L’obiezione di coscienza all’eutanasia non sia un altro recinto per i pro life

Tempi n.10 Ottobre 2019   

Come evitare l’errore della legge sull’aborto

di Alfredo Mantovano

Domanda. Dopo la decisione della Corte costituzionale sul suicidio assistito, la linea di resistenza contro l’eutanasia si risolve nell’istanza di riconoscere l’obiezione di coscienza per i medici che non condividano?

Intendiamoci, ovviamente auspico che il diritto di obiezione (evocato nell’ordinanza n. 207 di dieci mesi fa, non nella nota della Consulta) sia confermato, avendo fondamento antropologico, prima ancora che costituzionale.

Mi preoccupa però che, rispetto alla gravità della pronuncia della Corte, chi la contrasta faccia percepire che conta solo il riconoscimento dell’obiezione.

Quando nel 1978 il diritto di obiezione fu introdotto nella legge 194, avvenne certamente in ossequio alla coscienza del medico, il cui giuramento vieta di togliere la vita, ma fu al tempo stesso una scelta politica mirata per dare ai medici una valvola di sfogo: non alzate le barricate contro norme che uccidono i bambini prima che nascano, in cambio sarete autorizzati a non partecipare agli aborti.

La rigida divisione fra medici obiettori e medici non obiettori ha precluso ai primi di svolgere con efficacia quell’attività di prevenzione/dissuasione dell’aborto che la 194 disciplina coi suoi articoli 4 e 5, alla quale potevano essere più predisposti, e ha costituito concausa della sciagurata disapplicazione di tali norme.

Ha trasformato i secondi in produttori di certificati per l’Ivg e/o in esecutori della stessa; ma così li ha privati di fatto del contributo a far riflettere la gestante in difficoltà verso esiti che non fossero obbligatoriamente l’aborto. Ne hanno fatte le spese non solo i bambini non nati e le madri che hanno smesso di essere tali, ma l’intera professione medica.

Chi la esercita è diventato meno libero, stretto fra l’impossibilità giuridica di dire la sua perché obiettore, quindi esclu­so dall’iter, e l’impossibilità materiale, in quanto non obiettore, e perciò in automatico “facitore” di aborti, di informare la donna delle alternative all’Ivg. Non basta.

Quarant’anni fa l’aborto fu presentato come scelta di necessità della donna. Da tempo si è però passati alla rivendicazione dell’Ivg come diritto: nel 2014 è stata sempre la Corte costituzionale, con la sentenza che ha fatto cadere il divieto di fecondazione artificiale eterologa, a elaborare il «diritto ad autodeterminarsi in ordine al figlio».

Diritto, non più necessità: che si declina nel senso di eliminare il figlio se non è desiderato, ovvero di ottenerlo anche col patrimonio genetico di altri se lo si desidera comunque. Se però è un diritto, su qualcuno grava il dovere di attuarlo: costui alla fine è il medico.

Ma se è un diritto, il medico che non collabora alla sua attuazione sarà meno medico degli altri. Qualche anno fa il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, attuale leader del Pd, ha bandito un concorso per dirigenti del reparto di ginecologia del San Camillo di Roma aperto ai soli medici non obiettori: il provvedimento ha trovato conferma in sede di giustizia amministrativa. Iniziative analoghe di esclusione di medici obiettori sono state segnalate in altre regioni.

Confidare esclusivamente sull’obiezione come linea di resistenza rischia sorprese non gradevoli. Va bene allora rivendicare il diritto di obiezione, ma la battaglia merita un fronte meno impervio e angusto. Nel maggio di quest’anno, a margine dei lavori alla Camera sull’eutanasia, la Federazione degli Ordini dei medici ha elaborato un documento importante e coraggioso, col quale richiama con vigore il fondamento della professione sanitaria, a fronte della prospettiva di introdurre il suicidio assistito.

Uno dei nodi da far emergere con forza nel dibattito è l’incoerenza tra i fondamenti etici della professione e l’adesione alla richiesta di provocare la morte. Quale norma prevale tra il codice deontologico dei medici e una legge dello Stato, o una sentenza della Consulta?

Troppo comodo risolvere la questione indirizzando nel cerchio dell’obiezione i medici che non condividono la morte indotta: è in gioco la ragione stessa della professione sanitaria, che non può essere nuovamente divisa tra chi è contro e chi è prò morte.

Non si può fare a meno della competenza del medico che, pur senza praticare l’ostinazione terapeutica, ritiene in scienza e coscienza che con quel determinato paziente si possa ancora fare qualcosa di efficace; né è giusto qualificare in automatico “dottor morte” chi non si dichiari obiettore.

Va cercata la strada di una obiezione “elastica”: non dichiarata una volta per tutte come avviene secondo la 194, ma sollevata in modo motivato di fronte al caso concreto. Ovviamente, con norme chiare che impediscano la pena­lizzazione di chi la eserciti.

Chiudersi volontariamente in un recinto non è una buona scelta. Ci pensiamo?