Primavera araba o autunno delle minoranze?

primavera arabaAg. Zenit (ZENIT.org).- giovedì, 24 marzo 2011

Luci ed ombre delle rivolte di popolo in Nord Africa

di Paul De Maeyer

ROMA, Nonostante le differenze alle volte sostanziali tra i vari Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente alle prese con l’ondata protestataria della “Primavera araba”, un filo conduttore di natura economico-politica lega tutti questi eventi.”La rivolta in Tunisia ed Egitto, e l’agitazione nel resto del Medio Oriente e Nord Africa sono il risultato del profondo malcontento della gioventù che rifiuta autoritarismo, corruzione e la mancanza di opportunità economiche e politiche”, ha dichiarato Malika Zeghal, docente di Pensiero islamico contemporaneo alla prestigiosa Harvard University (USA) ed autrice del saggio “The Power of a New Political Imagination”, intervistata da Il Sussidiario.net (22 marzo).

“Quello che si sta verificando è un nuovo tipo di liberazione nazionale, con il desiderio di un nuovo progetto politico in cui tunisini ed egiziani non siano più sudditi dello Stato, ma cittadini in grado di riacquistare il senso della loro dignità”, sostiene la studiosa.

Uno dei problemi fondamentali dei Paesi arabi è infatti proprio la mancanza di prospettive per le giovani generazioni, che affollano il mercato del lavoro. Mentre in Paesi come Egitto e Tunisia la disoccupazione giovanile nella fascia d’età 15-29 anni era rispettivamente del 21,7% (2007) e persino del 27,3% (2005), il fenomeno sfida persino la classe governante della ricchissima Arabia Saudita. Secondo i dati raccolti dal Guardian (14 febbraio), nel regno wahhabita culla dell’islam il 16,3% dei giovani tra i 15 e i 29 anni era senza lavoro nel 2008.

Del resto, la “pressione” giovanile è destinata a salire nel mondo musulmano. Anche se la crescita demografica tra i musulmani è rallentata e continuerà a rallentare nei prossimi vent’anni, secondo le proiezioni del Pew Research Center, rese pubbliche il 27 gennaio scorso, la popolazione musulmana nel mondo dovrebbe aumentare del 35% nei prossimi due decenni, da 1,6 miliardi di oggi a 2,2 miliardi nel 2030.

Il quasi repentino risveglio delle popolazioni arabe costituisce senz’altro un’opportunità, anche per le minoranze religiose. Ne è convinta Malika Zeghal. “Per tutte le minoranze religiose che vivono nel Medio Oriente e in Nord Africa, questa è una nuova opportunità di vedere rafforzati i loro diritti. Un dialogo tra musulmani e cristiani è sempre esistito, talvolta a livelli relativamente isolati, tra ristrette reti di intellettuali, talora a livelli più ampi e ufficiali”.

Infatti, nonostante l’attentato suicida contro una chiesa copta, che il 1° gennaio scorso provocò ad Alessandria una ventina di vittime, tre settimane dopo la strage la comunità cristiana d’Egitto ha partecipato alle proteste pro-democrazia. Lo ha ribadito il cardinale Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti, in un comunicato diffuso in seguito alla caduta di Mubarak, avvenuta l’11 febbraio scorso. Secondo il porporato, la “Rivoluzione del 25 gennaio” ha prodotto “una realtà che è stata a lungo assente, ovvero l’unità dei cittadini, giovani e anziani, cristiani e musulmani, senza alcuna dinstinzione o discriminazione” (ZENIT, 14 febbraio).

Ottimista si è mostrato anche padre Samir Khalil Samir, S.I., docente presso l’Università Saint-Joseph di Beirut. “Questa è una primavera nel mondo arabo. Sarebbe assurdo che i cristiani ne rimanessero fuori, perché veramente, senza fare della falsa apologetica, abbiamo già tutti questi principi, nella lettera e nello spirito del Vangelo: quello dell’apertura all’altro, della ricerca della giustizia e della pace, e forse il musulmano potrà dire lo stesso”, ha detto il sacerdote in un’intervista realizzata da ZENIT (24 febbraio).

Ma anche per il gesuita il realismo è d’obbligo: “Finché non c’è un governo chiaro con una linea precisa da seguire, finché non ci sarà un’organizzazione identificabile, non potremo essere sicuri. Occorrono delle strutture. Per il momento siamo ancora nella fase dell’esplosione, della scoperta. Spero però, che si possa passare rapidamente ad una società fondata su questi principi che abbiamo enunciato”

Un segnale di speranza è secondo padre Samir il “Documento per il rinnovamento del discorso religioso”, postato il 24 gennaio (un giorno prima dell’inizio della rivolta in Egitto) sul sito del settimanale Yawm al-Sabi’ (Il settimo giorno) e basato sui suggerimenti forniti da un gruppo di noti studiosi ed imam egiziani, fra cui Nasr Farid Wasel, ex Gran Mufti dell’Egitto, e il dottor Gamal Al-Banna, fratello del fondatore dei Fratelli Musulmani. L’iniziativa, che formula 22 temi di riflessione, ad esempio sulla mescolanza tra i sessi o la separazione fra religione e Stato, dimostra che la “Primavera araba” mira anche ad un rinnovamento dell’islam, con lo sguardo rivolto verso la modernità.

Piuttosto pessimista invece è Carl Moeller, presidente e amministratore delegato di Open Doors USA. Secondo Moeller, la democrazia che si sta evolvendo nella regione è ben lontana dal modello Jeffersoniano. Sul sito dell’Assyrian International News Agency (22 marzo), l’autore ha scritto di temere specialmente l’affermarsi della “legge del dominio di piazza” (law of mob rule), attraverso la quale gli islamisti controllerebbero i governi, togliendo alle minoranze persino la protezione da parte delle forze di polizia. A quel punto il messaggio per i cristiani, costretti a vivere nel terrore costante, sarà: per voi non c’è posto.

Moeller vede confermati i suoi timori da un’inchiesta pubblicata il 2 dicembre scorso dal Pew Research Center. Dall’indagine, realizzata nella scorsa primavera in sette Paesi musulmani, emerge ad esempio che l’84% degli egiziani trova che i convertiti dall’islam al cristianesimo o ad un’altra religione dovrebbero essere giustiziati pubblicamente. Inoltre, ben il 95% degli egiziani giudica un aspetto positivo il fatto che l’islam rivesta un ruolo importante in politica.

Una “pesante battuta d’arresto” – così la definisce Luigi Geninazzi (Avvenire, 22 marzo) – costituiscono senz’altro i risultati del referendum che si è svolto sabato 19 marzo in Egitto, al quale hanno partecipato più di 18 milioni di cittadini. Secondo la Commissione Elettorale, il 77% dei votanti (14 milioni) ha detto “sì” alla proposta di una riforma costituzionale ‘light’, mentre il 22,8% ha optato per il “no”. I sostenitori del “no”, fra cui i movimenti emersi dalla “Rivoluzione del 25 gennaio” e vari personaggi di spicco come Mohamed El Baradei (premio Nobel per la Pace 2005 ed ex segretario generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) e Amr Moussa (capo della Lega Araba), chiedevano invece la redazione di una nuova Costituzione.

La vittoria del “sì”, definita uno “shock” dall’attivista copto Wagih Yacoub (AINA, 21 marzo), rafforza sia il Partito Nazionale Democratico (NDP) dell’ex presidente Mubrarak sia gli islamisti dei Fratelli Musulmani. A quest’ultimi l’idea di una nuova Costituzione non piaceva per nulla: temevano infatti la cancellazione del discusso articolo 2 dell’attuale Magna Carta, il quale sancisce che la legge islamica (shari’a) è la fonte principale della legislazione egiziana. Secondo Manar Ohsen, che ha seguito le operazioni di voto per conto dell’Egyptian Organization for Human Rights, i Fratelli Musulmani hanno istruito gli elettori a votare “sì”, dicendo che era un “dovere religioso”, per salvare l’articolo 2 ma anche per “tenere i copti fuori dal governo” (AINA, 21 marzo).

La domanda è dunque quali sono le vere intenzioni della Fratellanza? Ritenuti “espressione dell’islam moderato o cosiddetto neoconservatore”, i Fratelli Musulmani potrebbero secondo un editoriale de La Civiltà Cattolica “forse svolgere all’interno della società islamica, in particolare in Egitto, un ruolo di mediazione tra il vecchio e il nuovo e, allo stesso tempo, traghettare le culture tradizionali, spesso ricche di valori ormai dimenticati o svalutati dalla cultura occidentale, verso una modernità che difenda tutti diritti umani” (n. 3857, 5 marzo).

Per la rivista dei gesuiti, far uscire le società mediorientali dall’impasse “è possibile soltanto se i movimenti islamici partecipano al dibattito politico generale e trovano una loro collocazione all’interno della società politica e civile, formulando le loro proposte e collaborando nell’interesse di tutti ad allargare le basi di una democrazia partecipativa, pensata a partire anche dai princìpi dell’islam. Rimane in fondo la necessità del rifiuto di ogni tipo di violenza e la previsione dello spazio concesso alle minoranze, anche religiose”.

Ma ci sono degli strumenti per evitare una strumentalizzazione islamista delle proteste? Per l’economista ed ex ministro delle Finanze libanese, Georges Corm, la risposta è affermativa: è la Dottrina sociale della Chiesa cattolica. “Oggi in particolare è l’enciclica di Benedetto XVI, ‘Caritas in veritate’, che si colloca nella scia della ‘Rerum Novarum’ di Leone XIII”, ha detto Corm parlando con il giornalista Fady Noun (AsiaNews, 8 febbraio). Corm, che è anche uno storico, ha puntato il dito contro l’Occidente e ricordato il ruolo di “colma lacune” dei movimenti islamici: “Il neo-liberalismo ha obbligato lo Stato a disimpegnarsi dal sociale e dall’economia, sotto il pretesto dell’equilibrio del budget. Le organizzazioni islamiche si sono infilate in questa breccia”.