la Costituzione riconosce il valore della solidarietà e quello dell’eguaglianza, e reca numerosi enunciati che attribuiscono ai singoli diritti a ottenere prestazioni da parte dello Stato al fine di superare gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Ciononostante, è stato ed è il legislatore a decidere in merito all‘an, al quantum e al quomodo dare attuazione a tali previsioni, con l’avallo della Corte costituzionale. Di nuovo, questo intreccio di interventi risulta riconducibile, ultimamente, ad una volontà costituzionale, quella della Corte, che entra in merito alle scelte parlamentari per preservarne la coerenza con la Costituzione.

Si assiste, dunque, a un fenomeno complesso, caratterizzato dal continuo riconoscimento di valori giuridici non negoziabili e dal continuo rinnovamento delle forme nelle quali tali valori sono affermati concretamente, senza che venga meno la coerenza costituzionale complessiva.

Nel tentativo di giustificare questo fenomeno, la dottrina è solita osservare che la Costituzione italiana è una Costituzione rigida, ossia dotata di una capacità di resistenza all’abrogazione e alla deroga da parte delle leggi formali (a garanzia della quale è preposta ultimamente la Corte costituzionale), è una Costituzione programmatica, cioè indicativa di un programma di trasformazione economico-sociale del paese finalizzato a salvaguardare le ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza, è una Costituzione aperta, suscettibile di legittimare e orientare programmi e indirizzi diversi perseguenti il programma fondamentale assunto nel testo.

Quando poi l’assunzione di determinati programmi e indirizzi porti alla negazione (o alla nuova negoziazione) del programma affermato dalla Costituzione (ossia dei valori giuridici assunti come non negoziabili) è domanda cui non si sa dare risposta certa se non affermando — con Valerio Onida — che “naturalmente c’è un limite a questo carattere aperto dei programmi, oltre il quale, più che di elasticità, si dovrebbe parlare di svuotamento o di insignificanza dei disposti costituzionali; un limite al di là del quale il carattere aperto della Costituzione ne contraddirebbe la funzione di garanzia”.

Vi è ora da compiere un secondo passaggio. Il discorso fin qui condotto soffre di una ulteriore complicazione in ragione del fatto che la nostra Costituzione ammette che siano cambiati gli enunciati costituzionali. L’art. 138 prevede un articolato procedimento facendo ricorso al quale si possono modificare gli enunciati della Costituzione, purché ciò non tocchi la forma repubblicana (23).

I costituzionalisti si sono domandati il significato da attribuire alla formula “forma repubblicana”, interrogandosi anche sull’esistenza di limiti ulteriori al potere di revisione della Costituzione. Essi sono giunti alla conclusione che tale potere si arresterebbe di fronte ai principi di fondo contenuti nella Legge fondamentale.

Così, ad esempio, si ritiene che sarebbe possibile modificare singoli istituti, relativi alla formazione e all’attività degli organi costituzionali, ma non attribuire i poteri di indirizzo politico ad organi sforniti di legittimazione democratica. Ancora, sarebbe possibile modificare i limiti o la specifica regolamentazione di questa o quella libertà civile, ma non sopprimerne qualcuna o farne venire meno il nucleo fondamentale, ostandovi il principio personalistico, che comporta la inviolabilità dei diritti dell’uomo.

La Corte costituzionale pare avere seguito queste elaborazioni teoriche quando ha annoverato tra i suoi poteri quello di operare un sindacato su leggi costituzionali anche sotto il profilo sostanziale in relazione al rispetto dei principi supremi dell’ordinamento della Costituzione.

Sintetizzando un percorso avviato negli anni Settanta, la sent. Cost. n. 1146/1988 ha individuato i “principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali” in quelli che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, nonché in quelli che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana (24).

Analoga struttura argomentativa hanno le sentenze della Corte costituzionale che hanno postulato l’esistenza di un nucleo essenziale dei diritti di libertà e dei diritti sociali come limite invalicabile dal legislatore pena lo svuotamento di significato normativo degli enunciati costituzionali.

Ad esempio, con la sent. n. 252/2001 la Consulta ha statuito che il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è “costituzionalmente condizionato” dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di “un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto”.

E, ancora, nella sent. n. 354/2008 è stato affermato che mentre la tutela del diritto alla salute nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni «non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone», tuttavia le «esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana».

Da ultimo, la sent. n. 467/1991, in tema di libertà di coscienza, ha stabilito che la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che “non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico”.

Di qui deriva che — quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) — “la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana” (25).

6. Immodificabilità dei principi fondamentali, nucleo essenziale dei diritti e “riflessi giuridici” di più profonde idee universali possono essere considerati, anche in forza di un discorso giurisprudenziale particolarmente sofisticato, espressione di quei valori su cui l’ordinamento nel suo complesso si fonda e che, senza tema di essere smentiti, ne rappresentano la dimensione non negoziabile.

Che tale dimensione esista e sia giuridicamente rilevante, come parrebbe alla luce di quanto sin qui detto, deve ora confrontarsi con un’ultima obiezione, che proviene da coloro che considerano i valori come espressione di scelte soggettive, caratteristica che osta a considerarli parte dell’ordinamento (26). Per diventare diritto i valori dovrebbero invece essere trasformati in principi, ossia in elementi oggettivi, razionalmente conoscibili e sempre suscettibili di bilanciamento.

Una simile concezione porta a conseguenze estreme quanto riportato all’inizio del presente contributo, dove si è discusso della compatibilita/incompatibilità dei valori non negoziabili con la struttura stessa della democrazia. Essa mira, infatti, ad espungere la logica della non negoziabilità non solo dal sistema democratico nel suo complesso ma anche dall’intero ordinamento giuridico e, in particolare, dal diritto costituzionale che troverebbe nel bilanciamento la sua Grundnorm.

Quest’ultima, estrema e radicale concezione non è incontrovertibile: se è vero, come visto sopra, che la non negoziabilità è reperibile nell’esperienza costituzionale, che è fondata su argomenti razionali e che permane pur dentro e oltre ogni concreta forma di bilanciamento (27) (il quale, come si è visto, non può andare oltre al nucleo essenziale fino ad abolirlo), allora occorre ammettere che l’orizzonte stesso di tale branca del diritto racchiude in sé valori giuridici (non negoziabili) che ne costituiscono la struttura portante e principi giuridici (bilanciabili gli uni con gli altri) che ne sono espressione.

Di qui, un duplice compito per i non cattolici e per i cattolici. I primi sono chiamati a non rinunciare a confrontarsi con quanto espresso dalla Chiesa quando essa fa riferimento a valori non negoziabili, perché questo riferimento non è estraneo né alla democrazia né al diritto costituzionale.

I secondi sono tenuti ad affinare la capacità argomentativa fino ad essere in grado di sostenere con successo una discussione razionale sui beni che verrebbero compromessi da scelte ad essi antitetiche, sostenuti in questo lavoro dalla consapevolezza che il Magistero indica, è vero, i temi, ma ne lascia lo svolgimento a chi, politicamente o culturalmente, gioca, in quest’opera di sostegno e di concretizzazione, la propria responsabilità di cittadino

Note

(*) Relazione tenuta al 62° Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani (Roma, 7-9 dicembre 2012) sui “Valori giuridici non negoziabili”.

1) La tesi della Chiesa relativa alla sussistenza di valori e principi non negoziabili è criticata, oltre che per quanto si dice nel testo, perché ritenuta lesiva della laicità dello Stato italiano, ossia di un valore giuridico che impedirebbe allo stesso legislatore democraticamente eletto di trasporre valori e principi religiosi nell’ordinamento giuridico nazionale. Si legge in S. rodotà, Se la Chiesa sfida la Costituzione, da La Repubblica del 14 febbraio 2007, che se le autorità ecclesiastiche fanno riferimento a norme inderogabili e cogenti che precedono la legge umana, “la tavola dei valori non è più quella che si trova nella Costituzione, ma quella indicata da una legge naturale i cui contenuti sono definiti esclusivamente dalla Chiesa”. Quest’ultima, di conseguenza, opera “una vera revisione costituzionale, volta a sostituire il patto tra i cittadini fondato sulla Costituzione repubblicana con un vincolo derivante dalla gerarchia di valori fissata una volta per tutte dalla Chiesa attraverso una sua versione autoritaria del diritto naturale”. Per una critica a visioni di questo genere, cfr. L. VIOLINI, Bioetica e laicità, in A. PACE (a cura di), Problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI. Atti del 21 Convegno annuale (Napoli, 26-27 ottobre 2007), Cedam, 2008, pp. 221 ss.
2) Cfr. A. DI GIOVINE, Laicità e democrazia, in Studi in memoria di Giuseppe G. Floridia, Jovene, p. 257.
3) H. Kelsen, II primato del Parlamento, Giuffrè, 1982, p. 58.
4) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Leggi, diritto, giustizia, Einaudi, 1992, p. 171.
5) L’espressione è presa a prestito da G. ZAGREBELSKY, Imparare la democrazia, Einaudi, 2005, p. 17.
6) C. PINELLI, Gli appelli alla natura e le prospettive del diritto costituzionale, in Diritto Pubblico, n. 3 del 2008, pp. 713-714.
7) Sulle condizioni da soddisfare per preservare il carattere dialogico delle società moderne e sul ruolo che il Magistero della Chiesa cattolica svolge a tale riguardo, cfr., almeno, A. SCOLA, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, 2007; J. PRADES, Occidente: l’ineludibile scontro, Edizioni Cantagalli, 2008.
8) M. J. SANDEL, What money can’t buy. The maral limits ofmarkets, Farrar Straus and Giroux, 2012.
9) Si legge nella nota: “Non si può negare che la politica debba anche riferirsi a principi che sono dotati di valore assoluto proprio perché sono al servizio della dignità della persona e del vero progresso umano”. Per il testo completo, v. http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20021124_politica_it. htm.
10) Sempre sui valori non negoziabili, si veda, più di recente, il discorso che il Pontefice ha tenuto il 22 settembre 2012 ricevendo a Castel Gandolfo il Comitato Esecutivo dell’Internazionale democratico-cristiana. In questa circostanza il Papa è partito dalla crisi economica internazionale, letta come occasione per «cogliere nelle trasformazioni in atto l’incessante quanto misteriosa presenza di Dio nella storia»: la crisi non è soltanto né principalmente economica, ma è stata anche determinata dal venire meno di « un solido fondamento etico». Se la crisi non è principalmente economica, neppure la via d’uscita dalla crisi potrà essere principalmente tecnica ed economica. Al contrario, dovrà partire dalla « promozione e la tutela della inalienabile dignità della persona umana » e dall’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II.
11) Cfr. L. ZANNOTTI, Sui principi non negoziabili della Chiesa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 30 del 2012.
12) L’occasione fu il discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai partecipanti al Congresso promosso dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (Comece), tenuto il 24 marzo 2007.
13) Queste parole sono contenute nel Messaggio del Sommo Pontefice per la celebrazione della XLVI Giornata Mondiale della Pace, Beati gli operatori di pace.
14) Per un tentativo volto a ripensare in chiave moderna la nozione di diritto naturale, v. A. simoncini, Esperienza elementare e diritto: una questione “persistente”, in P. CAROZZA, M. CARTABIA, A. SIMONCINI, L. VIOLINI, Esperienza elementare e diritto, Guerini e associati, 2011, pp. 40-43.
15) Ci si riferisce al dibattito avvenuto tra l’allora Cardinale Joseph Ratzinger e il filosofo Jtìrgen Habermas il 19 gennaio 2004, presso la Katholische Akademie di Monaco. I contenuti di quel dialogo sono riportati in J. RATZINGER – J. HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana Edizioni, 2008
16) Cfr. A. BAGNASCO, Lectio magistralis. Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia, VIII Convegno annuale di Scienza & Vita “Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia” (Roma, 18-19 novembre 2011), p. 18.
17) Si veda G. MADDALENA, Tutto è lecito finché non fa male agli altri?, in ilsussidiario.net del 30 novembre 2012.
18) BENEDETTO XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore tedesco, Roma, 7 novembre 2011.
19) Così, A. BAGNASCO, op. cit., p. 5.
20) Cfr. J. M. D. BARROSO, SPEECH/10/411, 7 settembre 2010.
21) In G. BRUNELLI – P. VERONESI, Ai limiti della funzione rappresentativa: divieto di mandato imperativo e voto sulle questioni di coscienza, in Costituzionalismo.it, n. 2 del 2012, p. 13.ù
22) In questo senso si veda V. ONIDA, Il “mito” delle riforme costituzionali, in Il Mulino, n. 1 del 2004, p. 17: “La Costituzione non «invecchia»: se è vitale — e la nostra lo è — essa accompagna il paese nella sua evoluzione, garantendo la conservazione dei valori essenziali e nello stesso tempo consentendo sviluppi normativi e di prassi anche diversi. Ogni norma giuridica vive nell’ordinamento per come via via essa è intesa ed applicata nel tempo; ma per la Costituzione questo è vero al massimo grado. Le parole del testo restano le stesse, espresse nel linguaggio del tempo della sua genesi; e gli stessi rimangono i principi da essi desunti: ma lo sviluppo della vita dell’ordinamento, e l’apporto costante della giurisprudenza dei giudici comuni e del giudice costituzionale, ne rimodulano e ne arricchiscono continuamente i contenuti”.
23) Recita l’art 139 della Costituzione italiana: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
24) Si legge nella sentenza della Corte costituzionale n. 1146/1988, in Giur. cast., 1988, p. 5569: “Non si può… negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla legittimità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali… nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Se così non fosse … si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore”. Benché la maggioranza della dottrina (fra gli altri, v. R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto Costituzionale, Torino, 2010, p. 418) sia concorde su questo punto, non è mancato chi invece ha ritenuto inconsistenti le argomentazioni addotte a supporto della “giustiziabilità” delle leggi costituzionali. Il dibattito è ricostruito criticamente da M. DOGLIANI, La sindacabilità delle leggi costituzionali, ovvero la “sdrammatizzazione” del diritto costituzionale, in Le Regioni, 1990, pp. 778 ss.
25) Come si ricorderà, su questa base, è stato riconosciuto il diritto fondamentale all’obiezione di coscienza al servizio militare “se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale”. Qui la Corte ha pertanto riconosciuto che “la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)”
26) G. ZAGHEBELSKY, Diritto per: valori, principi o regole? (A proposito della dottrina dei principi di Ronald Dworkin), in Quaderni fiorentini, n. XXXI, 2002, pp. 872-874.
27) In questo senso si veda G. SILVESTRI, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, Intervento al Convegno trilaterale delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, tenutosi a Roma il 1° ottobre 2007, disponibile su http://archivio.rivistaaic.it/dottrinallibertadiritti/silvestri.html: “La supremitas della dignità la innalza a criterio di bilanciamento di valori, senza che essa stessa sia suscettibile di riduzioni per effetto di un bilanciamento. Essa non è effetto di un bilanciamento, ma è la bilancia medesima. Sia che la dignità trovi posto nella Costituzione per mezzo di una disposizione esplicita, come avviene, ad esempio, nella Costituzione tedesca, in quella portoghese ed in quella spagnola (ed in tante altre), sia che la stessa sia un implicito presupposto della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, come avviene nella Costituzione italiana, il punto fondamentale è che la sua intangibilità entrerebbe in contraddizione con l’essere considerata frutto di una volizione soggettiva, fosse anche del potere costituente”.