Sviluppo sostenibile per l’ambiente

Abstract: la salvaguardia dell’ambiente passa dallo sostenibilità dello sviluppo, e non dal voler ingessare il pianeta come vorrebbe certo ambientalismo. A Johannesburg ambientalisti e No Global demonizzeranno economia e tecnologia moderne. E invece dalle criticità ambientali si esce proprio grazie allo sviluppo. Vi spieghiamo come

Articolo pubblicato su Tempi Numero: 33 22 Agosto 2002

Salvare l’ambiente con lo sviluppo

A Johannesburg ambientalisti e No Global demonizzeranno economia e tecnologia moderne. E invece dalle criticità ambientali si esce proprio grazie allo sviluppo. Vi spieghiamo come

di Rodolfo Casadei

Nove su dieci, il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile promosso dalle Nazioni Unite che si svolgerà a Johannesburg fra il 26 agosto e il 4 settembre si concluderà in un fallimento, o comunque con un compromesso sterile e paralizzante. La ragione principale è che si vuole mettere troppa carne al fuoco: sotto l’etichetta dello sviluppo sostenibile si vorrebbe arrivare a far approvare un documento conclusivo che fisserebbe tempi, obiettivi e responsabilità diversificate a seconda dei paesi su temi che comprendono i livelli di povertà, il commercio internazionale, il debito estero, l’immissione di gas a effetto serra nell’atmosfera, la penuria d’acqua, l’esaurimento delle risorse ittiche, la deforestazione, le conseguenze del riscaldamento globale, ecc.

Non c’è dunque da stupirsi se, a poco più di un mese dall’apertura della conferenza, almeno un quarto della bozza di documento finale è ancora in alto mare, nonostante il vertice straordinario convocato da Kofi Annan il 17 luglio scorso a New York fra i rappresentanti di 25 paesi per risolvere le vertenze aperte.

Con queste poco incoraggianti prospettive, Johannesburg rischia di diventare un palcoscenico per quelle forze interessate a trasformare ogni appuntamento del sistema multilaterale in un processo alle politiche e al modello di sviluppo dell’Occidente, accusato, in questo caso, di produrre uno “sviluppo insostenibile”. Per fare questo, i dati sullo stress ambientale vengono enfatizzati o interpretati in maniera faziosa. E le tecnologie moderne e lo sviluppo come tale colpevolizzati per il presunto esaurimento delle risorse e per il degrado dell’ambiente.

No global e ambientalisti catastrofisti giocano il loro solito gioco: manipolano i dati e i problemi della realtà per far prevalere la loro impostazione ideologica a livello politico e di opinione pubblica. Facciamo sinteticamente il punto sulle questioni ambientali che verranno strumentalmente agitate a Johannesburg.

Riscaldamento globale.

E’ la questione più calda (perdonate la battuta involontaria) a causa del rifiuto prima del Senato Usa e poi dell’Amministrazione Bush di sottoscrivere i protocolli di Kyoto sulla riduzione dei gas ad effetto serra. Ma, checché se ne dica, gli americani non hanno torto: Kyoto infatti impone grandi sforzi economici ai paesi industrializzati soltanto per approdare a risultati nulli. La maggioranza degli scienziati è d’accordo nel rilevare un processo di riscaldamento dell’atmosfera del pianeta e nell’attribuirla alle attività umane che, nel corso degli ultimi 150 anni, hanno aumentato la concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Però non c’è unanimità sulla misura che il riscaldamento avrà entro la fine del secolo (anno 2100) se le tendenze attuali proseguiranno: secondo l’ultimo rapporto dell’Ipcc (il Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici) l’aumento è compreso fra 1,5 e 5,8 gradi, cioè fra una situazione gestibile e una catastrofica.

Tenuto conto del fatto che nel corso del secolo le fonti energetiche alternative agli idrocarburi si diffonderanno maggiormente, sia per ragioni economiche che politiche, il dato più probabile è un aumento della temperatura di 2,5 gradi. Esso comporta, secondo un modello elaborato Nordhaus e Boyer, un costo di 5 trilioni di dollari nel corso del secolo a causa di inondazioni, siccità, danni all’agricoltura, spostamento di popolazioni, ecc. Kyoto, che impone ai Paesi industrializzati di riportare le emissioni di CO2 ai livelli del 1990 e di mantenerle per sempre così (mentre ai Paesi in via di sviluppo non sono posti limiti), costa molto di più: probabilmente 8,5 trilioni nell’arco del secolo.

E poiché le emissioni, anche se stabilizzate, continueranno ad aumentare la loro concentrazione nell’atmosfera, l’aumento di temperatura di 2,5 gradi ci sarà ugualmente, con tutti i danni prevedibili, e sarà semplicemente rinviato di sei anni, dal 2100 al 2106. Che fare allora? Mettere in campo un trattato ancora più severo? Non sembra una buona idea: darsi per esempio l’obiettivo di far sì che l’aumento si limiti ad 1,5 gradi costerebbe 37,6 trilioni, cioè sette volte il costo del riscaldamento globale. Immaginatevi le conseguenze di obiettivi più ambiziosi.

Molto meglio, dicono Bjorn Lomborg, Michael Wolf e altri, favorire uno sviluppo economico accelerato nel corso del XXI secolo ed utilizzare gli introiti per nuove politiche ambientali e per aiutare i Pvs, che saranno la parte del mondo più colpita. Ipotizzando per esempio un Pil complessivo di 900 trilioni di dollari nei paesi ricchi nel corso del XXI secolo, un prelievo del 2% per investimenti ambientali (lo stesso che mediamente imporrebbe l’applicazione di Kyoto) metterebbe a disposizione 18 trilioni di dollari per le politiche di limitazione delle emissioni (attraverso le “energie pulite”: solare, eolica, motori a cellule di idrogeno) o per il loro riassorbimento (estensione dei boschi, piante Ogm ad alta capacità di assorbimento, pompaggio della CO2 prodotta in strati geologici profondi o suo stoccaggio in fondo agli oceani).

Penuria d’acqua

Qui bisogna anzitutto distinguere fra il problema dell’accesso all’acqua e quello della disponibilità dell’acqua: il primo è un problema principalmente politico, il secondo è principalmente ecologico. Quando si dice che 1,4 miliardi di persone al mondo sono prive di acqua, non si dice che l’acqua per loro non c’è, ma che i loro governi non provvedono acquedotti e fogne. Diverso è il discorso sulla disponibilità. Lanciando un grido di allarme, gli ambientalisti dicono che quest’ultima è scesa, a causa dell’aumento della popolazione mondiale, dai 17 mila metri cubi pro capite del 1960 ai 7 mila di oggi. Che significa, detto in un altro modo, 5.700 litri pro capite al giorno.

Già, ma di quanta acqua ha bisogno un essere umano per sopravvivere? La risposta è: 40 litri (un europeo attualmente ne consuma 566, un americano 1.442). Se calcoliamo anche le necessità dell’agricoltura e della produzione industriale, il quantitativo naturalmente aumenta. Convenzionalmente allora si fissa a 2.740 litri il limite della penuria cronica, e a 1.370 quello della penuria assoluta. Questo significa che sotto tale livello è impossibile condurre una vita di tipo moderno?

I fatti rispondono di no: sotto quella soglia, infatti, si trovano già un certo numero di paesi desertici o molto popolosi, come Kuwait, Emirati arabi, Libia, Arabia Saudita, Singapore, Israele, ecc. Paesi dove nessuno muore di sete o di malattie legate alla scarsità dell’acqua, perché grazie all’alto reddito pro capite possono acquistare da altri paesi i generi alimentari che non possono produrre per mancanza d’acqua, desalinizzare la propria o applicare tecnologie per la massima efficienza dell’acqua disponibile.

Quest’ultimo è l’aspetto più interessante: l’acqua, infatti, è forse la risorsa che oggi registra i più alti tassi di spreco. L’applicazione del sistema di irrigazione “goccia a goccia” sperimentato in Israele in paesi diversi come Giordania, India, Spagna e Usa ha comportato riduzioni fra il 30 e il 70% nell’uso dell’acqua accompagnate da aumenti della produzione agricola del 20-90%.

Deforestazione

Il problema della deforestazione varia da continente a continente. Contrariamente a quello che molti credono, dal 1950 ad oggi l’area globale coperta da foreste è rimasta immutata (fra il 26 e il 33% della superficie del pianeta, a seconda della definizione di foresta che si adotta). Nell’emisfero boreale le foreste si stanno espandendo da 40 anni a questa parte in America del Nord, Europa e Russia, a motivo della maggiore efficienza delle tecniche per la produzione del legname, della stabilizzazione dei consumi e della restituzione ai boschi di terreni che prima erano coltivati. Le foresta tropicali, invece, si stanno assottigliando. Non al ritmo dell’1,5-2% all’anno, come sostengono gli ambientalisti allarmisti, ma dello 0,46% (dato Fao).

Per le ragioni speculari a quelle dell’aumento nell’emisfero boreale: le tecniche di sfruttamento sono inefficienti, gli alberi abbattuti non sono ripiantati, i contadini riescono ad aumentare la loro produttività solo coltivando nuove terre, che sottraggono alle foreste.

La strada per arrestare la deforestazione delle aree tropicali (importanti soprattutto per la loro biodiversità, molto più abbondante che nel Nord) è dunque ben segnata: si tratta anzitutto di aumentare il rendimento per ettaro dell’agricoltura locale. Se nei prossimi 70 anni tutti gli agricoltori del mondo raggiungeranno l’attuale produttività dei coltivatori dello Iowa di oggi, i 10 miliardi di abitanti che allora vivranno sul pianeta avranno bisogno di metà delle terre oggi coltivate per sfamarsi. Se la buona abitudine di rifornirsi di legno da aree appositamente rimboschite si espanderà, nel 2050 metà della domanda di legname mondiale sarà coperta dal prodotto di piantagioni commerciali.

Esaurimento delle risorse ittiche

Una valutazione precisa circa l’impoverimento delle risorse ittiche è difficile da fare perché non esistono a tutt’oggi studi capaci di quantificare questa risorsa. Secondo la Fao il consumo di pesce aumenterà del 23% da oggi al 2030, seguendo l’aumento della popolazione: ciò potrebbe comportare l’estinzione di alcune specie. Può essere invertita la tendenza? Sì, nella misura in cui viene incrementata l’acquacoltura, che già è praticata: degli 80 milioni di tonnellate di pescato che annualmente viene consumato, 20 milioni già provengono da allevamenti ittici.

L’acquacoltura potrebbe essere estesa agli oceani, “fertilizzandoli” con ferro e fosfato là dove sono più sguarniti. Un chilo di ferro e fosfati miscelati gettato nell’oceano è in grado di produrre, nel tempo, tonnellate di biomassa ittica. Far crescere il fitoplancton e lo zooplancton su una superficie di 250mila kmq di oceano deserto (la superficie del Regno Unito) produrrebbe tanta biomassa ittica quanta oggi ne viene pescata in un anno. Esistono solo indagini locali, che però mostrano come alcune aree tradizionalmente pescose nel giro di un secolo sono scese a un decimo della loro potenzialità originaria.