Valori e princìpi non negoziabili

valoriStudi Cattolici n.624 febbraio 2013

L’ordinamento giuridico dello Stato, anche se qualificabile come laico, esprime valori di origine religiosa, che appartengono alla «morale universale» e che fondano i «princìpi supremi» della Costituzione. Ma come pensare, oggi, una convergenza degli immigrati islamici verso valori così estranei alla loro cultura? Per Giuseppe Dalla Torre, rettore dell’Università Lumsa di Roma, non resta che appellarsi alla libertà delle coscienze: essa costituisce il «valore non negoziabile» in cui si riflette il profilo istituzionale della laicità e che sul piano del diritto positivo si esprime nel diritto di libertà religiosa. Lo studio riprende la relazione tenuta dall’autore a conclusione del Convegno nazionale dei Giuristi Cattolici nel dicembre 2012.

Giuseppe Dalla Torre

In una società monista, i valori religiosi costituiscono uno dei principali fattori di identità nazionale e di coesione sociale; in una società pluralista, invece, i valori religiosi – elementi di identità personale e collettiva ed espressione di libertà -, costituiscono fattore di frammentazione, divisione, conflittualità.

Nella prima quelli religiosi costituiscono per eccellenza i valori non negoziabili all’interno dell’ordinamento, al punto che lo stesso problema della negoziabilità neppure si pone; nella seconda è il problema della non negoziabilità che – secondo il parere di alcuni – neppure si pone. Il principio di laicità dello Stato, che è propriamente postulato in una società pluralista, comporta l’assoluta distinzione tra legge religiosa e legge civile; comporta che la legge civile, in quanto rivolta a tutti i consociati, non contenga precetti religiosi (1).

Questi, se non contrari all’ordine pubblico, potranno vincolare in coscienza i soli credenti, i seguaci di quella determinata religione, ma non possono essere imposti ex lege all’osservanza di alcun cittadino. In altri termini il profilo istituzionale della laicità si riflette, nella persona, nella libertà delle coscienze e nel divieto di discriminazioni per motivi religiosi.

Si tratta di cose ben note, sulle quali è inutile soffermarsi ulteriormente. E però è da notare che storicamente vi è stato un rapporto tra religione e diritto positivo; è di conseguenza comprensibile che l’ordinamento giuridico dello Stato, anche se qualificabile come laico, non di rado esprima valori d’origine religiosa.

Per quanto attiene al nostro Paese, l’influsso che storicamente ha avuto il cristianesimo, in particolare nella sua espressione cattolica, nel forgiare l’identità degli italiani è cosa ovvia e stranota. Nonostante i morsi sempre più profondi e incisivi del secolarismo, la nostra cultura è tuttora animata da valori cristiani che si sono incarnati: i nomi che portiamo, le feste che celebriamo, i modelli di riferimento, la sensibilità, le usanze e i costumi, stanno a segnalare la profondità del segno lasciato nell’intera società e in ciascuno di noi (2).

Anche il diritto positivo è frutto ed espressione di una cultura; anche qui valori cristiani si sono fatti saeculum, si sono incarnati in concetti, norme, istituti, a tal punto che talora diviene difficile percepirne le origini cristiane o averne la memoria. Si pensi ai doveri solidaristici posti dall’art. 2 della Costituzione come inderogabili, i quali altro non sono che la traduzione secolare del precetto cristiano della carità.

Si tratta, a ben vedere, del volto positivo della secolarizzazione, che lascia intuire quanto il cristianesimo sia stato e sia tuttora capace di trasformare la società; quanto il cristianesimo sia vocato, nel pellegrinaggio verso la Città celeste, a contribuire all’edificazione della società terrena secondo il buono e il giusto (3).

Del resto, proprio il procedere del secolarismo consente, come per contrasto, di comprendere certe trasformazioni del diritto positivo. Per limitarsi a un solo àmbito, il divorzio, l’aborto, la progressiva irrilevanza giuridica degli obblighi derivanti agli sposi dal matrimonio, questioni come il riconoscimento della cosiddetta famiglia di fatto o del matrimonio tra omosessuali bene possono leggersi alla luce del processo di distacco delle tavole di valori condivisi dal paradigma cristiano.

Insomma: la società pluralista e lo Stato laico postulano l’insussistenza di valori giuridici non negoziabili di origine religiosa; ma d’altra parte l’ordinamento giuridico è inevitabilmente innervato da valori che nascono dalla religione.

Noi pensiamo, per esempio, che i diritti umani siano una categoria universale; altri ritengono che si tratti di categoria che il processo secolaristico ha portato a consolidarsi; ma da parte islamica si contesta l’universalità di tali diritti e se ne accusano le radici nella cultura giudaico-cristiana (4). In effetti, chi può negare il nesso che la concezione di tali diritti ha con la tradizione ebraico-cristiana, che vede l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, e quindi portatore di spettanze che trascendono la disponibilità del legislatore statale?

Princìpi non negoziabili e immigrati islamici

II problema della sussistenza, nel nostro ordinamento, di princìpi non negoziabili è venuto in evidenza soprattutto dal momento, recente, in cui l’Italia è divenuta da Paese di emigrazione Paese di immigrazione. In particolare, per fare fronte ai problemi di integrazione posti dalla massiccia ondata migratoria di islamici, si è posto un problema di compatibilita di usi e costumi, di carattere culturale e religioso, propri dell’islàm, con valori giuridici ritenuti non negoziabili perché posti a fondamento dell’ordinamento giuridico; e d’altra parte si è affacciato il problema di come favorire processi di integrazione nella società italiana (5).

A ciò ha risposto, nel 2007, la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, promossa dal Ministero dell’interno e contenente i valori considerati irrinunciabili, desunti dalla nostra Costituzione, dai Trattati e dalle Convenzioni europee (6). Con tale documento si era correttamente impostata una prospettiva di sviluppo dei rapporti con gli immigrati islamici basata su un patto grazie al quale si potevano mantenere vivi canali di incontro e di confronto. Alla Carta dei valori è seguita, nel 2008, la Dichiarazione di intenti per la federazione dell’Islam italiano, sottoscritta dagli esponenti delle organizzazioni e associazioni musulmane che si riconoscevano nei princìpi della Carta (7).

La Dichiarazione aveva, secondo le intenzioni degli aderenti, lo scopo di favorire la formazione di un’aggregazione islamica moderata e pluralista, che accettava la laicità dello Stato e che si faceva protagonista del dialogo interreligioso. La Federazione dell’Islam italiano, alla cui nascita il documento era propedeutico, avrebbe dovuto in sostanza costituire un interlocutore rappresentativo e accettato per la soluzione giuridica dei problemi aperti, a cominciare da quelli della formazione degli imam e della gestione delle moschee.

Si avviava così un processo che, in prospettiva, avrebbe potuto portare alla stipula di un’Intesa almeno con questa rappresentanza islamica. La Carta, così come la Dichiarazione di intenti, non hanno avuto seguito e sostanzialmente il problema del confronto con l’islàm in Italia rimane aperto.

Dal punto di vista dei soggetti istituzionali, va poi ricordata la Consulta islamica, istituita con decreto del Ministro dell’interno nel 2005 (8), con la preminente preoccupazione di affrontare il fenomeno della presenza islamica come un problema di sicurezza pubblica, nonché il Comitato per l’Islam italiano, istituito nel 2010 (9), sempre dal Ministero dell’interno, quale organismo consultivo chiamato a esprimere pareri e proposte su specifiche questioni riguardanti tale presenza in Italia, come l’uso del velo islamico nelle sue differenti versioni (niqab, burqa, hijab, chador), l’istituto islamico che regola l’affidamento del minore nato fuori del matrimonio (kafalah), i luoghi di culto islamici, gli imam: si tratta di questioni dietro le quali, com’è dato intuire, stanno valori che non si ritengono negoziabili.

Ma ciò che qui interessa è porsi, di nuovo, la domanda: in quale misura i valori giuridici irrinunciabili, che la Carta del valori enuncia, sono davvero asettici, universali, e non storicamente legati a una cultura che – per usare la nota espressione crociana – non può non dirsi cristiana?

Valori e Costituzione secondo Maritain

In una società pluralista, insegnava Jacques Maritain, la Costituzione costituisce una sorta di credo immanente, una «fede democratica secolare», in cui tutti si riconoscono e tutti si debbono riconoscere (10). Dunque i valori (princìpi) contenuti nella Costituzione non sono negoziabili.

Il pensiero maritainiano partiva correttamente dalla costatazione della frammentazione religiosa, ideologica, culturale, che già nella prima metà del secolo scorso la società occidentale veniva conoscendo, con conseguente allentarsi e venir meno dei fattori di coesione sociale legati alla comune identità religiosa.

All’unità sociale precedente seguiva un processo endogeno di pluralizzazione, a fronte del quale occorreva individuare nuovi fattori di unità. In siffatta prospettiva il filosofo francese, che come noto ha avuto una larghissima influenza sui nostri Costituenti (11), vedeva nelle Costituzioni la tavola di valori nella quale per definizione i consociati avevano convenuto: dunque valori condivisi, che costituivano appunto una sorta di religione immanente.

Il peso dell’esperienza di un passato, recente e remoto, che aveva visto nella religione il fattore di unità si faceva sentire: il sistema di valori fondanti le Costituzioni, se non analogato alla religione, era percepito come destinato a svolgere una funzione unitiva analoga a quella svolta un tempo dalla religione.

La costruzione filosofico-politica di Maritain ebbe effetti rassicuranti per molti e per molto tempo, anche perché le Costituzioni dei nostri Paesi occidentali – prima fra tutte la Costituzione italiana del 1948 – per le ragioni sopra accennate, erano e in larga parte sono tuttora espressione di un diritto positivo animato da valori cristiani.

In fondo, nonostante l’azzardato accostamento della Costituzione alla religione, si poteva rimanere tranquilli per la sostanziale coincidenza dei valori costituzionali con i tradizionali valori cristiani. A ben vedere con gli occhi del poi, sussisteva forse una certa incoerenza tra il Maritain neotomista e le sue tesi sulle Costituzioni come religioni secolari.

Perché il pensiero filosofico del Nostro veniva, come noto, a modernizzare e rafforzare una concezione giusnaturalista, nella quale trovavano collocazione i diritti umani; e però le sue teorizzazioni sulle Costituzioni, concepite come espressioni per eccellenza del legislatore positivo anche quando si aprono – come quella italiana – al diritto naturale, venivano ad accostarsi pericolosamente alle teorizzazioni, per esempio, di un Hans Kelsen, che nella sua contrapposizione tra la norma giuridica e la legge naturale finiva per racchiudere il diritto nel solo diritto positivo.

Per il giurista austriaco, come noto, la norma fondamentale (Grundnornì), che da fondamento di validità a tutto il sistema di norme che costituisce l’ordinamento giuridico, è appunto la Costituzione, in quanto «l’individuo o l’assemblea degli individui che hanno approvato la Costituzione su cui si basa l’ordinamento giuridico sono considerati un’autorità produttrice di diritto» (12).

Resta comunque il fatto che l’idea di Costituzione quale credo umano comune ha rappresentato per molto tempo l’antidoto al pluralismo di tavole di valori che la società frattanto veniva conoscendo sotto i morsi della secolarizzazione: «II nemico vero […] venuto alle spalle, silenzioso e a lungo inavvertito, nelle forme della società consumistica, destinata a corrodere in profondità, senza scontri clamorosi, ma per questo con maggiore efficacia, la fede del popolo italiano» (13).

Si trattava di un antidoto la cui forza era data dalla suggestione del pensiero maritainiano su una generazione di intellettuali e politici, ma infine debole per una duplice ragione: la prima, in quanto idea di Costituzione poggiata sul presupposto di una fictio iuris, qual era appunto il concordare dei consociati sui valori dati per comuni; la seconda, in quanto idea che, appunto, individuava i valori comuni non sul dato oggettivo della loro esistenza, ma su quello soggettivo della loro condivisione da parte dei consociati. Un dato quindi potenzialmente mutabile e realmente mutevole.

Dossetti: Costituzione e diritto ecclesiastico

Può essere utile ricordare in premessa come la categoria dei princìpi o valori «non negoziabili» presenta un rapporto peculiare con il diritto ecclesiastico. Essa infatti risale non già al Magistero, che pure negli ultimi anni ne ha fatto largo uso (14), ma a Giuseppe Dossetti, illustre canonista ed ecclesiasticista, che nell’ultima fase della sua esperienza di vita coniò questa espressione per opporsi alla riforma della seconda parte della Costituzione repubblicana patrocinata dal Governo di centro-destra. In una relazione tenuta a Bari nel maggio 1995 (La Costituzione della Repubblica oggi) (15), muovendo dalla tesi della Costituzione come patto nazionale, egli rilevò come essa avesse svolto dalla fondazione della Repubblica una fondamentale funzione di unità nazionale, riassumibile nell’espressione di «patriottismo della Costituzione».

Questa era da intendersi – secondo Dossetti – come espressione non di un semplice contratto paritario ma di alcuni «princìpi ultimi non negoziabili» che ne costituirebbero il fondamento, destinati a costruire e a garantire «uno spazio sottratto sia al conflitto politico sia alla contrattazione» e a essere quindi di «garanzia per qualsiasi parte politica».

In questa prospettiva i «princìpi non negoziabili» erano quindi intesi come una sorta di presidio a tutela di una forma di governo in grado di offrire garanzie a tutti i soggetti politici, in qualsiasi situazione, di maggioranza o di minoranza, si vengano essi a trovare, e che egli vedeva minacciata dal progetto di riforma costituzionale del centro-destra. Questa categoria veniva poi accostata a quella, elaborata dalla Corte costituzionale, dei «princìpi supremi immodificabili» della Costituzione, tra cui il Dossetti indicava gli artt. 1 e 5, che attengono però, come noto, alla forma di Stato.

Ecco: se c’è un punto critico nella ricostruzione teorica proposta da Dossetti della categoria dei «princìpi non negoziabili» è che essi, senza essere precisamente indicati, vengono da lui genericamente ricondotti alle regole costituzionali e al loro doveroso rispetto, senza distinguere tra princìpi concernenti la forma di Stato e princìpi o regole relative alla forma di governo, che certamente ammettono – e doverosamente – un maggiore margine di modificabilità per rendere il funzionamento delle istituzioni più funzionale alle esigenze indotte dall’evoluzione della società.

Del resto egli stesso poi sosteneva che per la loro modifica fosse necessario ricorrere alla procedura di revisione costituzionale di cui all’ari. 138 Cost, magari rafforzata nella soglia di maggioranza (i «due terzi»), confermando quindi la loro modificabilità da parte del potere costituito, ossia il Parlamento.

La libertà religiosa e i diritti costituzionali

Detto questo, se si guarda al testo della nostra Carta fondamentale, si nota che i diritti costituzionali incontrano già in sé dei limiti. Innanzitutto dei limiti espliciti: il diritto di libertà religiosa, per esempio, ha nell’art. 19 il limite dei riti contrari al buon costume; l’art. 8, secondo comma, Cost. pone come limite all’auto-organizzazione delle confessioni religiose diverse dalla cattolica quello del non contrasto degli statuti con l’ordinamento giuridico italiano.

Ma vi sono limiti impliciti: così la libertà religiosa, quale diritto individuale e collettivo, non ha solo l’espresso limite del buon costume di cui all’art. 19, ma anche i limiti derivanti da princìpi e norme contenute nella Costituzione: tale diritto, per esempio, incontra un limite nel diritto alla vita (art. 2 Cost.), nel diritto alla libertà personale (art. 13 Cost.), o nel diritto alla salute (art. 32 Cost.).

Il diritto all’eguaglianza senza distinzione, tra l’altro, di religione (art. 3), non incontra limiti in linea di principio, se non quello – almeno dal punto di vista formale – della cittadinanza; peraltro nella sua assolutezza può conoscere i limiti derivanti dalla necessità di modulare la disciplina giuridica in relazione all’oggettiva diversità di situazioni (16).

Da quanto notato sin qui si desume che, anche per ciò che attiene al fenomeno religioso, nel sistema costituzionale sussistono princìpi – alcuni esplicitamente indicati, altri implicitamente presupposti -che costituiscono una sorta di confine ai diritti, oltre al quale non è possibile spingersi. Viene ora da domandarsi: ma tali princìpi sono inderogabili? La loro sussistenza risulta non negoziabile? A ben vedere il nostro sistema costituzionale è dotato di strumenti di chiusura-tutela dati appunto da princìpi non negoziabili.

In effetti, mentre le singole disposizioni di una Costituzione rigida presentano una peculiare resistenza passiva all’abrogazione, che peraltro può essere vinta seguendo i procedimenti aggravati previsti dalla Costituzione stessa (nel nostro caso dall’ari. 138 Cost.) (17), vi sono princìpi costituenti i fondamenti dello Stato, che risultano irreformabili.

La nostra Carta fondamentale, per quanto rigida, ammette revisioni; e tuttavia sussiste un nucleo essenziale che non può mai essere modificato, pena la sostituzione di un testo costituzionale con un altro. In questo caso non si avrebbe revisione ma rivoluzione.

Nell’ambito che qui interessa, è del tutto evidente che potrebbe per esempio porsi una modifica dell’attuale formulazione dell’art. 19, magari per distinguere tra libertà religiosa e libertà delle coscienze, o per precisare che la libertà religiosa è non solo individuale e collettiva, ma anche istituzionale, ovvero ancora per introdurre un altro limite, quello dell’ordine pubblico, su cui pure si discusse in Assemblea Costituente (18); ma la modifica in questione non potrebbe travolgere, fino all’abrogazione, il principio sotteso all’art. 19 (e anche al primo comma dell’ari. 8).

Per continuare nell’esemplificazione, potrebbero trovarsi diverse modalità di disciplina delle confessioni religiose (artt. 7-8 Cost.), ma non fino al punto di negare il principio della laicità, quale dichiarazione di incompetenza dello Stato in materia religiosa e di coscienza.

A ben vedere anche tra i princìpi costituzionali sussiste una strutturazione gerarchica, e questa si riflette in ordine alla loro negoziabilità: non a caso proprio nell’ambito del diritto ecclesiastico la Corte costituzionale ha evocato la categoria dei c.d. «princìpi supremi», cioè dei princìpi che non possono essere derogati da norme costituzionali o, come nel caso dei Patti lateranensi, da norme che presentano all’abrogazione in via unilaterale la stessa forza passiva delle norme costituzionali (19).

I «princìpi supremi» — o i «princìpi fondamentali», locuzione utilizzata dalla Corte costituzionale in rapporto ai Trattati europei — farebbero riferimento alla «somma di valori che neanche nel contatto con altri ordinamenti l’ordinamento repubblicano può preterire o disattendere» (20).

Certa dottrina costituzionalistica distingue tra valori, princìpi e diritti (21). Si tratterebbe di concetti diversi, che non apparterrebbero tutti all’ambito della giuridicità. A differenza dei princìpi e dei diritti, infatti, i valori si collocherebbero in una dimensione metagiuridica, ontologicamente qualificata.

Da questa distinzione si fa discendere la conseguenza che a fronte dell’immodificabilità dei valori, così come alla loro non limitabilità, starebbe tutto al contrario la possibilità di un adattamento dei princìpi alle esigenze mutevoli di una società pluralista. In una recente riflessione sul problema dei princìpi non negoziabili secondo la Chiesa cattolica, alla luce di autorevoli referenze dottrinali si è scritto che «i valori non ammettono di essere limitati o condizionati, evocano universi ideologici, sono un dato a priori sottratto a prove empiriche, risultano verità di per sé stesse evidenti; i princìpi designano qualcosa che si contrappone concettualmente a compimento, sono norme aperte, un ponte tra i valori e le regole.

Se ragionare per valori esige scelte tassative, ragionare per princìpi induce a rinunciare alle regole assolute e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto».

Si è ancora aggiunto che «i valori sottacciono i mezzi con cui il fine deve essere perseguito, i princìpi sono il risultato di una ricognizione analitica, strumenti al servizio di ogni esigenza di particolare rilievo della società civile, che riconoscono la relatività di ogni esigenza e assicurano il pluralismo della società civile. Il linguaggio dei princìpi ripropone e rinnova continuamente le condizioni di legittimazione dell’intero ordinamento giuridico adeguandolo ai processi di cambiamento sociale e alle evoluzioni politiche.

Perché il sapere giuridico, essendo limitato dall’oggetto della propria conoscenza, non può aspirare a porre i fini dell’azione umana, ma deve accontentarsi di valutare l’adeguatezza dei mezzi per il raggiungimento di una migliore convivenza» (22).

Dunque i princìpi sono modificabili, sono plasmabili in relazione alle esigenze. Il problema è che, come la medesima dottrina rileva, sussiste un collegamento tra princìpi e valori, connotato dal dato della strumentalità. In particolare tra valori e princìpi vi sarebbe un rapporto tra fine e mezzo, nel senso che i valori si collocherebbero in una dimensione metagiuridica e sarebbero ontologicamente qualificati, mentre i princìpi costituirebbero in qualche misura i mezzi giuridici per il loro perseguimento.

Anzi: i princìpi non sarebbero solo ponte tra diritti e valori; sarebbero addirittura il tentativo di tradurre il valore «in forme giuridiche» (23).

Ma se così stanno le cose, ne discende che i princìpi non sono mutabili a piacimento, ancorché in ragione delle istanze sociali; significa che la mutabilità delle forme storiche del principio non può che essere contenuta entro i limiti dell’immutabilità del fine perseguito; la (relativa) rigidità del principio discende dalla (assoluta) rigidità del valore.

E da chiedersi tuttavia se la realtà non sia del tutto diversa, se non opposta; se cioè dinnanzi all’oggettiva mutabilità dei valori, che variano a seconda delle posizioni ideologiche, politiche o religiose prese in considerazione, vi sia un’oggettiva immutabilità dei princìpi giuridici.

Altrimenti detto, sembra piuttosto che i valori risultino immutabili soggettivamente, cioè dal punto di vista del credente in una determinata fede secolare o religiosa, mentre sono immutabili oggettivamente i princìpi giuridici, in quanto espressione di una razionalità trascendente e antecedente l’ordine giuridico positivo.

Multiculturalismo e rottura dell’equilibrio

La teorizzazione maritainiana sul significato e sul ruolo della Costituzione in una società pluralista, al di là di ogni altra considerazione, è oggi messa in crisi anche da fattori esogeni di pluralizzazione. Il riferimento è ovviamente ai grandi fenomeni immigratori che caratterizzano la contemporaneità. Dopo secoli di civiltà stanziale i popoli si sono rimessi in movimento; l’idea di una presunta superiorità della civiltà stanziale sulla civiltà nomade è stata messa in crisi

Abele sta prendendo la sua rivincita su Caino. Si tratta di un fenomeno che rompe le identità, mischia le culture, moltiplica le differenze anche sul terreno della religione e delle regole morali. È da osservare che non poche volte il contrasto risulta notevole, creando allarme sociale e antigiuridici fenomeni di rigetto. Si pensi all’immigrazione islamica, che insieme a quella cinese manifesta una profonda diversità rispetto alle altre realtà dell’immigrazione.

Per note ragioni storiche gli immigrati dall’Europa orientale, dall’America latina o da Paesi asiatici come le Filippine sono portatori di una cultura vicina alla nostra, quindi precognita e che non crea particolari problemi di compatibilita.

Gli islamici, viceversa, sono portatori di una cultura assai lontana dalla nostra, nonostante talora la prossimità geografica della loro provenienza; una cultura che in alcuni casi risulta addirittura incompatibile con la nostra: basti menzionare i casi arcinoti della poligamia o delle mutilazioni genitali femminili.

Ma si pensi anche a un diritto di famiglia fortemente plasmato da princìpi religiosi, o all’intransigente contrarietà nei confronti di ogni forma di proselitismo passivo. In questa nuova realtà, tra l’altro in movimento, gli assunti di Maritain sembrano non reggere più, sia per ragioni oggettive sia per ragioni soggettive.

Dal punto di vista oggettivo, infatti, pare sfidare eccessivamente la logica il postulato per cui la Costituzione possa essere veramente percepita come la «casa comune» di cui parlava, incisivamente, Giorgio La Pira (24). La casa era comune perché costruita con l’accordo di tutti e con materiali di comune proprietà e, quindi, destinata ad accogliere tutti. Il pensiero lapiriano esprimeva al contempo un progetto per il futuro, cioè l’ideale di una convergenza delle diversità verso un patrimonio valoriale condiviso.

In effetti era suggestiva l’immagine, ancorché non rispondente alla realtà fattuale, della Carta fondamentale come l’insieme di valori in cui tutti i consociati si erano riconosciuti e avevano negozialmente convenuto, costituente le mura e il tetto comune a tutti, entro cui si svolgeva la fisiologica dialettica del pluralismo ideologico e politico.

Ma come dire, sia pure in parabola, che gli stranieri immigrati di oggi abbiano concorso alla costruzione della casa comune? E come pensare, oggi, una loro convergenza verso valori estranei alla loro cultura e non condivisi? Come evitare, altrimenti, accuse di colonizzazione culturale? Dal punto di vista soggettivo, infatti, non pochi sono i gruppi immigrati portatori di una cultura tutta altra, di valori diversi, di concezioni morali e religiose assai distanti dal patrimonio consacrato della Carta fondamentale del 1948.

Per quanto riguarda in particolare l’isiàm, che ad extra costituisce certamente al presente il problema più grande, basti menzionare il fallimento della ricordata Dichiarazione di intenti per la federazione dell’Islam italiano, sottoscritta dagli esponenti delle organizzazioni e associazioni musulmane che si riconoscevano nei princìpi della Carta.

Si tratta di un documento, la Dichiarazione, che non a caso è stato sottoscritto da ambienti moderati tra cui, è significativo, sono ampiamente presenti italiani convertiti all’islàm. In questa prospettiva il richiamo ai valori costituzionali, ovvero ai princìpi costituzionali, quali confini posti alla negoziabilità da un legislatore positivo, seppure supremo e sovraordinato al legislatore ordinario, appare un argomento forte da un punto di vista formale, ma sostanzialmente debole. Del resto è da vedere fino a che punto i valori-princìpi in questione reggano alla prova della revisione costituzionale ex art. 138.

Sappiamo del resto quanto — mi sia consentito il gioco di parole – siano flessibili le Costituzioni rigide. Basta scorrere la giurisprudenza della Corte costituzionale per percepire come princìpi ritenuti irreformabili siano poi, sotto l’urgere del mutamento sociale, venuti a cedere grazie a evoluzioni giurisprudenziali.

L’incoercibile libertà delle coscienze

Il problema della sussistenza di valori non negoziabili non è nuovo: lo abbiamo già conosciuto. Il riferimento è in particolare alla tutto sommato breve, ma significativa esperienza coloniale italiana, nella quale il diritto ecclesiastico delle colonie, ispirato nonostante le disposizioni dello Statuto albertino al principio liberale di libertà ed eguaglianza religiosa, venne a modellarsi sul paradigma giuridico proprio dei grandi imperi, e segnatamente dell’impero Ottomano (25), dato dall’adozione di un governo del fenomeno religioso nei territori coloniali secondo il principio degli statuti personali. In sostanza alle religioni diverse da quelle tradizionali in madrepatria era consentito di reggersi secondo le proprie norme interne, scritte o piuttosto di origine consuetudinaria.

Assai significativo, al riguardo, uno dei primi interventi del legislatore italiano in materia coloniale, dato dalla legge 5 luglio 1882 n. 857, relativa al territorio del porto eritreo di Assab, primo possedimento italiano in Africa. Tale legge all’art. 3 disponeva: «Rispetto agli individui della popolazione indigena, saranno rispettate le loro credenze e pratiche religiose.

Saranno regolati con la legislazione consuetudinaria finora per essi vigente il loro stato personale, i rapporti di famiglia, i matrimoni, le successioni, e tutte le relazioni di diritto privato […]. La giurisdizione sarà esercitata verso gli indigeni in queste materie, e nei giudizi che avranno luogo tra essi senza partecipazione o interesse di altre persone italiane o straniere, da un magistrato dottore nella legge mussulmana (cadi); questi però sarà nominato dal regio commissario, e amministrerà la giustizia in nome del Re d’Italia» (26).

Si pose però il problema di quale dovesse essere il necessario limite al riconoscimento del diritto personale. E il limite fu individuato, oltre che nel richiamo all’ordine pubblico, nella «morale universale» (27).

E, questo, un fatto di estremo interesse per la presente indagine, nella misura in cui mostra come in un’esperienza giuridica pure ispirata ai postulati del positivismo giuridico, qual era quella del tempo, il punto di non negoziabilità sul piano del diritto positivo finisse per essere individuato fuori del diritto positivo, cioè in valori metagiuridici, in particolare valori normativi, di carattere etico, percepiti come universali.

Si trattava, a ben vedere, di un’opzione speculare a quella operata con l’art. 3 delle disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione e applicazione delle leggi in generale premesse al Codice civile del 1865 che – a differenza di quanto fa l’art. 12, secondo comma, delle vigenti Disposizioni sulla legge in generale, che parla di «ordinamento giuridico italiano» – parlava di «princìpi generali del diritto» (28).

Pare qui di cogliere l’eco dell’antica speculazione romanistica e canonistica, con la loro consapevolezza circa la sussistenza di valori universali espressi in regulae comuni a tutti (29)

Il valore della «dignità» della persona

Oggi la situazione dovrebbe essere molto più favorevole, tenuto conto dell’apertura dell’ordinamento giuridico operata dall’art. 2 della Costituzione; un’apertura avente a oggetto paradigmi normativi metapositivi, che esprimono valori etico-giuridici i quali vengono assunti a presupposto di tutto l’ordine positivo.

Il riferimento è, in particolare, al valore della «dignità» della persona umana, che esprime l’essere fine in sé di ogni persona; o, per dirla con Sergio Cotta, che è ciò che «spetta all’uomo di per sé stesso, indipendentemente dal valore o disvalore dei suoi atti, per quella differenza ontologica dagli animali e dalle cose che determina l’excellence humaine» (30) che risulta storicamente tradotto in garanzie contenute nelle norme positive di cui alla prima parte della Costituzione, e che trova nella successiva seconda parte gli strumenti ordinamentali e istituzionali per il suo perseguimento (31).

Tutto può essere negoziato, nella nostra società pluralistica, ma non la dignità della persona umana. Sul terreno del fatto religioso, in che cosa si sostanzia tale dignità, che tra i beni «possiede un valore assoluto»? (32) Mi pare di dover dire nell’incoercibilità della coscienza.

È questo il valore non negoziabile che sul terreno del diritto positivo si esprime, tra l’altro, nella riconosciuta eguaglianza senza distinzione di religione; a esso è strumentalmente piegato il diritto di libertà religiosa, così come a esso è funzionale il principio di distinzione tra ordine dello Stato e ordine delle Chiese.

E in nome dell’incoercibilità della coscienza che, secondo la Bibbia, Mosè fu salvato dall’uccisione decretata dal Faraone, poiché le levatrici «temettero Dio» (33); che Antigone si sentì legittimata a disobbedire a Creonte (34). È sempre in nome dell’incoercibilità della coscienza che ai suoi discepoli Cristo ha comandato di far crescere assieme il grano con la zizzania, sino al giudizio finale (35); ha invitato a non rompere la canna fessa o a non smorzare il lucignolo che fuma (36); ha raccomandato di evitare ogni violenza o ogni forzatura nell’annuncio dell’Evangelo: «Se non vi si vuole accogliere né ascoltare, uscite da quella casa o da quella città scuotendo la polvere dai vostri piedi» (37).

In siffatta prospettiva, il «principio supremo» della laicità dello Stato appare chiaramente nella sua posizione strumentale verso un valore trascendente l’ordinamento positivo; si comprende cioè come incompetenza di esso Stato a dare indicazioni di coscienza ma anche, al contempo, come dovere di favorire le condizioni esterne perché possa avvenire e sempre rinnovarsi «quella interrogazione della coscienza» (38), in cui si esprime l’altissima dignità che è propria dell’uomo.

Note

1) Per le varie problematiche relative al tema della laicità rinvio, per tutti, alle voci del Lessico della laicità, a cura di G. Dalla Torre, Roma 2007.
2) Con più generale riferimento all’Europa cfr J. Le Goff, L’Europa medievale e il mondo moderno, tr. it., Bari 1994.
3) Rinvio al riguardo alle osservazioni che ho sviluppate in Secolarizzazione e laicità. A proposito delle radici cristiane dell’Europa, in L. Monteferrante – D. Nocilla (cur.), La storia, il dialogo, il rispetto della persona. Scritti in onore del Cardinale Achille Silvestrini, Roma 2009, pp. 25 ss.
4) Ancora utili elementi di valutazione al riguardo in M. Bormans, I diritti dell’uomo nel mondo religioso dell’Islam, in G. Concetti (cur.), I diritti umani. Dottrina e prassi, Roma 1982, pp. 495 ss.
5) La questione, ovviamente, si è posta anche in altri Paesi. In Francia, per esempio, dove un principio non negoziabile è stato rinvenuto nella «neutralità religieuse de l’éspace public», su cui si veda l’ottimo lavoro di P. Cavana, I segni della discordia. Laicità e simboli religiosi in Francia, Torino 2004.
6) II documento, del 23 aprile 2007, si può leggere in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 2 (2007), pp. 592 ss.
7) La Dichiarazione, presentata al Ministro degli interni il 13 marzo 2008, è pubblicata in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 2 (2008), pp. 647 ss.
8) Cfr il Decreto istitutivo, del 10 settembre 2005, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 2 (2006), pp. 583 ss.
9) Con Decreto del Ministro dell’interno del 10 febbraio 2010; il Comitato sostituisce la Consulta.
10) J. Maritain, L’uomo e lo Stato, tr. it., Milano 1975,pp. 132ss.
11) Cfr. per tutti G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, con prefazione di F.P. Casavola, Milano 2008.
12) H. Kelsen, Reine Rechtslehre, ed. 1960, § 34, e, pp. 201 s.
13) P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, prefazione di G. Dalla Torre, Roma 20083, p. 33.
14) II primo riferimento al riguardo è nel documento della Congregazione per la dottrina della fede, firmato dal prefetto cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici netta vita politica, del 24 novembre 2002.
15) G. Dossetti, La Costituzione della Repubblica oggi, in Id., I valori della Costituzione, prefazione di F. Monaco, Reggio Emilia 2005, pp. 121 ss. Su Dossetti costituente cfr P. Cavana, Giuseppe Dossetti e i rapporti tra Stato e Chiesa nella Costituzione, Roma 2011.
16) Per tutta questa parte rinvio a G. Dalla Torre, II fattore religioso nella Costituzione, Torino 20032.
17) Per una sintetica rassegna dello stato della dottrina e della giurisprudenza costituzionale sul punto cfr E. Grosso-V. Marcenò, Art. 139, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti, vol. III, Torino 2006, pp. 2731 ss.
18) Cfr Atti dell’Assemblea Costituente, Discussioni, seduta del 12 aprile 1947, p. 2777.
19) Cfr Corte costituzionale, sentenza 24 febbraio-1 marzo 1971, n. 30, in cui si afferma che l’art. 7 Cosi, «non può avere forza di negare i princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato» (cfr in S. Domianello, Giurisprudenza costituzionale e fattore, religioso. Le pronunzie detta Corte costituzionale in materia ecclesiastica (1957-1986), Milano 1987, pp. 333 ss.). Più tardi la stessa Corte venne a precisare che il principio di laicità dello Stato entra nel novero dei princìpi supremi: cfr Corte costituzionale, sentenza 11-12 aprile 1989, n. 203, che si può leggere in S. Domianello, Giurisprudenza costituzionale e fattore religioso. Le pronunzie della Corte costituzionale in materia ecclesiastica (1987-1998), Milano 1999, pp. 597 ss.
20) S. Bartole, Prìncipi generali del diritto (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, Milano 1986, p. 510.
21) Cfr per tutti G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustìzia, Bologna 2008, pp. 205 ss.
22) L. Zannotti, Sui principi non negoziabili della Chiesa, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», rivista telematica (www.statoechiese.it), 30 (2012), 15 ottobre 2012, p. 5.
23) Così L. Zannotti, Sui principi non negoziabili della Chiesa, cit., loc. cit.
24) G La Pira, La casa comune. Una Costituzione per l’uomo, con introduzione di U. De Siervo, Firenze 1979.
25) In merito si veda A. Bertela, Il regime giuridico dei culti nell’impero ottomano, Torino 1927.
26) Sul diritto coloniale, con riferimento anche al fattore religioso, cfr A. Solmi, Lo Stato e l’islamismo nelle nuove colonie italiane, in «Rivista di diritto pubblico», I (1913), pp. 129 ss.; U. Borsi, Studi di diritto coloniale, in «Studi Senesi», V (1918); S. Romano, Corso di diritto coloniale, Roma 1918; E. Cucinotta, Diritto coloniale italiano, Roma 1933; A. Cicchittii, II problema religioso nella legislazione coloniale italiana, in «Rivista coloniale» (1926); A. Bertela, Estensione e applicazione del concetto di libertà religiosa nel diritto ecclesiastico coloniale, in «Archivio Giuridico» (1937), pp. 109 ss.; C. Jannaccone, Corso di diritto ecclesiastico coloniale, Milano 1939. Riferimenti alla legislazione coloniale fascista anche in F. Margiotta Broglio, Introduzione, in C.A. Ciampi, La libertà delle minoranze religiose, a cura di F.P. Casavola-G. Long-F. Margiotta Broglio, Bologna 2009.
27) In merito cfr F. Botti, Oltre i culti ammessi. Prime note sulla gestione giuridica del pluralismo religioso nella legislazione coloniale italiana, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», rivista telematica (www.statoechiese.it), luglio 2011.
28) Cfr in merito S. Bartole, Principi generali del diritto, cit., pp. 494 ss., che peraltro si sforza di ricondurre in ultima analisi i princìpi generali del diritto al diritto positivo.
29) Di generalibus iuris principiis parla il can. 19 del vigente Codice di diritto canonico, ripetendo quanto già detto nel can. 20 del Codice pio-benedettino. Sulle diverse interpretazioni canonistiche del riferimento cfr M. Falco, Introduzione allo studio del «codex iuris canonici», rist. a cura di G. Feliciani, Bologna 1992, pp. 198 ss.
30) S. Cotta, Il diritto naturale e l’universalizzazione del diritto, in «lustitia» (1991), pp. 1 ss. Sulle difficoltà di individuare la nozione giuridica di dignità umana rinvio a G. Dalla Torre, Bioetica e diritto. Saggi, Torino 1993, pp. 42 ss.
31) F. Bartolomei, La dignità umana come concetto e valore costituzionale. Saggio, Torino 1987; N. Occhiocupo, Liberazione e promozione umana nella Costituzione. Unità di valori nella pluralità delle posizioni, Milano 1995.
32) Così F. D’Agostino, Corso breve di filosofia del diritto, Torino 2011, p. 65.
33) Es 1, 15 ss.
34) Cfr Sofocle, Antigone, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, tr. it. di E. Cetrangolo, a cura di C. Diano, Firenze 1970, p. 185, su cui molto bene ha scritto di recente V. Turchi, I nuovi volti di Antigone. Le obiezioni di coscienza nell’esperienza giuridica contemporanea, Napoli 2009.
35) Mt 13, 30 e 40-42.
36) Mt 12, 20.
37) Mt 10, 13-14; ma cfr anche Mc 6, 7-13.
38) Così la Corte costituzionale nella ricordata sentenza n. 203 del 1989, in loc. cit.,p. 613.