Dov’è la Vittoria

Il Borghese ottobre 2018

di Marcello Veneziani

Le istituzioni si accingono a celebrare la Vittoria come una festa dell’Europa, mettendo in sordina la Vittoria dell’Italia. Invece la Prima guerra mondiale fu esattamente il contrario: gloria dell’Italia e rovina dell’Europa. Perché l’Italia trovò la sua unità ben al di là delle terre redente, un popolo sparso si scoprì nazione, contadini e borghesi, intellettuali e analfabeti, settentrionali e meridionali. Invece l’Europa perse gli Imperi centrali e la sua centralità, vide trionfare il comunismo e l’America, e cominciò il suo inglorioso tramonto. L’Unione europea è il frutto tardivo di un’inseminazione artificiale, se non postuma.

Nella memoria degli italiani il IV novembre fu allo stesso tempo un funerale, un battesimo e un matrimonio. Il funerale riguardò, come è tragicamente risaputo, le centinaia di migliaia di morti italiani, e i milioni di morti che riempirono le trincee e i fronti di mezza Europa. Non riusciamo a separare, anche per la vicinanza con la ricorrenza dei morti, la fine della Prima guerra mondiale dal grande funerale per i soldati caduti, le messe in suffragio, le cerimonie funebri in loro ricordo. Ma il IV novembre segnò anche le nozze tra la nazione e il popolo: fu con la Vittoria che genti sparse e ceti diversi, sentirono di appartenere a una stessa nazione.

Il Risorgimento non aveva ancora unito il popolo anche se aveva unito la nazione; le trincee che coinvolsero tutti gli italiani, sancirono l’appartenenza a una stessa patria. Fu allora che nacque l’Italia come sentimento condiviso, come patria di tutti e non di lorsignori, come partecipazione e non solo come istituzione. Il 4 novembre fu il battesimo di una nazione antica in epoca moderna, la conversione di un’identità plurale e convergente, di un sentimento unitario, di una lingua gloriosa e secolare in nazione.

Ma oltre il nostro IV novembre, la Grande Guerra fu la catastrofe mondiale da cui uscì un’Europa più debole, divisa e sventrata, non più centro del mondo, ma preda dell’Urss e degli Usa. Dalla guerra uscì il bolscevismo vincente e la frustrazione tedesca portò al nazismo. Vittoria Mutilata si disse, ricordando i mutilati reduci del fronte, ma soprattutto una vittoria che non vide riconosciute le aspirazioni legittime dell’Italia. Una mezza frustrazione, aggravata dagli insulti e gli assalti socialcomunisti, che spinse al fascismo. A cento anni dal 4 novembre possiamo dire che lo Spirito di Vittorio Veneto finì col fascismo e con la guerra malamente perduta. E restò all’Italia lo spirito di Caporetto, che è poi la turpe inclinazione degli italiani.

La prima guerra mondiale ebbe un consenso di popolo decisamente inferiore rispetto alla seconda. Fu voluta da una minoranza intellettuale, studentesca e borghese. Eccitata dal “caldo bagno di sangue” a cui istigava Papini, dai discorsi infuocati di D’Annunzio e Marinetti e dalle passioni esuberanti di una generazione. La prima guerra mondiale, scrisse Fussel, rese normale l’orrore e fu la catastrofe che diede inizio ai genocidi.

Fa male questa revisione storica a chi, come noi, ha sempre nutrito sacro rispetto per i caduti di quella guerra (fra i quali alcuni familiari), a chi ha sempre difeso il loro sacrificio e la loro memoria e non intende rinunciarvi; a chi ha sempre coltivato una passione nazionale, se non “nazionalista”, che si accompagnava a un sottile disprezzo per il partito neutralista, per i Giolitti e per il “Cagoja” Nitti.

Perfino Prezzolini diventava irritante quando scriveva nel 1920 che “a Vittorio Veneto non abbiamo vinto l’Austria, che era già in pezzi. Non fu una vittoria ma una ritirata”. Ma non è possibile coltivare l’innocenza della prima guerra mondiale, rispetto alla seconda: e non è possibile disconoscere che se Papa Benedetto XV ha avuto torto a definire quella guerra “un’inutile strage” ha avuto torto per difetto: quel massacro non fu inutile ma rovinoso.

Cambiò i destini del mondo e del secolo: nacque il novus ordo, scrisse Gioacchino Volpe ne “Il popolo italiano nella grande guerra”. A quell’ordine nuovo si rifecero comunismo e americanismo, fascismo e nazismo. La spinta originaria era abbattere i residui imperi autoritari del passato, le ultime vestigia del trono e dell’altare. E infatti ebbe un ruolo non marginale nell’interventismo la massoneria.

E’ ancora da scrivere il ruolo che ebbe la massoneria nell’interventismo italiano a fianco dei francesi e degli inglesi; l’ala che si staccò dal neutralismo socialista era quasi tutta legata alla massoneria: sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Olivetti, teorici del socialismo come Giuseppe Rensi. Perfino i capitali che sostennero la nascita del Popolo d’Italia di Mussolini per perorare la causa dell’interventismo ebbero quella matrice.

Fu sconfitto il partito che sosteneva un nostro intervento a fianco degli Imperi, nella convinzione che l’Austria ci avrebbe ripagati con la cessione dei territori italiani ancora sotto il suo dominio. Era la tesi allora sostenuta dall’ambasciatore a Berlino Riccardo Bollati, da Mario Missiroli e non sdegnata da Croce e da De Lollis (che poi, però partì per il fronte). Ne scrisse mezzo secolo fa sul Borghese Piero Buscaroli.

Un grande giornalista, scrittore e patriota, Vittorio G. Rossi, che aveva combattuto nella Prima guerra mondiale raccontò dell’entrata in Trento e in Trieste: gli era stato insegnato che quelle città erano sotto il giogo soffocante del tiranno. Ma quando giunse in quelle città con la passione ardente di italiano, confessa Rossi, non sentì odore di oscurantismo e tantomeno di barbarie: vide città fiorite nella cultura, nel buon gusto e nella civiltà. Ma in quel sacrificio, in quel battesimo di sangue, poi nacque davvero l’Italia. Onore a chi si giocò la vita per consegnarla unita ai suoi smemorati posteri.

Dov’è la Vittoria, si chiedeva l’Inno d’Italia. Non la trovammo nel ’18, la oltraggiammo nel biennio a seguire, la perdemmo nel ’45, la dimenticammo negli anni seguenti.  Saltando Vittorio Veneto, siamo tornati a Caporetto.