I «fatti di Genova»

Genova 1960_2Il Timone n.70 febbraio 2008

Luglio 1960: un governo Dc con l’appoggio missino  viene fatto cadere dalla violenza della piazza. E’ la svolta che porta al centro-sinistra

di Luciano Garibaldi

Si è tentato da più parti un paragone tra i «fatti di Genova» del luglio 1960 e i «fatti di Genova» del luglio 2001 (la rivolta contro il summit del «G8»). Un paragone che non regge, anche se in teoria esiste una similitudine, consistente nello scopo che i rivoltosi si erano prefissi: nel primo caso, la caduta del governo di Fernando Tambroni, il primo, nel dopoguerra, a reggersi grazie all’appoggio dei parlamentari del Msi; nel secondo caso, la caduta del governo Berlusconi, il primo ad avere addirittura affidato ministeri di primo piano agli eredi del Msi.

La differenza di fondo tra i due eventi consiste nella struttura organizzativa delle due rivolte: raffazzonata e casuale la seconda, scientifica e militare la prima. Sottolineo queste caratteristiche con piena cognizione di causa, essendo stato, all’epoca, testimone diretto dei fatti, in quanto giovanissimo cronista del Corriere Mercantile e corrispondente da Genova del Roma di Napoli. La cosa che più mi colpì fu l’organizzazione perfetta dei dimostranti nel loro attacco alla polizia.

Tutto ebbe inizio alle quattro del pomeriggio del 30 giugno 1960, allorché, sotto i miei occhi, le squadre che guidavano un corteo di almeno cinquemila persone, reduci dal comizio tenuto da Sandro Pertini in piazza della Vittoria, attaccarono a freddo le camionette della «Celere» schierate lungo la via XX Settembre, a protezione dell’hotel Bristol, dove erano asserragliati i delegati al congresso nazionale del Msi, con Michelini, De Marsanich, Almirante, Servello e tutti gli altri dirigenti di quel partito che per la prima volta dalla sua fondazione giocava un ruolo determinante nella politica nazionale. Un ruolo che la sinistra non poteva tollerare. E per questo si era opposta allo svolgimento del congresso del Msi a Genova, con il pretesto che si trattava di una «città medaglia d’oro della Resistenza».

Ma non solo la sinistra si era mobilitata per far cadere il governo Tambroni. Anche una parte della stessa Dc – e precisamente le correnti che facevano capo a Moro e a Fanfani – aveva deciso di troncare l’esperimento Tambroni che pure, in Parlamento, aveva favorito. Questa premessa è indispensabile per capire che cosa accadde veramente a Genova quel giorno.

Dopo il comizio di Pertini in piazza della Vittoria, nel corso del quale l’allora senatore del Psi (e direttore del quotidiano Il Lavoro) aveva duramente attaccato polizia e carabinieri, accusandoli di «trescare con i fascisti», il corteo degli attivisti del Pci, formato in gran parte dagli operai portuali della Culmv (Compa-gnia Unica Lavoratori Merci Varie), si diresse verso piazza De Ferrari. Saranno stati almeno cinquemila. Tra essi, alcune centinaia di ex partigiani dei Gap, un mitra per ogni tre (a uno il calcio, a uno il caricatore, a uno la canna).

Giunti all’altezza del caffè Borsa, i dimostranti, perfettamente organizzati in squadre di dieci uomini ciascuna, incominciarono ad afferrare tavolini e sedie del bar e a scagliarli con estrema violenza contro gli occupanti delle jeep della polizia. Appena iniziati i caroselli della «Celere» del Battaglione di Padova, particolarmente addestrato per affrontare le sommosse di piazza, i «camalli» estrassero dalle cinture dei pantaloni i temibili «ganci» (arnesi di ferro appuntiti e ricurvi con i quali, in porto, venivano afferrate le cime delle navi: ne recuperai uno e lo conservo ancora tra i cimeli della mia carriera di giornalista), e presero a piantarli nelle schiene, ma – quel che è peggio – nelle guance dei ragazzi della polizia. Poi, uno strappo violento, ed ecco una scapola squarciata, un braccio a penzoloni e, purtroppo, un volto devastato da parte a parte. E deturpato per sempre.

Perché i poliziotti non reagirono? Perché non spararono? La risposta è: perché avevano le armi (pistole e mitra) prive di pallottole. L’ordine di lasciare i caricatori in caserma era giunto la sera prima da Roma, dal ministro dell’Interno Giuseppe Spataro direttamente al questore dottor Lutri. Al contrario, il comando generale dell’Arma dei Carabinieri non aveva aderito, per cui l’intero Battaglione Mobile, appiedato sotto i portici di piazza De Ferrari, era armato fino ai denti.

Giusta gli ordini ricevuti, esso non intervenne a difendere i colleghi della polizia massacrati. In cambio, non fu minimamente disturbato. I capi del Pci genovese, informati da Roma, dalla segreteria di Togliatti (alla quale i particolari erano stati riferiti dalla sinistra DC), sapevano che avrebbero dovuto tenersi alla larga dai Carabinieri e non si sarebbero potuti permettere di provocarli neppure alla lontana. E così fecero.

Io ero in mezzo alla mattanza, con alcuni colleghi (pochissimi, se devo dire il vero) e un fotoreporter, Francesco Leoni. A pochi metri da me, una diecina di «camalli», afferrato un maggiore della polizia, sembrava volessero affogarlo nella fontana. Gli mettevano la testa sott’acqua, poi, quando il poveretto stava per asfissiare, lo rialzavano per fargli riprendere fiato. La tortura durò una buona mezz’ora. L’indomani mattina, su l’Unità, campeggiava in prima pagina la foto della scena con questa didascalia: «Un gruppo di compagni salva un ufficiale della polizia caduto nella fontana di De Ferrari».

Quella tremenda giornata finì con 73 poliziotti ricoverati all’ospedale San Martino, di cui una trentina con il volto perennemente sfregiato. Quanto ai «camalli», non uno si presentò agli ospedali. Avevano già predisposto i luoghi di assistenza, con i loro medici. In ogni modo, come la storia ormai ha registrato, quella giornata, seguita dai gravi disordini di Reggio Emilia, Roma e Palermo, dove si registrarono morti e feriti, segnò la fine del primo governo di centro-destra del dopoguerra e la nascita della leggenda della «rivolta del popolo genovese» contro il congresso del Msi, inventata sul momento dai cronisti e dagli inviati speciali dei giornali pregiudizialmente schierati a sinistra.

Una menzogna classica del repertorio comunista dell’epoca, suffragata non soltanto dai libri di storia che continuano ad essere adottati nelle nostre scuole, ma addirittura in testi letterari come l’operetta sovietica “Serenate di Genova”, rappresentata nei teatri russi fino alla caduta del muro di Berlino.

Rimane da parlare del ruolo ricoperto in quelle circostanze da Arturo Michelini, segretario nazionale del Msi. Giunto dal Prefetto l’ordine di sospendere il Congresso, che avrebbe dovuto svolgersi al teatro Margherita di via XX Settembre, i delegati si trasferirono all’albergo Colombia di piazza Principe, davanti alla stazione, in attesa di salire sul treno speciale per Roma, predisposto dalle Autorità.

A molti sembrava una fuga, specialmente ad Almirante e ai congressisti più giovani, che, assediati nell’albergo da una folla di comunisti rabbiosi e pronti a tutto, erano disposti ad uscire allo scoperto e ad affrontare gli avversari anche in sanguinosi corpo a corpo. Ma Michelini aveva perfettamente compreso che i comunisti erano armati e non avrebbero esitato a sparare, mentre nessuno dei congressisti – salvo pochi – era armato di pistola.

Al termine di un acceso confronto, Michelini impose a tutti la dura necessità di sgombrare l’albergo sfilando tra due plotoni schierati della polizia, questa volta armati (ne era stato informato Michelini, ma anche i capi comunisti, sicché non avrebbero osato forzare i cordoni della Celere). Fu così che, nel primo pomeriggio del 1° luglio, i congressisti percorsero le poche decine di metri che li separavano dalla stazione Principe e salirono sul treno per Roma, inseguiti dalle urla e dagli insulti della folla mobilitata.

«Per la storia della violenza in Italia», ha scritto il politologo genovese don Gianni Baget Bozzo nel suo sito www. ragionpolitica.it, «Genova è una città destino. Per la prima volta dopo il ’48 e l’attentato a Togliatti, la sinistra attaccò la polizia e spinse un ufficiale nella vasca di Piazza De Ferrari. Ne nacque una crisi tale che cadde il governo Tambroni. E il presidente Fanfani, che gli succedette, diede ragione agli atti contro i poliziotti compiuti a Genova, sostenendo che erano atti di cittadini preoccupati per la democrazia.

In questa città, dove nel Pci era forte la corrente di Pietro Secchia, che puntava sull’insurrezione, contro quella di Togliatti, che si teneva aperte le due strade dell’insurrezione e della democrazia, la violenza rossa continuò il suo cammino. Genova è la città dove nacquero e morirono le Brigate Rosse. La violenza a Genova fa storia e fa storia per l’Italia»

Bibliografia

Gianni Baget-Bozzo Luglio1960 – Tambroni e la repressione fallita, in www.ragionpolitica.it

Philip Cooke, Luglio 1960. Tambroni e la repressione fallita, Teli Editore, 2000.

Luciano Garibaldi, I retroscena dei fatti di Genova del 1960, in Storia Illustrata, n. 337, dicembre 1985.

Antonio Pitamitz, Tre protagonisti 25 anni dopo, in Storia Illustrata, n. 337, dicembre 1985