Riflessioni in merito al decreto legge sulle DAT

testamento_bioper Rassegna Stampa
Contributo della dott.sa  Paola Biondi del 15 febbraio 2011

(Medico di medicina generale. Bioeticista (Master in Bioetica e Formazione conseguito all’Istituto Pontificio Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia insieme all’Università Cattolica del Sacro Cuore). Insegnante del Metodo d’Ovulazione Billings.  Membro di Scienza&Vita e AMCI di Pisa).

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A giorni sarà in discussione alla Camera il ddl sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento.

Sono poche però le agenzie informative e i giornali che offrano libero spazio ad un serio dibattito e ad un onesto confronto su temi che, come quello sul fine-vita, scuotono profondamente le coscienze, interpellano dinamicamente la libertà e stimolano una sana e ragionevole speculazione.

In questo momento si patisce l’abuso mediatico di chi stra-parla senza dire niente e sono solo pochi i “salotti” che valga la pena frequentare, in un momento in cui siamo sacrificati nelle strette di quelli dalle visioni miopi e fraudolente, dove mi pare chiaro si faccia di tutto per ostacolare lo sdoganamento di un pensiero che voglia essere forte, coraggioso e veramente libero e solidale con l’umanità tutta…

Già, l’umanità tutta: è per parlare di lei che mi sono presa il tempo per scrivere e dire umilmente la mia. Se c’è una cosa che mi duole più di tutte in questo momento e in questo dibattito è la rara presenza di quei protagonisti scomodi e “scandolosi” (alludo allo scandalo dei giusti e degli innocenti) che molti dicono di voler difendere ma senza parlarne mai; è la completa assenza di riferimento alla realtà, quella che si misura, non sui tristi e consumati palcoscenici mediatici, ma nell’esperienza quotidiana delle persone che vivono e soffrono, che amano e si donano, che lottano e sperano, anche “contro ogni speranza”.

Mi sembra cioè che in troppi interventi e prese di posizione manchi quell’antico, ma sempre nuovo e saggio, confronto con la vita delle persone, specie di quelle che sono troppo piccole, troppo povere o troppo deboli per permettersi il lusso di reclamare, neanche tanto il diritto di parola, ma solamente quello di essere “riconosciute”persone e di essere amate “per se stesse”; persone che parlano solo con la loro presenza e sono capaci di arrivare dritte al cuore, invocando drammaticamente negli altri quell’unica possibilità: “prova anche tu, tu che sei sano, che sei forte, che sei bello, che ragioni bene, che scrivi bene, che… prova anche tu a lasciarti amare da me, “riconoscimi” e lascia che sia anche io a “riconoscere” te.

Prova a guardare la mia nuda umanità senza mortificarla al prezzo di qualche povera qualità; prova a capire il valore e il senso della mia esistenza, e nella mia a scoprire magari anche il valore e il senso della tua… provaci!”.

Per provare ad udire questa richiesta sussurata ma realissima, bisogna però avere il coraggio e la passione di starci con queste persone: come medico di famiglia ho avuto e ho l’onore di prendermi cura di molti nonnini affetti da demenza, di giovani con più o meno gravi disabilità psico-fisiche, di due donne malate di sclerosi laterale amiotrofica, persone piene di vita e immerse nella vita, persone capaci di muoverti i migliori pensieri e le migliori energie, persone che silenziosamente continuano a segnare profondamente la vita degli altri nella compostezza potente di una dignità mai piegabile a retorica e immisurabile da nessun indice di qualità.

Persone che, forti dell’amorevole e ammirevole attenzione e dedizione dei propri cari, hanno trovato la forza di gridare -senza urlare- la pienezza della propria esistenza, l’infinito e dolce amore per la propria vita e per quella degli altri.. persone che hanno interpellato energicamente il mio cuore, troppo spesso perso a correre dietro a mille faccende inutili fino a svanirvisi,  suggerendogli che vale sempre la pena fermarsi, trascendersi e trovare il coraggio di guardare in faccia la propria esistenza che vale la pena lasciarsi guardare da chi, immobile in un letto o in un corpo vivo, è il solo capace di fermarmi e scuotermi: “provaci a lasciarti guardare e riconoscere da me. provaci a riconoscermi.. reciprocamente misuriamo nell’amore vero e nella forza dell’esperienza comune le nostre esistenze.

Mi pare che il dibattito intorno al ddl sulle DAT, debba confrontarsi prima di tutto con l’esperienza di vita di queste persone e poi con quanto segue:

1) visto che le DAT sono uno strumento che, se approvato, potrà redigere solo la persona “capace di intendere e di volere”, al fine di “suggerire” le cure che vorrebbe prima di una sua eventuale e ipotetica “incompetenza”, mi si dovrebbe spiegare cosa si pensa di fare e come si pensa di rispettare le volontà di quelle persone che incompetenti lo sono di già, ora, realmente, non ipoteticamente o eventualmente soprattutto, vorrei che chi sostiene la necessità di una legge sulle DAT, per evitare ad altri la tragica e indecente fine della povera Eluana, mi spiegasse come questa legge potrà difendere quelle tante persone attualmente “incompetenti”, che non possono più fare questa macabra dichiarazione irrelata circa la propria volontà di trattamento e che quindi sono esposti lo stesso alla gogna della magistratura “fai da te”.

E a chi chiede a noi oppositori di questo ddl sulle DAT di rendere ragione della propria responsabilità suggerendo concretamente cosa si intenderebbe fare, rimando l’onere della loro di responsabilità (nel sostenerlo), semplicemente ricordando che bastava – e questo intervento legislativo era ed è l’unico doveroso e necessario – disciplinare più nel dettaglio l’assistenza ai grandi (gravi) disabili (scrivendo nero su bianco che “nutrizione e idratazione” sono sostegni vitali, anche quando previsti attraverso “modalità artificiali”), per cercare di frenare le colpevoli iniziative giudiziarie e riempire vuoti legislativi.

2) da medico cattolico -orgogliosa di essere sia l’uno che l’altro- mi formo e confronto sempre con l’insegnamento custodito nel Magistero, in cui l’amatissimo Padre e Maestro Giovanni Paolo II mi ricorda, nella sua Enciclica Veritatis Splendor, che mai è lecito ad alcuno compiere un bene facendo un male. Perchè quando parliamo di DAT parliamo oggettivamente di un male. Mi spiego.

Moralmente, per valutare la bontà di un atto devo verificare, attraverso la coscienza orientata alla ricerca del bene della verità, che siano contemporaneamente buone tre condizioni (non una o due soltanto): alludo al fatto che chi sostiene o difende le DAT deve valutare, oltre alla bontà delle “circostanze” (evitare che si ricreino le condizioni per un altro “caso-Englaro”), oltre alla bontà delle “intenzione” (salvare la vita ad una altra persona che, trovandosi nelle condizioni giudiziarie di Eluana, potrebbe essere ingiustamente sacrificata), anche la bontà dell’ “oggetto” con cui si intende realizzare in queste circostanze quell’intenzione.

L’oggetto dell’atto, ossia il mezzo con cui realizzare un’intenzione buona in circostanze buone, deve essere parimenti buono: è fondamentale quindi che il finis operis, il fine intrinseco dell’azione, sia buono e non contenga di per sé un’intrinseca malizia. Ora, di malizie le DAT ne contengono, intrinsecamente, tantissime. Non sto parlando tanto degli effetti negativi, imprevedibili o imponderabili, che tale azione contempla, perché di essi potremmo anche non esserne responsabili.

Sto parlando invece del responsabile sostegno dato ad un’azione concreta (redigere una DAT) che di per sé non è buona, in quanto: è irrelata (la persona sana decide per sé trattamenti di cui non ha diretta conoscenza ed esperienza: manca cioè quel vissuto di malattia che consenta alla persona di esprimere responsabilmente e gradualmente la sua volontà di fronte ad un trattamento, anche in vista di un’eventuale perdita di competenza); è impersonale (le DAT lasciano la persona sola e la sola a decidere di sé, smarcandosi da quel reale contesto di cura e di fiducia, cioè la relazione medico-paziente, in cui matura la vera volontà del paziente, cioè della persona ammalata: è solo all’interno della relazione di cura medico-paziente, opportunamente allargata e sostenuta dalle relazioni affettive familiari, che il paziente è realmente informato, formato, guidato, accompagnato a dare il proprio consenso ai trattamenti di cura); è illusoria e fraudolenta (la persona è illusa di essere lei a stabilire come dovrà essere curata senza tenere di conto che non potrà mai contemplare tutti i possibili casi di malattia o fine-vita in cui potrà trovarsi e, inoltre, senza sapere come saranno “interpretate” le proprie volontà dai medici che in quel momento l’avranno in cura, o dal proprio fiduciario e da chi per lui).

Da queste riflessioni si evince che moralmentemente le DAT sono un’azione non-buona, perché intrinsecamente non conducono al bene della persona, mortificando di fatto la sua libertà e il suo irrinunciabile desiderio di autotrascendersi e autodeterminarsi, che la distinguono e le consentono la sua espressione unica e irripetibile.

3) a dispetto del dispotismo imposto dalla “frammentazione dei trascendentali”, che si impone quasi a istituzione da rispettare per separare il bene e il vero dal giusto, ritengo che bene-vero-giusto siano inscindibili e che una legge positiva non possa nuocere a questa unità inscindibile, ontologicamente ordinata a riconoscere e rispettare il bene che ogni persona umana è in quanto tale, dal concepimento sino al suo termine doverosamente naturale: è la persona umana il fondamento dei diritti e del diritto!

E’ alla luce di questo che ritengo questa legge profondamente ingiusta perché acconsente a livello sociale (con una responsabilità terribilmente amplificata rispetto al singolo caso) un’azione umana che intrinsecamente non è né buona nè vera.

Infatti, come molti hanno scritto, la legge sulle DAT è intrinsecamente incapace di contemplare e contenere tutte le possibili e fantasiose –nonché mortifere!- “interpretazioni giudiziarie” (oltre a quelle “mediche”, già viste!); inoltre, anche la sventolata “non vincolatività del medico” si riduce al nulla di fronte al possibile conflitto medico-fiduciario, che un collegio di medici sarebbe chiamato a dirimere in maniera definitiva (e vincolante per il medico stesso!).

In conclusione, ritengo che debba essere smascherato il disegno che realmente sottende questo nostro dibattito e che ha un valore antropologico e culturale campale. Disegno, che non può più permettersi di non considerare, se non colpevolmente, chi presta la spalla a questo tipo di leggi, sia difendendone la necessità sia sbandierandone la conquista.

Che, cioè, in gioco non c’è tanto “DAT sì-DAT no”, ma “vite degne di esistere sì-vite degne di esistere no”: in gioco c’è una battaglia di valore e di senso, di civiltà e di cultura, c’è la difesa dell’indisponibilità della propria come dell’altrui vita, c’è la sfida di ridare all’uomo ciò che è dell’uomo (prima fra tutti la sua dignità inalienabile) e il coraggio di non perdere l’umanità della relazione nelle strette individualistiche e corte di un legge ingiusta.

In questa sfida non serve scomodare la logica dei “mali minori” e affannarsi a varare leggi indigeste e imbroglione. Basterà essere se stessi e permettere agli altri di esserlo. Basterà preoccuparsi di come vivere, anziché di come morire. Basterà ricordare sempre che: “Si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è pieno di tenerezza” (dalle pagine del diario dell’Hospice di Forlimpopoli – Forlì).

(AMCI-Pisa)