L’uomo diviso dell’Illuminismo

Litterae Communionis  Anno VI – Settembre 1979

Siamo uomini post-illuministi. L’illuminismo è una forma di civiltà, di società e di vita che ha generato un uomo nuovo: l’uomo diviso. Caratteristica radicale è l’oblìo del fatto cristiano come misura vera dell’uomo

Francesco Botturi

Siamo uomini post-illuministi. L’illuminismo costituisce una cesura irreversibile nella storia occidentale: qualcosa che assomma in sé una rivoluzione culturale, sociale e politica (simbolizzata dalla Rivoluzione francese, che chiude «il secolo dei lumi»).

L’illuminismo non è una corrente filosofica, né un movimento politico, ma è la cultura di un intero secolo della storia europea, dalla geografia interna molto complessa e dalla estensione massima su tutti gli aspetti dell’esistenza personale e storica. L’illuminismo è la forma di una civiltà, un tipo di società ed uno stile di vita, che ha generato un nuovo tipo d’uomo, l’uomo diviso.

L’idea di ragione

Da un certo punto di vista, ciò che l’illuminismo afferma era già stato detto nel secolo precedente: le grandi premesse erano già state poste e sviluppate.

Prima di ogni altra, la premessa per eccellenza: la crisi consapevole del cristianesimo come tipo universale dell’umano. Le guerre di religione ed il razionalismo ponevano il dubbio insormontabile sulla capacità dell’esperienza religiosa cristiana di essere ancora ciò che era stata per tutti i secoli, lungo i quali aveva plasmato l’unità dell’uomo europeo.

Il ‘600 potrebbe esser visto come il secolo contrassegnato dal tentativo di ritrovare e riformulare il piano universale su cui gli uomini possano reincontrarsi e ricominciare a comunicare. Esigenza questa chiaramente formulata sia dai religiosi giansenisti, sia dagli irreligiosi libertini.

Globalmente sarà la linea razionalistica a prevalere: il piano dell’unità e dell’universalità coincide con la «natura» e con la «ragione», sua interprete adeguata e fedele. Il secolo dei lumi scopre in modo nuovo che dire ragione è dire scienza, quel modo certo ed universale di conoscere, che garantisce un rapporto vero ed efficace con la natura.

L’illuminismo venera la scienza e fa contenuto dei suoi maggiori sforzi il tentativo di applicazione del metodo scientifico a tutti gli aspetti del reale ed in particolare alla realtà umana. E’ l’epoca di nascita delle «scienze umane»: estetica, psicologia, ricerca storica, etnologia, demografia, economia,…

L’esaltazione per la scienza ha un punto di riferimento paradigmatico, Isacco Newton, che come scopritore della legge scientifica della gravitazione universale, dava la prova della applicabilità delle leggi di natura all’universo come tale; la fisica newtoniana appare come la dimostrazione rivoluzionaria che la realtà tutta è accessibile ai concetti esatti della conoscenza matematica (Kant prenderà ciò alla lettera facendo di quella fisica il modello del sapere come tale).

Isaac_Newton

Finora i più grandi scienziati avevano scoperto leggi che riguardavano aspetti particolari della natura: Galileo, la caduta dei gravi; Keplero, il moto dei pianeti. Con Newton la conoscenza scientifica diventa una conoscenza di valore universale.

Di qui è rapido il passaggio alla convinzione che la ragione umana attinge la sua piena universalità a livello della conoscenza scientifica: su questo fondamento si ritiene possibile costruire ciò che vale per tutti gli uomini: sapere, convivenza, diritto, morale, religione, arte…. E ciò che non presenterà quei determinati requisiti razionali-scientifici, sarà certamente opera di fanatismo e di superstizione …

La classica idea del progresso illuminista viene di qui, dall’identifìcazione di razionalità e scienza: come la scienza è per sua natura un sapere progressivo e (si riteneva allora) lineare, così la ragione umana porta in sé la capacità sicura di un avanzamento continuo nella storia dell’uomo.

Renato Cartesio

Ma già a livello della concezione della razionalità l’illuminismo è abitato da una paradossale sorte; il suo universalismo tende per necessità a rovesciarsi nel più estremo soggettivismo.  La scienza newtoniana infatti, a differenza di quella vagheggiata da Cartesio, presenta un vigoroso senso della prova empirica e del procedimento induttivo dal particolare all’universale, dal fatto alla legge.

Di conseguenza, nella misura in cui la ragione illuministica si modella sulla nuova fisica imbocca la strada dell’empirismo; nella misura in cui la conoscenza scientifica viene elevata a metodo di valore universale, l’esperienza immediata, sensibile diventa il criterio di ogni verità.

Etienne Condillac

Tutto ciò che si può dire sulla realtà e sull’uomo stesso parte dall’esperienza e si conclude nel cerchio dell’esperienza. L’esperienza diventa il paradigma di ogni verità; ma allora nulla di assoluto può venir più affermato.

Lo scetticismo di uno Hume è alle porte e la filosofia sensistica di un Condillac segna lo spegnimento definitivo di ogni creatività dello spirito propriamente umano: l’intelligenza coincide con la sensibilità.  Tutto questo ha un riscontro macroscopico nella prevalente antropologia illuministica.

All’empirismo e sensismo filosofici corrisponde infatti l’edonismo e l’utilitarismo antropologici. Se la vita dello spirito umano si riduce ai confini dell’esperienza sensibile soggettiva, è chiaro che non si esce dall’egoismo; tutto nell’esistenza concreta, singola e sociale, ruota intorno all’ «egoismo»: fine dell’esistenza è il piacere e mezzo suo è l’utile.

Voltaire

Non a caso la cultura illuministica studia, analizza, esalta, quasi adora il mondo delle passioni umane. L’esperienza interna del soggetto attrae continuamente l’attenzione del secolo dei lumi, perché essa è ciò che vi è di più «naturale» e quindi evidente e verace. Amor proprio, vanità, invidia, avidità, desiderio di stima sociale, ecc. rivelano agli occhi del «razionale» illuminista un’importanza basilare.

«Le passioni — dice Voltaire — sono le ruote che fanno andare tutte le macchine della natura» e Rousseau, pur avverso agli enciclopedisti per altri aspetti, si fa cantore del sentimento, della passione, della spontaneità, come forme dell’innocenza e della primitività della natura di cui l’uomo è parte.

L’uomo illuminista crede di avere in mano la chiave del sapere universale, ma con essa riesce a chiudersi nel palazzo del suo soggettivismo; pensa di inaugurare l’età dell’assoluto, ma riesce ad affermare solo che tutto è relativo; venera la ragione, ma pone alla base dell’esistenza l’istintività irrazionale.

L’ideale religioso

Il secolo dell’illuminismo non è affatto areligioso e tantomeno ateo, salvo il ristretto gruppo dei filosofi materialisti. I dibattiti sul cristianesimo, i suoi dogmi, la religione in generale sono all’ordine del giorno. Ma tutto lo sforzo sta nel tentativo di ri-comprendere il cristianesimo e l’esperienza religiosa all’interno dell’idea di ragione e del sentimento dell’uomo che la cultura illuminista stava elaborando.

Così, se la ragione umana è quella di tipo scientifico, essa non potrà ammettere la religione se non alla condizione di liberarla dal «fanatismo» e dalla «superstizione», ovvero da tutto ciò che eccede la capacità umana di analizzare e di intendere. Si può insomma accettare «razionalmente» solo quella religione di cui l’uomo sia in grado di capire esaurientemente sia l’origine, sia il contenuto.

A queste condizioni è conseguente che la prima cosa a cadere sia l’idea stessa di Rivelazione; resta possibile l’idea di «religione naturale», rispetto a cui le religioni storiche (e pretese rivelate) sono una modalità o meglio forme e-sterne che garantiscono la funzione pubblica, sociale, istituzionale della religione, che ha la sua sostanza invece nell’intimo e nel privato della coscienza.

Quanto poi al contenuto la religione è totalmente parificata alla coscienza morale che naturalmente l’uomo possiede. La religione diventa così il luogo della sanzione e della difesa dei principi morali, della conoscenza dei doveri etici e dei precetti universali del comportamento. E proprio per questo, sotto questa forma, essa può aspirare a diventare religione veramente universale, perché naturalmente ammessa o ammissibile da tutti gli uomini.

E’ certamente patetico, per non dire farisaico (nel senso proprio di un ritorno inconsapevole al moralismo giudaico veterotestamentario), l’accanimento col quale la maggior parte dei pubblicisti dell’illuminismo protestavano continuamente la loro fedeltà cristiana, mentre forgiavano con decisione un’idea di cristianesimo in cui precisamente lo specifico della rivelazione cristiana veniva evacuato.

A partire dall’espunzione o dalla ridicolizzazione dell’idea di «peccato originale» fino alla eliminazione dell’idea di «salvezza dall’alto» la cultura «religiosa» illuminista cercava di fondare una teologia in cui Cristo potesse essere omesso! In favore di un universalismo preoccupato molto più della «tolleranza», della libertà di fede e di coscienza, che della verità.

Soffermiamoci ora a considerare gli esiti ultimi dell’ideale religioso illuminista e ritroveremo di nuovo la contraddizione di fondo. Anche l’esperienza religiosa doveva ricevere nuove possibilità di unità e di universalità, ma ha finito per sancire fratture sempre più profonde: la tolleranza universalistica, base presunta dell’abolizione di ogni differenza discriminante, accanto al guadagno della libertà di coscienza, induce il relativismo soggettivistico; la riduzione di ogni forma positiva di religione a istituzione ed apparato spacca la vita religiosa nel dualismo borghese di pubblico e privato, esterno ed interno. Infine, al livello più intimo, l’idea religiosa illuminista separa la religione dall’esperienza della dipendenza, il senso religioso dal senso del mistero, il cristianesimo dal dono della salvezza.

II senso della storia

L’ideale religioso illuminista non è senza conseguenze sul piano della concezione della storia e della sua concreta progettazione. Questo non solo perché sempre il modo del rapporto con Dio è in ultima analisi determinante del senso del tempo nell’uomo, ma anche perché storicamente sconvolgere il senso religioso dell’uomo europeo significava rompere con ciò che restava della civiltà cristiana che l’aveva generato.

Jean Jacques Rousseau

L’ideale religioso illuminista porta alla luce due convinzioni fondamentali. Innanzitutto che la natura dell’uomo è sufficiente a se stessa, cioè capace da sé della propria perfezione, perché essa è fondamentalmente buona; di conseguenza, i limiti che la via a questa perfezione incontra sono solo superficiali (dovuti ad ignoranza, superstizione, non scientificità, ecc.) oppure, comunque, appartengono alla condizione esterna, sociologica dell’uomo, alle istituzioni sociali (con Rousseau viene inventato un nuovo capo di imputazione morale e storico: la società).

In secondo luogo, diventa ancor più chiaro che per l’illuminista la ragione è adeguata al compito di sanare la storia e di conseguire la felicità, cioè di procurare all’uomo la sua integrità umana; quindi il «progresso» si carica di un vero e proprio valore salvifico, redentivo.

Questi due caratteri del senso storico che ha l’illuminismo bastano da soli a far intendere il tenace impeto antitradizionalista e la sottile vena rivoluzionaria dell’illuminismo come tale. E’ chiaro infatti che l’imperativo storico, che di fatto l’illuminismo non poteva non formulare, indica il «ritorno alla natura» come modo moderno della rigenerazione dell’uomo.

Ma questo significava necessariamente considerare il passato in quanto tale, come sedimentazione di errori, ogni tradizione come codificazione e trasmissione di essi; e le istituzioni, non rispondenti all’ideale di razionalità del tempo, come strutture da spazzar via attraverso un radicale sconvolgimento sociale (rivoluzione).

La ragione da sola è capace di conoscere e promuovere ciò che riguarda il retto comportamento del singolo e la vita giusta della società, con la stessa certezza scientifica con cui la scienza della natura scopre i principi del reale fisico. Su questo presupposto viene teorizzata un’immagine d’uomo storico che trova la sua maturità (la sua «uscita dallo stato di minorità», come Kant definiva l’essenza dell’illuminismo) nella seprazione da ogni forma di dipen­denza, comprese quelle da chi può essere «maestro», da qualunque tipo di «tradizione», da ogni realtà di «popolo».

Il concetto illuminista di storia è dunque un’idea di storia divisa dal proprio passato, un senso del tempo senza antecedenza, una attesa del futuro senza ripresa del­l’esperienza trascorsa: in sintesi, l’illusione della novità assoluta. Diventano allora più comprensibili i paradossi tipici della storia e della politica illuministe, oscillanti tra il riformismo illuminato e il rivoluzionarismo giacobino; tra l’individualismo liberale (Locke) e le teorizzazioni collettivistiche (a cominciare dal dispotismo della «volontà generale» del Rousseau).

Sarebbe assurdo misconoscere le conquiste di enorme valore che l’illuminismo ha trasmesso all’età contemporanea: sviluppo della mentalità scientifica, produzione di nuove scienze; senso del rispetto della coscienza e della tolleranza; nuova istanza della laicità dello Stato; idea democratica e i suoi istituti; nuovo senso della responsabilità storica dell’uomo; … Ma l’illuminismo è anche all’origine delle nostre tragedie.

L’uomo diviso dell’illuminismo è impotente a vivere l’unità di trascendenza e immanenza, di universale e particolare, di razionalità e affettività, di individualità e collettività, ed ha smarrito definitivamente la sapienza cristiana e la sua funzi­one di guida per l’autenticità culturale, sociale, politica della vita umana.

Tutti i grandi sistemi, culturali e sociali, post-illuministi — idealismo, positivismo, marxismo, con i loro correlati politici di tipo fascista, tecnocratico radicale, comunista — saranno altrettanti poderosi tentativi di sanare le divisioni e i dualismi così profondamente iscritti dall’illuminismo nella cultura europea.

Ma tutti manterranno in comune, tra loro e con l’illuminismo, al di là delle reciproche abissali differenze, un presupposto che li renderà al fondo mostruosi sistemi di violenza: l’oblio dell’avvenimento cristiano, misura vera dell’Uomo.