I Sudisti erano i buoni. E vi spieghiamo perché

Ricognizioni 16 Luglio 2020

Antonio de Felip

In seguito ai violenti disordini promossi negli USA dagli antifà e dai Black Lives Matter sono ripresi gli abbattimenti dei monumenti ai Confederati, già iniziati qualche anno fa come manifestazione di odio nei confronti dei bianchi e dei molti abitanti del Sud che ancora si riconoscono nei valori e nella storia della Confederazione.

Uno dei più bei film di Hollywood, Via col Vento, 8 premi Oscar, è stato dapprima bandito dalla piattaforma video in streaming HBO perché “razzista”, poi riammesso, ma con la mistificatoria avvertenza: “nega gli orrori della schiavitù” e accompagnato, per i deplorevoli spettatori, da alcuni video di “rieducazione”, intrisi di diffamazione storica della Confederazione e persino del produttore del film, David O. Selznick e dell’autrice del libro Margaret Mitchell.

Sulla Guerra civile americana, o Guerra tra gli Stati, c’è una conoscenza stereotipata e superficiale: i “buoni” erano i Nordisti e i “cattivi” i Sudisti. La guerra fu scatenata dai Sudisti. I “buoni” Nordisti si battevano per l’abolizione della schiavitù e questa fu la causa della guerra e via stereotipando. In realtà non fu così. La schiavitù fu solo uno dei motivi scatenanti, e non il più importante. Lincoln non voleva, almeno inizialmente, abolire la schiavitù.

Uno dei più accurati storici della Guerra Civile americana è stato un italiano: Raimondo Luraghi. Nella sua “Storia della guerra civile americana” così scrive sulle cause della guerra: “la schiavitù fu e non fu alla base del conflitto. Non lo fu in quanto il contrasto era di ben altra natura, era ben più vasto e più profondo: esso era il conflitto tra due nazioni diverse ed estranee con numerosi interessi divergenti.”.

Certo, la schiavitù fu anche alla base del conflitto, poiché: “finì per essere il punto di attrito, il casus belli che pose i due mondi in lotta aperta”. In realtà la guerra civile fu, principalmente, uno “scontro di civiltà”, tra due nazioni che erano differenti culturalmente e antropologicamente e questa differenza aveva le proprie origini nelle caratteristiche delle prime colonizzazioni.

I primi insediamenti stabili inglese sulle coste americane nell’attuale Virginia furono promossi da Sir Walter Raleigh, esponente del Rinascimento inglese, umanista, fluente in latino e in italiano, lettore di Macchiavelli e di Baldassare Castiglione e che rappresentò il modello del “gentiluomo del Sud”.

Chi erano questi “primi americani”? Molti erano esponenti della piccola nobiltà inglese ed erano intrisi di quello spirito inteso a costruire “una società di gentiluomini”, colta e cortese. In grande maggioranza erano anglicani, ma il Maryland venne colonizzato, nel 1634, da cattolici e in quella colonia venne accettato il principio della libertà religiosa, inesistente nelle colonie Puritane.

Nel frattempo, ben tredici anni dopo la fondazione di Jamestown in Virginia nel 1607, i “Padri Pellegrini” puritani sbarcarono a Plymouth nel novembre del 1620. E il Nord è persino riuscito, a dispetto della storia, a sottrarre al Sud la giornata del Ringraziamento, “rito di fondazione” degli Stati Uniti.

I puritani erano fanatici calvinisti, ferocemente intolleranti: perseguitavano gli anglicani e i cattolici. Poiché ritenevano la ricchezza un segno del favore divino, perseguivano l’accumulazione di denaro attraverso una cupa etica del lavoro. Si ritenevano fondatori di una repubblica di “eletti del Signore”, secondo la tradizione biblico-protestante.

Non potevano esserci due culture, due civiltà, due società più diverse: quella del Sud aristocratica, patriarcale, agricola, sofisticata, con una élite colta e amante degli autori classici, educata, tollerante, con un profondo senso della cavalleria e dell’onore, europeizzante; quella del Nord capitalistica, industriale, urbana, intrisa di senso pratico talvolta sino alla rozzezza, dedita all’inseguimento del successo e del denaro a ogni costo, spesso violenta, tesa alla conquista di nuove terre da sfruttare, puritana e “progressista”, afflitta da una nascente lotta di classe a opera di un proletariato urbano sottopagato le cui condizioni di vita erano spesso peggiori di quelle degli schiavi al Sud, una società nata in contrapposizione all’Europa che non amava, da questa ricambiata: nella Guerra civile, la Francia e la Gran Bretagna parteggiarono per il Sud e la Gran Bretagna fu assai vicina al riconoscimento diplomatico della Confederazione.

Il tema dell’autonomia degli Stati rappresentò, più della schiavitù, la causa politica della guerra. Era una diatriba che si trascinava fin dalla nascita dell’Unione. Ma cosa significava “Unione”? Una libera unione tra Stati, che mantenevano intatta la propria sovranità e che “delegavano” certe competenze all’Unione come sosteneva, ad esempio, Thomas Jefferson, ma conservando il diritto alla secessione, o l’adesione all’Unione era irreversibile, nessuna secessione era possibile e l’Unione era superiore, come diritti sovrani e per suprema potestà legislativa, ai singoli Stati? Dove, quindi, risiede la sovranità ultima?

Scrive il politologo Luigi Marco Bassani, profondo conoscitore della storia del pensiero politico nel Nord America:“… furono proprio gli stati del Sud a lottare strenuamente contro l’idea che esistesse un’unica nazione americana.” Questo “può essere interpretato come risposta alle trentennali mire nordiste di ottenere i benefici dell’unione facendone pagare i costi al Sud. Alla metà dell’Ottocento il Sud era ormai una minoranza permanente e ben cosciente del fatto di non poter spezzare la preponderanza numerica di un nord ostile e deciso a far gravare i costi del governo federale sugli stati a sud del Potomac”.

Per cultura, storia, interessi economici, gli stati del Sud erano prevalentemente a favore delle autonomie, quelli del Nord per un’Unione accentrata. Ma, progressivamente, con l’estensione verso ovest e l’adesione di nuovi stati, gli Stati del Sud erano diventati minoranza. Si sentivano accerchiati e traditi dall’infido Nord e questa frustrazione predispose l’opinione pubblica del Sud alla guerra, percepita come inevitabile a fronte dell’accerchiamento e dell’odio del Nord.

La questione dei dazi fu un altro tema collegato a quello dei diritti degli Stati. L’imposizione, da parte dell’Unione dominata dagli Stati del Nord, di forti dazi che danneggiavano notevolmente l’economia del Sud fu un’altra, e non minore, causa della guerra. E la schiavitù, allora? Certamente fu una delle cause della guerra. Ma non la principale: le ragioni furono, come abbiamo visto, storico-culturali, politico-istituzionali ed economiche.

La schiavitù, che era stata legale anche al Nord, aveva peraltro arricchito i mercanti puritani della Nuova Inghilterra che realizzarono profitti colossali. Abramo Lincoln era antischiavista? In realtà, era un nazionalista unionista. A guerra già da lui scatenata, aveva dichiarato che se avesse potuto salvare l’Unione liberando gli schiavi lo avrebbe fatto; se avesse potuto salvare l’Unione non liberandone nessuno lo avrebbe fatto; e se avesse potuto salvare l’Unione liberandone solo alcuni e mantenendo tutti gli altri in schiavitù lo avrebbe fatto lo stesso.

Nel 1861 il Senato del Nord approvò una mozione che dichiarava che “la guerra non aveva come scopo di sovvertimento o di interferenza con i diritti delle istituzioni vigenti in quegli Stati” (in sostanza: “non vogliamo impedirvi di mantenere la schiavitù”).

D’altronde, la dimostrazione più palese che a Lincoln interessasse la difesa dell’Unione, non l’abolizione della schiavitù, fu rappresentata dal Proclama di Emancipazione del 1862, che “liberava” gli schiavi negli Stati “ribelli” contro l’Unione. In realtà quest’atto fu una misura di guerra per piegare gli avversari, un esproprio dei loro beni: per nulla un atto umanitario. Infatti da questo provvedimento (che non produsse nessun effetto sugli schiavi del Sud), vennero esclusi non solo gli Stati schiavisti che, volenti o nolenti, erano rimasti nell’Unione, ma anche i territori della Confederazione occupati, durante la guerra, dai “soldati blu”.

Era poi notorio come Lincoln non amasse affatto i neri. Nel 1858 aveva dichiarato: “Non sono – né sono mai stato – in alcun modo a favore dell’uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; e non sono – né sono mai stato – favorevole a dare ai neri la possibilità di votare o di fare i giurati, né a permettere loro di ricoprire cariche pubbliche, né d’imparentarsi con persone bianche; […] c’è una differenza biologica tra la razza bianca […]Io sono, come chiunque altro, favorevole ad assegnare la posizione di superiorità alla razza bianca”.

Che la schiavitù non fosse la causa primaria e che la guerra civile non fosse per nulla una “guerra di liberazione” degli schiavi da parte dell’ “umanitario” Nord contro lo “schiavista” Sud lo capirono bene anche all’estero; l’autorevole Quaterly Review di Londra così scrisse: “il Nord si batte per il potere supremo. La questione della schiavitù è stata abbandonata […]. Quasi non c’è concessione sulla schiavitù che gli Stati separati potrebbero chiedere e gli Stati del Nord accordare, in cambio di un loro rientro nell’Unione. Smettiamola con questa fandonia del Nord che fregia la sua causa con il nome di libertà allo schiavo!

Il Nord vinse la guerra. Vinse per strapotere di mezzi e di uomini, per la distruzione sistematica dell’economia sudista, campi, fattorie, boschi incendiati. Civili ridotti alla fame, spesso massacrati. Atlanta, la città di Via col vento, benché priva di ogni interesse strategico venne completamente bruciata mentre bande di nordisti ubriachi ballavano nelle strade.

La violenza contro le donne del Sud (le “damn Secesch women”, “dannate donne secessioniste”) fu tale da suscitare anche lo sdegno del Regno Unito. Il primo ministro britannico in persona convocò l’ambasciatore degli Stati Uniti per consegnargli una nota di protesta in cui si esprimeva la condanna più severa per queste violenze.

D’altronde l’odio del Nord contro la Confederazione era tale da far dire nel 1864 al generale Sherman: “La terribile verità è che per conseguire la vittoria è necessario che la classe dirigente del Sud venga eliminata, distrutta. Sono trecentomila: dobbiamo ucciderli tutti.”

Il martirio del Sud non finì con la resa. La vendetta del Nord fu feroce, sistematica, prolungata nel tempo. Le tenute nel Sud vennero espropriate e così anche i beni mobili, le riserve di cotone, gli schiavi liberati senza indennizzo. Gli Stati del Sud sottoposti a una durissima dittatura militare sotto la supervisione del partito unionista, quello repubblicano, con persone arrestate senza processo, talvolta mandate a morte senza motivo.

Il Sud venne invaso da estremisti “riformatori umanitari” di varie, fanatiche sette protestanti, che volevano “rieducare” i Sudisti e da speculatori che acquistavano per pochi dollari le proprietà degli agricoltori, impossibilitati a pagare le tasse e le “riparazioni”. A tutti gli ex-combattenti, alle autorità civili, ai proprietari terrieri, ai notabili (complessivamente circa 627.000 persone) vennero tolti i diritti civili.

Il Presidente della Confederazione, Jefferson Davis, già anziano, venne catturato, maltrattato dalla soldataglia nordista, portato incatenato a Fort Monroe e qui tenuto in una segreta sempre incatenato. Il Papa, Pio IX, gli inviò una sentita missiva di sostegno. La distruzione culturale dell’identità del Sud e dei suoi simboli, la diffamazione della sua storia, l’odio per le sue radici, dei suoi valori, dei suoi eroi, la violenza contro i suoi monumenti continuano tutt’ora.

Jefferson Davis

Scrive Luigi Marco Bassani: “Oggi l’attacco al passato sudista si mescola con un continuo processo di “rieducazione culturale” al quale i cittadini del Sud sono sottoposti sin dall’infanzia.”. E così Raimondo Luraghi: “… è in atto una gigantesca operazione (orchestrata nel Nord e capeggiata prevalentemente da black muslims, da ideologi del politically correct e da altri estremisti) intesa a mutilare il Sud della propria storia”.

L’operazione di distruzione di migliaia di monumenti che nel Sud (ma anche al Nord) commemorano i combattenti e gli eroi Confederati è sistematica, orchestrata, violenta. Statue che ricordano i caduti Sudisti, il generale Lee, il generale Forrest, il generale Jackson e molti altri eroi della guerra per la libertà degli Stati vengono distrutte.

Sono atti violenti di attivisti liberal, di aderenti al movimento anti-bianco Black lives matter, dei gruppi di ultrasinistra antifà e o dei Social Justice Warriors, movimento marxista che raggruppa estremisti neri, gruppi LGTB, anarco-comunisti di varie scuole. Sono gruppi legati alla sinistra del Partito Democratico e finanziati dalla Open Society Foundation di George Soros.

Spesso le demolizioni dei monumenti sudisti avviene ad opera delle amministrazioni locali. E quando, come a Charlottesville, in Virginia nel 2017, la popolazione si ribella alla distruzione e manifesta in difesa dei monumenti (una statua in onore di Lee), viene violentemente aggredita dai facinorosi attivisti liberal. In numerosi Stati la bandiera Confederata è stata posta fuori legge “su ordine” dei movimenti antirazzisti.

Dominique Venner, in uno dei più bei libri sulla Confederazione, Il bianco sole dei vinti, ha lasciato scritto: “Perché, anche se morto, questo Sud vive ancore nel cuore degli uomini generosi.” E non saranno i liberal, i black lives matter o George Soros a distruggere il suo spirito.

Leggi anche:

La guerra di secessione

Lincoln non amava i negri e lo scrisse

Abe Lincoln, o come inventarsi una nazione

Usa: quando i Democratici difendevano la schiavitù

Guerra di secessione: i veri razzisti stavano al nord