Mugabe, il nazional-comunista che distrusse il suo paese

Atlantico

10 Settembre 2019  

di Marco Faraci

È morto a 95 anni Robert Mugabe, per quasi quattro decenni uomo forte dello Zimbabwe ed uno degli autocrati più temibili dell’era dell’“indipendenza africana”.

Aveva preso il potere nel 1980, dopo una lunga e sanguinaria guerriglia di “liberazione” e dopo un tormentato periodo di transizione che l’ex-premier bianco Ian Smith avrebbe voluto pilotare verso ben altro approdo. Nel 1978 il rhodesiano Smith aveva raggiunto un accordo con i leader dell’opposizione nazionalista nera più moderata che l’anno successivo trasformava la Rhodesia nella repubblica di Zimbabwe-Rhodesia. Alla guida il governo a maggioranza nera, moderato e multirazziale, del reverendo Abel Muzorewa.

Erano rimasti fuori però i movimenti guerriglieri di Mugabe e del carismatico e storico leader nazionalista Joshua Nkomo, decisi a proseguire la lotta armata. Tuttavia, gli osservatori inviati dal Partito Conservatore britannico avevano confermato che le elezioni del 1979 sotto il nuovo assetto, vinte da Muzorewa, erano state libere e corrette e che il nuovo governo poteva essere considerato in ogni caso rappresentativo della maggioranza della popolazione.

Purtroppo, sotto le pressioni dei paesi africani del Commonwealth, il nuovo governo britannico non mantiene la promessa di riconoscere lo Zimbabwe-Rhodesia ed il suo rinnovato assetto costituzionale. Londra pretese nuovi negoziati, la provvisoria riconduzione del paese sotto la propria sovranità e nuove elezioni che includessero anche le forze estreme di Nkomo e Mugabe.

L’aspettativa britannica era che la coalizione “moderata” di cui faceva parte Muzorewa prevalesse comunque nelle urne o che al più si allargasse con la cooptazione di Nkomo, un leader nazionalista considerato comunque “recuperabile” ad una prospettiva pragmatica e filo-occidentale.

Con sorpresa dei manovratori britannici, ma non della locale popolazione bianca, il partito estremista di Robert Mugabe ottenne un travolgente successo alle elezioni. Da un lato aveva avuto buon gioco nell’accusare le leadership nere moderate di essere “fantocci” del precedente governo bianco; dall’altro era stato in grado di condizionare attivamente l’esercizio del voto in larghi territori, in virtù della presenza capillare di militanti e guerriglieri.

Mugabe era un marxista-leninista convinto e si sentì investito di una missione storica di superamento del passato capitalista e coloniale e di edificazione di una società socialista di cultura africana.

Intanto, però, dal passato capitalista e coloniale ereditò un paese con un’economia solida, ottime infrastrutture, una buona alfabetizzazione ed eccellenze tecniche ed imprenditoriali nel campo dell’agricoltura – quello che tutti chiamavano il “gioiello dell’Africa”.

Il 16 Aprile 1980 nacque definitivamente il nuovo Stato dello Zimbabwe con Robert Mugabe primo ministro. Molti si chiedevano se il nuovo governo avrebbe implementato da subito politiche radicali. In realtà Mugabe scelse di partire piano e, pur disponendo della maggioranza assoluta in Parlamento, varò un governo che incluse anche Nkomo e due ministri bianchi legati all’era di Smith.

Mugabe ebbe probabilmente ben presente la lezione di Allende e preferì non correre rischi fino a quando non fosse stato sicuro di avere acquisito il completo controllo sull’esercito e sulla burocrazia. Tuttavia, questa fase di transizione non durò molto e già dal 1982 mostrò con che pugno aveva intenzione di governare. Nkomo venne cacciato dal governo e per un po’ di tempo fu anche costretto a riparare all’estero.

Nei primi anni del suo potere, Mugabe si mostrò tutto sommato poco interessato a colpire la popolazione bianca, numericamente troppo debole per rappresentare un vero pericolo per la sua leadership. Fu così che la sua repressione colpì in primo luogo la dissidenza nera ed in particolare la popolazione Ndebele favorevole al suo rivale Nkomo.

Robert Mugabe

A partire dal 1983 unità speciali al diretto comando di Mugabe e formate in Corea del Nord misero a ferro e fuoco la regione del Matabeleland. Ottomila persone uccise e molte di più imprigionate e torturate, nell’indifferenza di un mondo occidentale apparentemente disposto a concedere un credito illimitato al nuovo padrone dello Zimbabwe.

Per molti anni, nei fatti, il mondo libero ha chiuso un occhio nei confronti dei crimini perpetrati da Mugabe. Troppo capitale politico era stato investito nel ribaltamento del governo della minoranza bianca in Rhodesia e troppo popolare era in quegli anni il mito della liberazione africana e dell’anti-colonialismo.

Ma soprattutto non sarebbe stato saggio instillare dubbi sulla “bontà” di un governo nero “rivoluzionario”, nel momento in cui si giocava poco più a sud la partita politica più importante della regione, quella sudafricana. E così Mugabe poté continuare nel graduale smantellamento del quadro di libertà e garanzie derivato dall’impronta istituzionale anglosassone.

Nel 1987 il leader marxista realizzò alcuni passaggi fondamentali per la trasformazione del paese in un classico Stato socialista a partito unico. Viene eliminata l’opposizione parlamentare nera e bianca, con la confluenza, de facto forzata, del partito di Nkomo all’interno di quello al potere e con l’abolizione di seggi riservati alla minoranza di origine europea. E lo Zimbabwe viene trasformato in una repubblica presidenziale con un pieno accentramento dei poteri nelle mani di Mugabe.

Nel 1989 cadde il comunismo in Europa e venne meno il sostegno sovietico. Gli Stati a partito unico diventano di colpo fuori moda e così Robert Mugabe non riuscì a realizzare l’ultimo passaggio formale verso la cancellazione delle opposizioni. Ma è questione, appunto, di forma, non di sostanza.

Il mantenimento di un qualche simulacro di democrazia, sia pure in un contesto di controllo pressoché totale dei processi politici, si rivelò infatti più che funzionale alla legittimazione del suo potere. Lo Zanu-Pf, il partito di Mugabe, occuperà 147 seggi su 150 alle elezioni del 1990 e 148 su 150 alle elezioni del 1995.

Ma intanto i nodi del malgoverno, del dirigismo, della corruzione e del clientelismo vengono al pettine e le condizioni dell’economia, ancora vivace negli anni ’80, peggiorano rapidamente. Per riconquistare il consenso popolare, il presidente giocò, allora, la carta razziale, individuando il nemico nella piccola minoranza bianca e nella sua “mentalità coloniale”. Mugabe promise di “togliere la terra ai bianchi”, cioè di “indigenizzare” le fattorie commerciali che rappresentavano l’ossatura dell’economia dello Zimbabwe.

Si trattò in realtà di un pretesto. Lo Stato possedeva già molta terra, venduta volontariamente da molti proprietari, ma la stava solo rovinando. Di fronte alle obiezioni della Corte Suprema, a quel tempo ancora indipendente, Mugabe si mosse indicendo un referendum per una nuova costituzione che gli garantisse mano libera nelle confische. L’insofferenza, tuttavia, nel paese era tale che il referendum fornì un esito a sorpresa ed il progetto del presidente viene bocciato.

Era manifesto ormai che Mugabe non avesse più la maggioranza nel paese e, solo in virtù di sistematici brogli ed intimidazioni, vinse le elezioni parlamentari del 2000. L’opposizione, guidata da Morgan Tsvanigirai stravinse nelle grandi città, dove le elezioni potevano avvenire secondo standard accettabili, ma non contro le manipolazioni e le pressioni che lo Zanu-Pf mise in atto, al di fuori di ogni controllo, nelle zone rurali.

La reazione di Mugabe alla crescente opposizione fu furiosa e rappresentò un’escalation in termini di autoritarismo. Il presidente incoraggiò i suoi militanti all’occupazione illegale e spesso violenta delle fattorie commerciali di proprietà dei bianchi. I racconti di quei giorni sono drammatici e la devastazione operata segnerà le prospettive economiche del paese per sempre.

Nel 2001 i militanti del partito di Mugabe invasero la sede della Corte Suprema ed in spregio alle sue deliberazioni si misero a ballare sui banchi. Gli ultimi due giudici bianchi furono forzati alle dimissioni. L’opposizione boicottò le presidenziali del 2002 per evidente impraticabilità, mentre provava vanamente a contrastare la presa di Mugabe sul potere alle elezioni per il Parlamento del 2005.

Nel frattempo, l’economia del paese era totalmente collassata e la disoccupazione aveva ormai raggiunto il 90 per cento. Vittime delle confische non sono stati solo i proprietari bianchi, ma anche i loro dipendenti e tutto l’indotto. Le fattorie commerciali e tutto quanto ad esse correlato rappresentava, infatti, la principale fonte di occupazione in Zimbabwe.

Nel breve corso di un paio di anni, il socialismo nazionalista di Mugabe aveva distrutto un’economia florida che lavoro, abnegazione e competenze avevano costruito in un secolo. Le terre, ormai, sono spartite tra quadri del partito e veterani della “guerra di liberazione” privi di qualsiasi capacità utilizzarle oltre un livello di agricoltura di pura sussistenza.

Lo Zimbabwe era entrato, intanto, in uno scenario di iperinflazione dove la tragedia si fonde con la farsa: 500 per cento nel 2005, 1.200 per cento nel 2006, 66.000 nel 2007, fino a 80 miliardi per cento nel 2008, quando la moneta nazionale viene sospesa. La popolazione fu ridotta in uno stato di estrema povertà. L’aspettativa di vita crollò a 34 anni per le donne – la metà rispetto a quando i bianchi hanno lasciato il potere – e 37 anni per gli uomini.

La situazione era arrivata ormai ad un livello così estremo che il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai vinse il primo turno delle elezioni presidenziali del 2008. Era pressoché certo che avesse ottenuto la maggioranza assoluta e quindi la vittoria, ma l’ufficio elettorale, dopo aver atteso molti giorni prima di diffondere i risultati, lo costrinse ad un ballottaggio, dal quale successivamente fu costretto a ritirarsi.

Tra il primo e il secondo turno, infatti, i villaggi che avevano votato per l’opposizione furono assaliti dalle truppe di Mugabe con violenze ed intimidazioni. I viveri degli aiuti umanitari furono usati per orientare il voto. Centinaia di militanti dell’opposizione uccisi; migliaia rapiti e torturati.

Le pressioni della comunità internazionale su Mugabe, ormai sempre più consistenti, lo convinsero, nel 2009, ad accettare di formare un governo di unità con l’opposizione. Robert Mugabe restava presidente, mentre Tsvangirai assunse la carica di primo ministro.

Per l’opposizione l’accordo si rivelò in gran parte una trappola. L’anziano presidente mantenne tutte le leve del potere e, anzi, utilizzò la compartecipazione al governo dei suoi oppositori per indebolirne la credibilità, fino a tornare nel 2013 nella condizioni di poter formare un nuovo governo in solitaria.

Mugabe avrebbe governato fino al 2017 quando fallì il suo progetto di lasciare la successione alla moglie Grace. Venne deposto dal vicepresidente Emmerson Mnangagwa che aveva cercato di allontanare per fare spazio alla consorte. Quando lascia il potere ha 93 anni avendo governato lo Zimbabwe per 37.

Robert Mugabe è stata una delle figure più nefaste della “liberazione africana”. In una fase storica in cui tanti paesi nel mondo si emancipavano dal socialismo e cominciavano un nuovo percorso di libertà e di benessere, Mugabe ha trasformato un paese economicamente sano e ben amministrato in una delle più grandi tragedie dell’Africa.

La storia della distruzione dello Zimbabwe deve essere conosciuta e preservata, come testimonianza dell’ennesima devastazione non solamente economica ma prima ancora morale e culturale compiuta dall’ideologia comunista e anti-occidentale.